mercoledì 10 febbraio 2021

La medicalizzazione della vita - Ivan Illich

 

 

Fino a tempi non lontani la medicina si sforzava di valorizzare ciò che avviene in natura: favoriva la tendenza delle ferite a sanarsi, del sangue a coagularsi, dei batteri a farsi sopraffare dall'immunità naturale. Oggi invece essa cerca di materializzare i sogni della ragione. I contraccettivi orali, per esempio, vengono ordinati «per prevenire un evento normale nelle persone sane». Certe terapie inducono l'organismo a interagire con delle molecole o delle macchine in modi che non hanno precedenti nell'evoluzione. I trapianti implicano la completa obliterazione delle difese immunologiche programmate geneticamente. Perciò il collegamento fra il bene del malato e il successo dello specialista non si può dare per presupposto; ormai dev'essere dimostrato, e l'apporto netto della medicina al carico di malattia della collettività va calcolato dall'esterno della professione. Ma qualunque accusa contro la medicina per il danno clinico ch'essa provoca non è che il primo passo nell'incriminazione della medicina patogena. Il segno lasciato nei campi è solo un ricordo del danno ben maggiore procurato dal barone al villaggio devastato dalla sua caccia.

 

Iatrogenesi sociale

La medicina pregiudica la salute non soltanto con la diretta aggressione agli individui, ma anche per l'effetto della sua organizzazione sociale sull'intero ambiente. Quando il danno medico alla salute individuale è prodotto da un modo di trasmissione sociopolitico, parlerò di «iatrogenesi sociale», intendendo con questo termine tutte le menomazioni della salute dovute appunto a quei cambiamenti socioeconomici che sono stati resi desiderabili, possibili o necessari dalla forma istituzionale assunta dalla cura della salute. La iatrogenesi sociale designa una categoria eziologica che abbraccia molteplici manifestazioni. Insorge allorché la burocrazia medica crea cattiva salute aumentando lo stress, moltiplicando rapporti di dipendenza che rendono inabili, generando nuovi bisogni dolorosi, abbassando i livelli di sopportazione del disagio o del dolore, riducendo il margine di tolleranza che si usa concedere all'individuo che soffre, e addirittura abolendo il diritto di autosalvaguardarsi. La iatrogenesi sociale agisce quando la cura della salute si tramuta in un articolo standardizzato, un prodotto industriale; quando ogni sofferenza viene «ospitalizzata» e la case diventano inospitali per le nascite, le malattie e le morti; quando la lingua in cui la gente potrebbe far esperienza del proprio corpo diventa gergo burocratico; o quando il soffrire, il piangere e il guarire al di fuori del ruolo di paziente sono classificati come una forma di devianza.

 

Monopolio medico

Come il suo corrispettivo clinico, la iatrogenesi sociale, da aspetto occasionale, può svilupparsi fino a diventare una caratteristica intrinseca al sistema medico.

Quando l'intensità dell'intervento biomedico supera una soglia critica, la iatrogenesi clinica si trasforma in errore, infortunio o difetto, in una insanabile perversione della pratica medica. Allo stesso modo, quando l'autonomia professionale degenera in un monopolio radicale e la gente è resa incapace di far fronte al proprio ambiente, allora la iatrogenesi sociale diventa il principale prodotto dell'organizzazione medica.

Il monopolio radicale va più in fondo di quello di una ditta o di un governo. Può assumere varie forme. Quando una città viene costruita intorno ai veicoli, toglie valore ai piedi umani; quando la scuola ha la prelazione sull'apprendimento, svaluta l'autodidatta; quando l'ospedale diventa il centro di raccolta obbligato di tutti quelli che si trovano in condizioni critiche, impone alla società una nuova forma di agonia. I monopoli comuni si accaparrano il mercato; i monopoli radicali rendono la gente incapace di fare da sé. Il monopolio commerciale limita il flusso di merci; il monopolio sociale, più insidioso, paralizza la produzione dei valori d'uso non commerciali. I monopoli radicali usurpano ancora di più la libertà e l'indipendenza: rimodellando l'ambiente e «appropriandosi» di quelle sue caratteristiche generali che avevano fin lì permesso alla gente di cavarsela da sola, obbligano un'intera società a sostituire i valori d'uso con delle merci.

L'istruzione intensiva fa dell'autodidatta un candidato alla disoccupazione, l'agricoltura intensiva elimina il contadino autosufficiente, lo spiegamento di polizia sgretola la capacità d'autocontrollo della comunità. La propagazione maligna della medicina ha risultati analoghi: trasforma l'assistenza reciproca e l'automedicazione in atti illeciti o criminosi. Come la iatrogenesi clinica diventa incurabile dai medici quando raggiunge una intensità critica e può allora regredire solo con un ridimensionamento dell'impresa, così la iatrogenesi sociale è reversibile solo mediante un'azione politica che riduca il dominio professionale.

