Sono qui a togliere erba dall’aiuola dove ho piantato quattro zucchine e sto pensando alla cura dell’orto. Curare l’orto è una cosa che sto facendo ogni giorno da un po’ di tempo, mentre mi godo il sole del tardo pomeriggio. L’orto ha bisogno di cura perché l’orto è qualcosa che scappa, ha una sua vita, una sua testa, e se scappa tu gli devi tener dietro, se vuoi mangiar qualcosa.
Scappa sempre lui, l’erba che cresce, circonda le piante,
toglie ossigeno. E poi le lumache che improvvisamente
circondano minacciosamente le tue preziose piantine dopo uno scroscio di
pioggia, e poi le talpe che arrivano minacciando le radici e i
ravanelli, e poi il troppo caldo, il troppo freddo, l’angolo del
sole, e l’acqua (quanta acqua? da dove la prendo? La raccolgo
dalle grondaie, o mi basta quella del pozzo?). E poi il concime (quanto?
come? dove? quale? il letame? o il macerato di ortica?). Stare dietro all’orto
vuol dire fare della governanza, ma è un governo che per essere
tale deve accettare l’autonomia delle piante, il loro moto
sistemico, e la loro finalità, che è quella di esistere, crescere e riprodursi.
Quando stai governando le piante del tuo orto, stai prendendoti cura dell’orto,
e ciò implica sempre delle scelte. Strappi erba per far respirare i pomodori,
ma lasci quell’altra erba li perché è buona per il terreno, gli mette azoto e
lo tiene più friabile (o almeno così mi hanno detto). Scegliere quanto e dove
tagliare l’erba è una scelta che dipende dalla tua prospettiva, dal modello che
vuoi utilizzare per orientare le tue azioni. Dove sto io, qui strappano tutto,
fanno il deserto attorno alle piante dell’orto. Io seleziono, cerco di farle
respirare, ma anche lasciare un po’ di bio-diversità e facilitare la sinergia
tra diverse piante. In entrambi i casi stai curando l’orto. E la cura richiede
in primo luogo il porsi degli interrogativi: questa pianta di zucchine
qui davanti a me per esempio, perché è più brutta delle altre? Perché ha quelle
due foglie gialle appassite mentre invece le altre sono tutte belle verdi? E
allora la guardi, la osservi, e scopri poi che magari la terra attorno è stata
pigiata da qualcosa, da qualche animale, o magari da te stesso mentre ti
appoggiavi sull’aiuola per strappare l’erba. E allora decidi che forse è meglio
zappettare attorno alla pianta, e allora ti metti a zappettare la terra attorno
per dare alla pianta un po’ più di ossigeno, e fra qualche giorno devi tornare
ad osservarla e valutare se la tua azione ha portato a qualche frutto, alla
ricerca del feedback che ti sprona a correggere il tiro e a valutare il tuo
modello interpretativo. Anche questo andare e divenire osservando,
comparando, valutando, la chiave di volta della cibernetica, è parte della cura
dell’orto.
È chiaro che nella cura dell’orto l’esperienza conta. Cos’è l’esperienza? È un’accumulazione
di conoscenza, fatta di osservazioni, riflessioni, di studio e anche di
confronto con altri. È una storia di domande che ti sei posto a fronte di
problemi che hai incontrato, È l’aver navigato attraverso vari approcci e
cercato una soluzione, una qualche risposta, almeno temporanea. E poi si
dovranno anche valutare i risultati, se quella risposta sia stata
effettivamente una soluzione a quel problema in quel dato contesto. Cosa
ti da la conoscenza allora? Alla fine ti da una grado di anticipazione. Permette
di trasformare il sistema che hai instaurato con la natura, o meglio con la
nicchia ecologica con la quale interagisci attraverso la relazione di cura
dell’orto, in quello che si chiama un sistema anticipatorio. Un sistema
anticipatorio è per Robert Rosen un sistema che contiene dentro se stesso un
modello di predizione di se stesso e del suo ambiente, e che perciò permette in
un istante, e in accordo con il modello, di fare predizioni che appartengono a
un altro istante.
In parole povere, io che nella mia cura dell’orto sto in rapporto sistemico
con le piante, sto pure qui a riflettere sul perché e il percome delle foglie
gialle delle mie zucchine, e so, grazie al mio modello interno maturato nel
corso della mia esperienza, che se non faccio nulla la pianta non migliora
anzi, magari non sopravvive. Ecco la mia predizione. Mi interrogo dunque sul
cosa fare, mettendo così in moto altri modelli interpretativi, e facendo le mie
selezioni, le mie scelte, che sono poi scelte di valore, di ciò che è buono e
ciò che è male. Dunque il modello anticipatorio che ho messo in atto nel mio
rapporto con le zucchine, non è molto diverso da quello che mettiamo in atto
quando osserviamo con scetticismo i potenti della terra spendere belle parole
sulla necessità di affrontare il cambio climatico, mentre
posticipano di decennio in decennio le scelte drastiche e coraggiose che
sarebbero richieste. La differenza, è che alla scala del mio orto, io come
soggetto ho le capacità — almeno così spero — di affrontare la crisi della mia
piantina di zucchine. Ma alla scala globale del cambio climatico, ci vorrebbe
la formazione di un soggetto assai più potente, creata da una mobilitazione e
articolazione di capacità e poteri assai più ampia. Perché sennò è facile
anticipare che saranno guai, perché già lo sono.
