Fino a tempi non lontani
la medicina si sforzava di valorizzare ciò che avviene in natura: favoriva la
tendenza delle ferite a sanarsi, del sangue a coagularsi, dei batteri a farsi
sopraffare dall'immunità naturale. Oggi invece essa cerca di materializzare i
sogni della ragione. I contraccettivi orali, per esempio, vengono ordinati «per
prevenire un evento normale nelle persone sane». Certe terapie inducono
l'organismo a interagire con delle molecole o delle macchine in modi che non
hanno precedenti nell'evoluzione. I trapianti implicano la completa
obliterazione delle difese immunologiche programmate geneticamente. Perciò il
collegamento fra il bene del malato e il successo dello specialista non si può
dare per presupposto; ormai dev'essere dimostrato, e l'apporto netto della
medicina al carico di malattia della collettività va calcolato dall'esterno
della professione. Ma qualunque accusa contro la medicina per il danno clinico
ch'essa provoca non è che il primo passo nell'incriminazione della medicina
patogena. Il segno lasciato nei campi è solo un ricordo del danno ben maggiore
procurato dal barone al villaggio devastato dalla sua caccia.
Iatrogenesi sociale
La medicina pregiudica
la salute non soltanto con la diretta aggressione agli individui, ma anche per
l'effetto della sua organizzazione sociale sull'intero ambiente. Quando il
danno medico alla salute individuale è prodotto da un modo di trasmissione
sociopolitico, parlerò di «iatrogenesi sociale», intendendo con questo termine
tutte le menomazioni della salute dovute appunto a quei cambiamenti
socioeconomici che sono stati resi desiderabili, possibili o necessari dalla
forma istituzionale assunta dalla cura della salute. La iatrogenesi sociale
designa una categoria eziologica che abbraccia molteplici manifestazioni.
Insorge allorché la burocrazia medica crea cattiva salute aumentando lo stress,
moltiplicando rapporti di dipendenza che rendono inabili, generando nuovi
bisogni dolorosi, abbassando i livelli di sopportazione del disagio o del
dolore, riducendo il margine di tolleranza che si usa concedere all'individuo
che soffre, e addirittura abolendo il diritto di autosalvaguardarsi. La
iatrogenesi sociale agisce quando la cura della salute si tramuta in un
articolo standardizzato, un prodotto industriale; quando ogni sofferenza viene
«ospitalizzata» e la case diventano inospitali per le nascite, le malattie e le
morti; quando la lingua in cui la gente potrebbe far esperienza del proprio
corpo diventa gergo burocratico; o quando il soffrire, il piangere e il guarire
al di fuori del ruolo di paziente sono classificati come una forma di devianza.
Monopolio medico
Come il suo
corrispettivo clinico, la iatrogenesi sociale, da aspetto occasionale, può
svilupparsi fino a diventare una caratteristica intrinseca al sistema medico.
Quando l'intensità
dell'intervento biomedico supera una soglia critica, la iatrogenesi clinica si
trasforma in errore, infortunio o difetto, in una insanabile perversione della
pratica medica. Allo stesso modo, quando l'autonomia professionale degenera in
un monopolio radicale e la gente è resa incapace di far fronte al proprio
ambiente, allora la iatrogenesi sociale diventa il principale prodotto
dell'organizzazione medica.
Il monopolio radicale va
più in fondo di quello di una ditta o di un governo. Può assumere varie forme.
Quando una città viene costruita intorno ai veicoli, toglie valore ai piedi
umani; quando la scuola ha la prelazione sull'apprendimento, svaluta
l'autodidatta; quando l'ospedale diventa il centro di raccolta obbligato di
tutti quelli che si trovano in condizioni critiche, impone alla società una
nuova forma di agonia. I monopoli comuni si accaparrano il mercato; i monopoli
radicali rendono la gente incapace di fare da sé. Il monopolio commerciale
limita il flusso di merci; il monopolio sociale, più insidioso, paralizza la
produzione dei valori d'uso non commerciali. I monopoli radicali usurpano
ancora di più la libertà e l'indipendenza: rimodellando l'ambiente e «appropriandosi»
di quelle sue caratteristiche generali che avevano fin lì permesso alla gente
di cavarsela da sola, obbligano un'intera società a sostituire i valori d'uso
con delle merci.