Il monopolio radicale si nutre di se stesso. La medicina iatrogena rafforza una società morbosa nella quale il controllo sociale della popolazione da parte del sistema medico diventa un'attività economica fondamentale; serve a legittimare ordinamenti sociali in cui molti non riescono ad adattarsi; definisce inabili gli handicappati e genera sempre nuove categorie di pazienti. L'individuo che è irritato, nauseato e menomato dal lavoro e dallo svago industriali può trovare scampo solo in una vita sotto vigilanza medica e viene distolto o escluso dalla lotta politica per un mondo più sano.

La iatrogenesi sociale non è ancora accettata come una normale eziologia di stato morboso. Se si ammettesse che la diagnosi spesso serve come mezzo per convertire le lagnanze politiche contro lo stress della crescita in richieste di maggiori terapie che significano solo maggiori quantità dei suoi costosi e stressanti prodotti, il sistema industriale perderebbe una delle sue principali difese. Nello stesso tempo, la consapevolezza della misura in cui la cattiva salute iatrogena è trasmessa politicamente scuoterebbe le basi del potere medico molto di più di qualunque catalogo delle insufficienze tecniche della medicina.

 

Cure indipendenti dai valori?

Il problema della iatrogenesi sociale viene spesso confuso con l'autorità diagnostica del guaritore. Per disinnescare il problema e difendere la propria reputazione, alcuni medici insistono sull'ovvio: e cioè che non si può praticare la medicina senza che si abbia una creazione iatrogena di malattia. La medicina crea sempre la malattia come stato sociale. Il guaritore ufficialmente riconosciuto trasmette agli individui le possibilità sociali di comportarsi da malati. Ogni cultura ha un proprio modo di concepire la malattia e quindi una sua peculiare maschera sanitaria. La malattia prende i suoi caratteri dal medico, il quale assegna agli attori uno dei ruoli disponibili. Rendere la gente legittimamente malata è altrettanto implicito nel potere del medico quanto il potenziale tossico nel rimedio che funziona. Lo stregone padroneggia veleni e incantesimi. L'unico termine che avevano i greci per «medicinale», pharmakon, non faceva distinzioni tra il potere di guarire e il potere di uccidere.

La medicina è un'impresa morale, e inevitabilmente perciò dà contenuto al bene e al male. In ogni società la medicina, al pari del diritto e della religione, definisce ciò che è normale, giusto o desiderabile. La medicina ha l'autorità di etichettare come malattia legittima ciò che lamenta un individuo, di dichiarare malato un altro che non si lamenta, e di rifiutare a un terzo il riconoscimento sociale della sua sofferenza, della sua invalidità e persino della sua morte. È la medicina che autentica un certo dolore come «meramente soggettivo», una determinata infermità come simulazione e certe morti (e non altre) come suicidio. Il giudice stabilisce che cosa è legale e chi è colpevole, il prete dichiara che cosa è sacro e chi ha violato un tabù; il medico decide che cosa è un sintomo e chi è malato. Egli è un imprenditore morale, dotato di poteri inquisitori per scoprire certi torti da raddrizzare. Come tutte le crociate, la medicina crea un nuovo gruppo di diversi ogni volta che fa attecchire una nuova diagnosi. La morale è altrettanto implicita nella malattia quanto nel delitto o nel peccato.

Nelle società primitive è ovvio per tutti che l'esercizio dell'arte medica comporta il riconoscimento di un potere morale: nessuno chiamerebbe lo stregone se non gli riconoscesse l'abilità di discernere gli spiriti maligni da quelli buoni. In una civiltà superiore questo potere si espande. Qui la medicina è esercitata da specialisti a tempo pieno, i quali controllano vaste popolazioni per mezzo di istituzioni burocratiche. Questi specialisti formano professioni le quali esercitano sul loro lavoro un tipo di controllo che è unico nel suo genere. Diversamente dai sindacati, infatti, esse debbono la loro autonomia non alla vittoria conseguita in una lotta, ma a un mandato di fiducia. Diversamente dalle associazioni di mestiere, le quali si limitano a stabilire chi ha il diritto di lavorare e a quali patti, esse stabiliscono anche quale lavoro bisogna fare. Nata spesso da riforme delle facoltà di medicina (negli Stati Uniti, per esempio, alla vigilia della prima guerra mondiale), la professione medica è la manifestazione, in un settore particolare, del controllo sulla struttura del potere di classe acquisito dalle élite di formazione universitaria nel corso dell'ultimo secolo. Soltanto i dottori oggi «sanno» che cosa costituisce una malattia, chi è malato, e che cosa bisogna fare al malato e a quelli che essi considerano «esposti ad uno speciale rischio». Paradossalmente, la medicina occidentale, che ha sempre affermato di voler tenere separato il proprio potere dalle religione e dalla legge, l'ha ormai esteso al di là di ogni precedente. In alcune società industriali la classificazione sociale è stata medicalizzata a tal punto che ogni devianza deve avere un'etichetta medica. L'eclissi della componente esplicitamente morale della diagnosi medica ha così conferito all'autorità asclepiea un potere totalitario.