Valore d’uso
e valore d’uso per gli altri
Ora, chiediamoci perché io curo l’orto, perché faccio questa
fatica? E qui parliamo di funzione, scopo, finalità, intenzionalità,
tutti aspetti che fanno di me, insieme all’insieme delle capacità che riesco a
mobilitare, un soggetto. Il mio scopo, o meglio, la finalità di questo sistema
che ho instaurato con la nicchia ecologica che è il mio orto, è quella di avere
un raccolto, un buon raccolto diciamo, nei limiti di quello che ho piantato
e seminato, un buon raccolto sia dal punto di vista qualitativo che
quantitativo in modo da soddisfare i miei bisogni e quelli della mia
famiglia/micro comunità. Questo credo sia il desiderio di qualsiasi persona che
si dedica alla cura del proprio orto. E questo va bene, è la finalità
principale. Però come in ogni attività di produzione dovremmo fare
attenzione anche a un’altra finalità, perché se anche non ci facciamo
attenzione, lei è li lo stesso. Qualsiasi processo di produzione
implica il perseguimento di proprie finalità ma allo stesso tempo esso
contribuisce — sia che i produttori ne siano consapevoli, sia che non lo siano
— alla formazione del contesto entro il quale il nostro operato si svolge.
Produrre significa agire su un contesto attraverso le molte scelte che si sono
fatte, le molteplici interazioni (con sistemi sociali o naturali) che si sono
portate avanti al fine di raggiungere appunto quella finalità produttiva
principale, i nostri scopi. Il rapporto di cura significa e implica in primo
luogo non solo voler soddisfare il proprio bisogno, cioè perseguire la propria
finalità, ma anche essere consapevole di come la tua attività sta contribuendo
alla creazione di questo contesto. Se la prima finalità è quella del
valore d’uso, la seconda finalità è quella del valore d’uso per altri (che
questi altri siano sistemi naturali o sociali non importa qui), cioè per ciò
che forma il contesto della tua azione. Nel caso del mio orto, parlo del
chiedersi come la propria attività influisca sulla nicchia ecologica, ma anche
sui rapporti sociali/familiari.
Ma poiché nella mia cosmologia le diverse scale della vita sono tutte
collegate, ciò che influisce su un contesto di nicchia avrà anche un effetto su
ecosistemi via via più grandi attraverso continui scambi
materiali e di informazioni. Il mio modo di produrre e
relazionarmi nel mio spazio/tempo, avrà quindi effetti da me incontrollabili su
contesti e i relativi spazi/tempi (e viceversa altri contesti hanno
effetti su di me). È meglio quindi che io non usi pesticidi e concimi
chimici, non solo perché alla lunga rovinerebbero la terra del mio orto
rendendola meno fertile, ucciderebbero forme di vita molte delle quali mi
potrebbero essere utili, contribuirebbero a inquinare falde acquifere e
aumenterebbero la mia dipendenza al mercato capitalistico (proprio quando
l’orto esprime il mio desiderio di scollegarmi almeno un po’ da esso), ma anche
perché questi effetti non ricadrebbero solo nel mio ambito, nel mio contesto,
ma anche nel contesto comune, di altri spazi/tempi e di altre scale. E anche se
non conosco i volti di chi potrebbe pagare il conto del mio operato, mi sento
comunque di essere responsabile.
Anche gli attori del capitalismo, con la produzione di merci, guardano alla
produzione di valore d’uso per altri. In mano al venditore la merce è valore
d’uso per altri, solletica i desideri di questi altri, li stimola e spesso li
induce a scambiare il proprio denaro con questo valore d’uso. Ma per il
produttore/venditore capitalistico questi altri sono importanti solo nella
misura in cui essi sono potenziali clienti, solo nella misura in cui essi
favoriscono la realizzazione del suo profitto. Oltre a questa dimensione,
l’altro non solo è sconosciuto nel volto, ma anche invisibile nel suo
contributo al contesto comune dell’esistenza, un’invisibilità che contribuisce
alla sua svalorizzazione (si pensi a donne, migranti e lavoratori precari
“essenziali”).
Credo sia ovvio dire che ogni attività produttiva contribuisce alla
creazione del contesto nel quale tutti operano, un contesto comune. Nel
rapporto produttivo di cura, il contesto prodotto è un contesto che fa parte
della mia riflessione, della mia problematizzazione. Non è quindi più visto
come esternalità (positiva o negativa), come “danno” o beneficio “collaterale”,
ma è una modulazione diversa di internalità, un interno accresciuto, che si
allarga in sfere concentriche, perché ciò che sta fuori l’ho fatto entrare
nelle mie preoccupazioni, nelle mie anticipazioni, nella progettazione delle
mie azioni, anche se so che è impossibile stabilire a priori tutti gli infiniti
effetti del mio operato alla diverse scale (nella complessità del mondo esiste
la non linearità e l’emergenza imprevista di nuovi stati sistemici).