L'istruzione intensiva
fa dell'autodidatta un candidato alla disoccupazione, l'agricoltura intensiva
elimina il contadino autosufficiente, lo spiegamento di polizia sgretola la
capacità d'autocontrollo della comunità. La propagazione maligna della medicina
ha risultati analoghi: trasforma l'assistenza reciproca e l'automedicazione in
atti illeciti o criminosi. Come la iatrogenesi clinica diventa incurabile dai
medici quando raggiunge una intensità critica e può allora regredire solo con
un ridimensionamento dell'impresa, così la iatrogenesi sociale è reversibile
solo mediante un'azione politica che riduca il dominio professionale.
Il monopolio radicale si
nutre di se stesso. La medicina iatrogena rafforza una società morbosa nella
quale il controllo sociale della popolazione da parte del sistema medico
diventa un'attività economica fondamentale; serve a legittimare ordinamenti
sociali in cui molti non riescono ad adattarsi; definisce inabili gli
handicappati e genera sempre nuove categorie di pazienti. L'individuo che è
irritato, nauseato e menomato dal lavoro e dallo svago industriali può trovare
scampo solo in una vita sotto vigilanza medica e viene distolto o escluso dalla
lotta politica per un mondo più sano.
La iatrogenesi sociale
non è ancora accettata come una normale eziologia di stato morboso. Se si
ammettesse che la diagnosi spesso serve come mezzo per convertire le lagnanze
politiche contro lo stress della crescita in richieste di maggiori terapie che
significano solo maggiori quantità dei suoi costosi e stressanti prodotti, il
sistema industriale perderebbe una delle sue principali difese. Nello stesso
tempo, la consapevolezza della misura in cui la cattiva salute iatrogena è
trasmessa politicamente scuoterebbe le basi del potere medico molto di più di
qualunque catalogo delle insufficienze tecniche della medicina.
Cure indipendenti dai
valori?
Il problema della
iatrogenesi sociale viene spesso confuso con l'autorità diagnostica del
guaritore. Per disinnescare il problema e difendere la propria reputazione,
alcuni medici insistono sull'ovvio: e cioè che non si può praticare la medicina
senza che si abbia una creazione iatrogena di malattia. La medicina crea sempre
la malattia come stato sociale. Il guaritore ufficialmente riconosciuto
trasmette agli individui le possibilità sociali di comportarsi da malati. Ogni
cultura ha un proprio modo di concepire la malattia e quindi una sua peculiare
maschera sanitaria. La malattia prende i suoi caratteri dal medico, il quale
assegna agli attori uno dei ruoli disponibili. Rendere la gente legittimamente
malata è altrettanto implicito nel potere del medico quanto il potenziale
tossico nel rimedio che funziona. Lo stregone padroneggia veleni e incantesimi.
L'unico termine che avevano i greci per «medicinale», pharmakon,
non faceva distinzioni tra il potere di guarire e il potere di uccidere.
La medicina è un'impresa
morale, e inevitabilmente perciò dà contenuto al bene e al male. In ogni
società la medicina, al pari del diritto e della religione, definisce ciò che è
normale, giusto o desiderabile. La medicina ha l'autorità di etichettare come
malattia legittima ciò che lamenta un individuo, di dichiarare malato un altro
che non si lamenta, e di rifiutare a un terzo il riconoscimento sociale della
sua sofferenza, della sua invalidità e persino della sua morte. È la medicina
che autentica un certo dolore come «meramente soggettivo», una determinata
infermità come simulazione e certe morti (e non altre) come suicidio. Il
giudice stabilisce che cosa è legale e chi è colpevole, il prete dichiara che
cosa è sacro e chi ha violato un tabù; il medico decide che cosa è un sintomo e
chi è malato. Egli è un imprenditore morale, dotato di poteri inquisitori per
scoprire certi torti da raddrizzare. Come tutte le crociate, la medicina crea
un nuovo gruppo di diversi ogni volta che fa attecchire una nuova diagnosi. La
morale è altrettanto implicita nella malattia quanto nel delitto o nel peccato.