Si è difeso il divorzio della medicina dalla morale con l'argomento che le categorie mediche, a differenza di quelle giuridiche e religiose, poggiano su fondamenti scientifici non soggetti a giudizio morale. L'etica sanitaria è stata occultata in un reparto specializzato, che aggiorna la teoria alla pratica effettiva. I tribunali e la legge, quando non vengono impiegati per far rispettare il monopolio asclepieo, sono trasformati in portieri dell'ospedale, addetti a selezionare tra i postulanti quelli che rispondono ai criteri stabiliti dai medici. Gli ospedali diventano monumenti di scientismo narcisistico, concretizzazioni dei pregiudizi professionali ch'erano di moda il giorno in cui fu posta la loro prima pietra e che spesso risultano superati il giorno dell'inaugurazione. L'impresa tecnica del medico vanta un potere esente da valori. In un simile contesto, è ovvio, diventa facile schivare il problema della iatrogenesi sociale di cui mi occupo. Il danno medico mediato politicamente viene visto come inerente al mandato della medicina, e chi lo critica è considerato un sofista che cerca di giustificare l'intrusione dei profani nel territorio di competenza del medico. Proprio per questo motivo è urgente un'analisi profana della iatrogenesi sociale. L'affermazione che l'attività terapeutica sarebbe indipendente dai valori è ovviamente un nefasto nonsenso, e i tabù che hanno fatto scudo alla medicina irresponsabile cominciano a crollare.

 

La medicalizzazione del bilancio

La misura più semplice della medicalizzazione della vita è la quota del reddito annuo tipico che viene spesa su ordine del medico. […]

In tutti i paesi la medicalizzazione del bilancio è in rapporto con ben note situazioni di sfruttamento all'interno della struttura di classe. Non c'è dubbio che il dominio delle oligarchie capitalistiche negli Stati Uniti, l'arroganza dei nuovi mandarini in Svezia, la servilità e l'etnocentrismo dei professionisti moscoviti e le manovre di corridoio degli ordini dei medici e dei farmacisti, come pure la nuova ondata di sindacalismo corporativo nel settore sanitario, costituiscono tanti formidabili ostacoli a una distribuzione delle risorse che avvantaggi i malati anziché i loro sedicenti tutori. Ma la ragione fondamentale per cui queste costose burocrazie sono perniciose per la salute non sta nella loro funzione strumentale, bensì nella loro funzione simbolica; esse esaltano tutte quante il concetto di prestazioni di assistenza per la componente umana della megamacchina, e le critiche che rivendicano una prestazione migliore e più equa non fanno che consolidare l'impegno sociale a tener occupata la gente in lavori che la fanno ammalare. La guerra tra i fautori delle mutue e quelli che invece vogliono un servizio sanitario nazionale, come la guerra tra chi difende e chi combatte la libera professione, sposta l'attenzione pubblica dal danno causato dalla medicina che protegge un ordinamento sociale distruttivo, al fatto che i medici fanno meno di quanto ci si aspetta a tutela della società dei consumi.

Al di là di una certa incidenza sul bilancio, il denaro che espande il controllo medico sullo spazio, sugli orari, sull'istruzione, sulla dieta, sul disegno delle macchine e dei beni finisce inevitabilmente per scatenare un «incubo forgiato di buone intenzioni». Il denaro può sempre minacciare la salute; troppo denaro la corrompe. Al di là di un certo punto, ciò che può produrre denaro o ciò che si può comprare col denaro restringe l'ambito della «vita» scelta autonomamente. Non soltanto la produzione ma anche il consumo accentua la scarsità di tempo, di spazio e di scelta. Il prestigio della merce medica non può quindi che insidiare la coltivazione della salute, la quale, all'interno di un ambiente dato, dipende in larga misura dal vigore innato e congenito. Quanto più tempo, fatica e sacrifici vengono spesi per produrre medicina-merce, tanto maggiore sarà il sottoprodotto, cioè la falsa idea che la società abbia una provvista di salute riposta che può essere tirata fuori e messa sul mercato. La funzione negativa del denaro è quella di un indicatore della svalutazione dei beni e servizi che non si possono comprare. Più alto è il prezzo da sborsare per carpire il benessere, tanto maggiore è il prestigio politico d'una espropriazione della salute pubblica.