Forme
orizzontali e includenti di co-produzione e auto-governo
E comunque questo contesto lo produciamo collettivamente in vari modi,
abbracciando un certo tipo di filosofia, di approccio al come produrre,
piuttosto che un altro. Per esempio, il mio modo di rapportarmi alla cura
dell’orto fa uso generalmente di un approccio agroecologico in
senso molto lato. Da curioso praticante dell’arte dell’orto con tutti i miei
limiti e paletti, navigo tra le varie scuole e tradizioni che incontro
casualmente o mi vado a cercare e che fanno parte di questa costellazione
agroecologica, anche se faccio i miei compromessi minimi con l’agroindustria
perché alcuni semi li devo comunque comprare e non ho sempre a disposizione una
banca del seme o una rete dei contadini, e no, non ho il tempo, la voglia e i
mezzi per costruirmi la zappa o la pompa per l’acqua. Però anche abbracciando
una filosofia produttiva, un approccio, mi inserisco nella sfera del comune
creato da varie conversazioni e discorsi con le quali cerco di rapportarmi in
modo da facilitare la mia riflessione per fare scelte concrete, ma consapevoli,
nel mio operato.
Ma ci sono ben altri modi di produrre contesto. Infatti, un’attività
produttiva di qualsiasi natura e a qualsiasi scala contribuisce alla creazione
del contesto nel quale opera a seconda del tipo dei rapporti di cura adottati.
Ora, poiché siamo tutti, per il bene o per il male, in questa condizione di
creare contesto per altri, bisogna anche riconoscere che operiamo anche tutti
in contesti diversi, con diverse capacità di mobilitare potere sociale e di
prendere parola. Allo stato dei fatti e definito per uno spazio/tempo
specifico, o una scala specifica, il comune non è altro che questo
contesto co-creato dalle nostre molteplici attività produttive, sia che ne
siamo consapevoli sia che non lo siamo. Se ci riflettiamo un po’ su,
questo comune come contesto, è il risultato di forme di governanza
del contesto comune disparate, a vari livelli e scale spazio/temporali, che
avvengono in forme organizzative assai diverse: c’è una governanza fatta da
un’insieme di gerarchie di comando nette e marginalizzanti;
c’è una governanza che si basa su modelli di interazione competitiva per
i quali qualcuno vince e qualcuno perde (cosa che stimola la corsa continua per
la riproduzione delle nostre vite, e l’estrattivismo più bieco e distruttore);
c’è la governanza che si svolge attraverso forme orizzontali e includenti di
co-produzione e auto-governo, dove la gerarchia di comando è l’oggetto della
satira e della lotta, e la competizione è il dominio di qualche gioco conviviale
dove nessuno perde i suoi diritti e i suoi mezzi per vivere se perde. Il
nostro comune come contesto del nostro fare, dal punto di
vista sociale, è l’insieme di tutti questi diversi modi contraddittori
di relazionarsi, di organizzare la cooperazione sociale. Se quindi
ci sono i problemi che ci sono (e vi lascio pensare alle crisi del
nostro tempo che preferite), è perché dentro questo comune come contesto c’è
troppa egemonia delle forme di governanza che separano (competizione) e
verticalizzano (gerarchia di comando). C’è bisogno di far crescere le forme
orizzontali e includenti di co-produzione e auto-governo, a tutte le scale
della società. Solo così si può affrontare la complessità delle grandi crisi
croniche del nostro tempo.
Ecco quindi che affrontare la governanza del comune come nostra condizione
richiede che il comune non sia solo condizione, non si può esaurire in
questa condizione, ma sia anche progetto. Il
nostro prendere atto di questa condizione è al tempo stesso mettere in moto i
nostri modelli anticipatori, articolarli, riflettere sulle tendenze, metterci
in rapporto ad esse e fare co-creazione consapevole di un modo
di produrre del contesto del nostro diverso operato per cambiare quelle
tendenze. È questo il desiderio di creazione di un contesto comune
entro il quale siamo tutti liberi, ma allo stesso tempo riconosciamo che siamo
tutti collegati e interdipendenti e che tutti abbiamo bisogno di
vivere con dignità. Il comune come progetto parte dunque dal comune come
contesto, per cambiarlo. È in questo sforzo collettivo, riflessivo e inclusivo,
che si da la produzione specifica del valore da parte del comune. Il comune che
crea valore non è più solo contesto, e non è più solo progetto. è un modo di
produzione di un nuovo contesto di vita, orientato dal suo progetto in
divenire. Ed ecco quindi che il comune crea valore proprio quando
contribuisce virtuosamente alla creazione di contesto— con i suoi circuiti
produttivi, le sue relazioni inclusive e orizzontali, la sua profonda capacità
democratica, la sua sensibilità ambientale e dei rapporti di potere.
È incredibile quali sinapsi si accendono e quali tangenti si percorrono
riflettendo sulle zucchine. Dovrò riguardarmi il mitico film con Peter
Sellers, Oltre il Giardino.
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