Nelle società primitive
è ovvio per tutti che l'esercizio dell'arte medica comporta il riconoscimento
di un potere morale: nessuno chiamerebbe lo stregone se non gli riconoscesse
l'abilità di discernere gli spiriti maligni da quelli buoni. In una civiltà
superiore questo potere si espande. Qui la medicina è esercitata da specialisti
a tempo pieno, i quali controllano vaste popolazioni per mezzo di istituzioni
burocratiche. Questi specialisti formano professioni le quali esercitano sul
loro lavoro un tipo di controllo che è unico nel suo genere. Diversamente dai
sindacati, infatti, esse debbono la loro autonomia non alla vittoria conseguita
in una lotta, ma a un mandato di fiducia. Diversamente dalle associazioni di
mestiere, le quali si limitano a stabilire chi ha il diritto di lavorare e a
quali patti, esse stabiliscono anche quale lavoro bisogna fare. Nata spesso da
riforme delle facoltà di medicina (negli Stati Uniti, per esempio, alla vigilia
della prima guerra mondiale), la professione medica è la manifestazione, in un
settore particolare, del controllo sulla struttura del potere di classe
acquisito dalle élite di formazione universitaria nel corso dell'ultimo secolo.
Soltanto i dottori oggi «sanno» che cosa costituisce una malattia, chi è
malato, e che cosa bisogna fare al malato e a quelli che essi considerano
«esposti ad uno speciale rischio». Paradossalmente, la medicina occidentale,
che ha sempre affermato di voler tenere separato il proprio potere dalle
religione e dalla legge, l'ha ormai esteso al di là di ogni precedente. In
alcune società industriali la classificazione sociale è stata medicalizzata a
tal punto che ogni devianza deve avere un'etichetta medica. L'eclissi della
componente esplicitamente morale della diagnosi medica ha così conferito
all'autorità asclepiea un potere totalitario.
Si è difeso il divorzio
della medicina dalla morale con l'argomento che le categorie mediche, a
differenza di quelle giuridiche e religiose, poggiano su fondamenti scientifici
non soggetti a giudizio morale. L'etica sanitaria è stata occultata in un
reparto specializzato, che aggiorna la teoria alla pratica effettiva. I
tribunali e la legge, quando non vengono impiegati per far rispettare il
monopolio asclepieo, sono trasformati in portieri dell'ospedale, addetti a
selezionare tra i postulanti quelli che rispondono ai criteri stabiliti dai
medici. Gli ospedali diventano monumenti di scientismo narcisistico, concretizzazioni
dei pregiudizi professionali ch'erano di moda il giorno in cui fu posta la loro
prima pietra e che spesso risultano superati il giorno dell'inaugurazione.
L'impresa tecnica del medico vanta un potere esente da valori. In un simile
contesto, è ovvio, diventa facile schivare il problema della iatrogenesi
sociale di cui mi occupo. Il danno medico mediato politicamente viene visto
come inerente al mandato della medicina, e chi lo critica è considerato un
sofista che cerca di giustificare l'intrusione dei profani nel territorio di
competenza del medico. Proprio per questo motivo è urgente un'analisi profana
della iatrogenesi sociale. L'affermazione che l'attività terapeutica sarebbe
indipendente dai valori è ovviamente un nefasto nonsenso, e i tabù che hanno
fatto scudo alla medicina irresponsabile cominciano a crollare.