 

L'invasione farmaceutica

Non occorrono dottori per medicalizzare i farmaci di una società. Anche senza troppi ospedali e facoltà di medicina una cultura può diventare preda di una invasione farmaceutica. Ogni cultura ha i suoi veleni, i sui rimedi, i suoi placebo e i suoi scenari rituali per la loro somministrazione. La maggior parte di essi è destinata ai sani più che ai malati. I potenti farmaci medici distruggono facilmente la struttura, radicata nella storia, che adatta ogni cultura ai suoi veleni; di solito essi procurano più danno che beneficio alla salute, e finiscono con l'instaurare una nuova mentalità per cui il corpo viene visto come una macchina, azionata da manopole e interruttori meccanici.

[…] Ancora 10 anni fa, in Messico, quando la popolazione era povera, i medicinali relativamente scarsi e la maggior parte dei malati era assistita dalla vecchia nonna o dall'erborista, i prodotti farmaceutici erano accompagnati da un foglietto di spiegazioni; oggi che le medicine sono più abbondanti, potenti e pericolose e si vendono per televisione e per radio e la gente che ha fatto le scuole si vergogna della propria residua fede nel guaritore azteco, il foglietto descrittivo è stato sostituito da un'avvertenza sempre uguale che dice: «Da usare secondo prescrizione medica». La finzione intesa a esorcizzare il farmaco medicalizzandolo, in realtà, non fa che confondere l'acquirente: ammonendolo a consultare un medico gli fa credere d'essere incapace di badare a se stesso. Nella maggior parte del mondo i medici non sono abbastanza ben distribuiti per poter prescrivere terapie a doppio taglio ogni volta che occorre, ed essi stessi nella maggioranza dei casi sono impreparati, o troppo ignoranti, per poter prescrivere con la necessaria cautela. Di conseguenza la funzione del medico, specialmente nei Paesi poveri, è diventata banale: il dottore si è trasformato in una volgare macchina da ricette che tutti prendono in giro, e la maggioranza della gente prende ormai le stesse medicine, altrettanto a caso, ma senza il suo benestare.

[…]

 

Lo stigma preventivo

Mentre l'intervento curativo si veniva concentrando sempre su stati per i quali esso è inefficace, costoso e doloroso, la medicina cominciava a smerciare prevenzione. Il concetto di morbosità si è esteso fino ad abbracciare i rischi pronosticati. Dopo la cura delle malattie, anche la cura della salute è diventata una merce, cioè qualcosa che si compra e non che si fa. […] Ci si tramuta in pazienti senza essere malati. La medicalizzazione della prevenzione diventa così un altro grande sintomo di iatrogenesi sociale. Essa tende a trasformare la mia responsabilità personale per il mio futuro in gestione del mio essere da parte di qualche agenzia.

[…]

L'esecuzione sistematica di controlli diagnostici precoci su vaste popolazioni garantisce al medico-ricercatore un'ampia base da cui attingere i casi che meglio si adattano ai sistemi di cura esistenti o che sono più utili per portare avanti le indagini, servano o no le terapie a guarire o a dare sollievo. Ma mentre avviene questo, le persone si rafforzano nell'idea di essere delle macchine la cui durata dipende dalle visite all'officina di manutenzione, e sono così non solo obbligate ma trascinate a pagare perché la corporazione medica possa fare i suoi studi di mercato e sviluppare la sua attività commerciale.

La diagnosi, sempre, aggrava lo stress, stabilisce un'incapacità, impone inattività, concentra i pensieri del soggetto sulla non-guarigione, sull'incertezza e sulla sua dipendenza da futuri ritrovati medici: tutte cose che equivalgono a una perdita di autonomia nella determinazione di sé. Inoltre, isola la persona in un ruolo speciale, la separa dai normali e dai sani ed esige sottomissione all'autorità di un personale specializzato. Quando tutta una società si organizza in funzione di una caccia preventiva alle malattie, la diagnosi assume allora i caratteri di una epidemia. Questo strumento tronfio della cultura terapeutica tramuta l'indipendenza della normale persona sana in una forma intollerabile di devianza. Alla lunga, l'attività principale di una simile società dai sistemi introvertiti porta alla produzione fantomatica di speranza di vita come merce. Identificando l'uomo statistico con gli uomini biologicamente unici, si crea una domanda insaziabile di risorse finite. L'individuo è subordinato alle superiori «esigenze» del tutto, le misure preventive diventano obbligatorie, e il diritto del paziente a negare il consenso alla propria cura si vanifica allorché il medico sostiene ch'egli deve sottoporsi alla diagnosi non potendo la società permettersi il peso d'interventi curativi che sarebbero ancora più costosi.

 

[Nemesi medica, 1976]

da qui

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