La medicalizzazione del
bilancio
La misura più semplice
della medicalizzazione della vita è la quota del reddito annuo tipico che viene
spesa su ordine del medico. […]
In tutti i paesi la
medicalizzazione del bilancio è in rapporto con ben note situazioni di
sfruttamento all'interno della struttura di classe. Non c'è dubbio che il
dominio delle oligarchie capitalistiche negli Stati Uniti, l'arroganza dei
nuovi mandarini in Svezia, la servilità e l'etnocentrismo dei professionisti
moscoviti e le manovre di corridoio degli ordini dei medici e dei farmacisti,
come pure la nuova ondata di sindacalismo corporativo nel settore sanitario,
costituiscono tanti formidabili ostacoli a una distribuzione delle risorse che
avvantaggi i malati anziché i loro sedicenti tutori. Ma la ragione fondamentale
per cui queste costose burocrazie sono perniciose per la salute non sta nella
loro funzione strumentale, bensì nella loro funzione simbolica; esse esaltano
tutte quante il concetto di prestazioni di assistenza per la componente umana
della megamacchina, e le critiche che rivendicano una prestazione migliore e
più equa non fanno che consolidare l'impegno sociale a tener occupata la gente
in lavori che la fanno ammalare. La guerra tra i fautori delle mutue e quelli
che invece vogliono un servizio sanitario nazionale, come la guerra tra chi
difende e chi combatte la libera professione, sposta l'attenzione pubblica dal
danno causato dalla medicina che protegge un ordinamento sociale distruttivo,
al fatto che i medici fanno meno di quanto ci si aspetta a tutela della società
dei consumi.
Al di là di una certa
incidenza sul bilancio, il denaro che espande il controllo medico sullo spazio,
sugli orari, sull'istruzione, sulla dieta, sul disegno delle macchine e dei
beni finisce inevitabilmente per scatenare un «incubo forgiato di buone
intenzioni». Il denaro può sempre minacciare la salute; troppo denaro la
corrompe. Al di là di un certo punto, ciò che può produrre denaro o ciò che si
può comprare col denaro restringe l'ambito della «vita» scelta autonomamente.
Non soltanto la produzione ma anche il consumo accentua la scarsità di tempo,
di spazio e di scelta. Il prestigio della merce medica non può quindi che insidiare
la coltivazione della salute, la quale, all'interno di un ambiente dato,
dipende in larga misura dal vigore innato e congenito. Quanto più tempo, fatica
e sacrifici vengono spesi per produrre medicina-merce, tanto maggiore sarà il
sottoprodotto, cioè la falsa idea che la società abbia una provvista di salute riposta
che può essere tirata fuori e messa sul mercato. La funzione negativa del
denaro è quella di un indicatore della svalutazione dei beni e servizi che non
si possono comprare. Più alto è il prezzo da sborsare per carpire il benessere,
tanto maggiore è il prestigio politico d'una espropriazione della salute
pubblica.
L'invasione farmaceutica
Non occorrono dottori
per medicalizzare i farmaci di una società. Anche
senza troppi ospedali e facoltà di medicina una cultura può diventare preda di
una invasione farmaceutica. Ogni cultura ha i suoi veleni, i sui rimedi, i suoi
placebo e i suoi scenari rituali per la loro somministrazione. La maggior parte
di essi è destinata ai sani più che ai malati. I potenti farmaci medici
distruggono facilmente la struttura, radicata nella storia, che adatta ogni
cultura ai suoi veleni; di solito essi procurano più danno che beneficio alla
salute, e finiscono con l'instaurare una nuova mentalità per cui il corpo viene
visto come una macchina, azionata da manopole e interruttori meccanici.
[…] Ancora 10 anni fa,
in Messico, quando la popolazione era povera, i medicinali relativamente scarsi
e la maggior parte dei malati era assistita dalla vecchia nonna o dall'erborista,
i prodotti farmaceutici erano accompagnati da un foglietto di spiegazioni; oggi
che le medicine sono più abbondanti, potenti e pericolose e si vendono per
televisione e per radio e la gente che ha fatto le scuole si vergogna della
propria residua fede nel guaritore azteco, il foglietto descrittivo è stato
sostituito da un'avvertenza sempre uguale che dice: «Da usare secondo
prescrizione medica». La finzione intesa a esorcizzare il farmaco
medicalizzandolo, in realtà, non fa che confondere l'acquirente: ammonendolo a
consultare un medico gli fa credere d'essere incapace di badare a se stesso.
Nella maggior parte del mondo i medici non sono abbastanza ben distribuiti per
poter prescrivere terapie a doppio taglio ogni volta che occorre, ed essi
stessi nella maggioranza dei casi sono impreparati, o troppo ignoranti, per
poter prescrivere con la necessaria cautela. Di conseguenza la funzione del
medico, specialmente nei Paesi poveri, è diventata banale: il dottore si è
trasformato in una volgare macchina da ricette che tutti prendono in giro, e la
maggioranza della gente prende ormai le stesse medicine, altrettanto a caso, ma
senza il suo benestare.
[…]
Lo stigma preventivo
Mentre l'intervento
curativo si veniva concentrando sempre su stati per i quali esso è inefficace,
costoso e doloroso, la medicina cominciava a smerciare prevenzione. Il concetto
di morbosità si è esteso fino ad abbracciare i rischi pronosticati. Dopo la
cura delle malattie, anche la cura della salute è diventata una merce, cioè
qualcosa che si compra e non che si fa. […] Ci si tramuta in pazienti senza
essere malati. La medicalizzazione della prevenzione diventa così un altro
grande sintomo di iatrogenesi sociale. Essa tende a trasformare la mia
responsabilità personale per il mio futuro in gestione del mio essere da parte
di qualche agenzia.
[…]
L'esecuzione sistematica
di controlli diagnostici precoci su vaste popolazioni garantisce al
medico-ricercatore un'ampia base da cui attingere i casi che meglio si adattano
ai sistemi di cura esistenti o che sono più utili per portare avanti le
indagini, servano o no le terapie a guarire o a dare sollievo. Ma mentre
avviene questo, le persone si rafforzano nell'idea di essere delle macchine la
cui durata dipende dalle visite all'officina di manutenzione, e sono così non
solo obbligate ma trascinate a pagare perché la corporazione medica possa fare
i suoi studi di mercato e sviluppare la sua attività commerciale.
La diagnosi, sempre,
aggrava lo stress, stabilisce un'incapacità, impone inattività, concentra i
pensieri del soggetto sulla non-guarigione, sull'incertezza e sulla sua
dipendenza da futuri ritrovati medici: tutte cose che equivalgono a una perdita
di autonomia nella determinazione di sé. Inoltre, isola la persona in un ruolo
speciale, la separa dai normali e dai sani ed esige sottomissione all'autorità
di un personale specializzato. Quando tutta una società si organizza in
funzione di una caccia preventiva alle malattie, la diagnosi assume allora i
caratteri di una epidemia. Questo strumento tronfio della cultura terapeutica
tramuta l'indipendenza della normale persona sana in una forma intollerabile di
devianza. Alla lunga, l'attività principale di una simile società dai sistemi
introvertiti porta alla produzione fantomatica di speranza di vita come merce.
Identificando l'uomo statistico con gli uomini biologicamente unici, si crea
una domanda insaziabile di risorse finite. L'individuo è subordinato alle
superiori «esigenze» del tutto, le misure preventive diventano obbligatorie, e
il diritto del paziente a negare il consenso alla propria cura si vanifica
allorché il medico sostiene ch'egli deve sottoporsi alla diagnosi non potendo
la società permettersi il peso d'interventi curativi che sarebbero ancora più
costosi.
[Nemesi medica, 1976]
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