giovedì 18 febbraio 2021

Il CCS? Negli Stati Uniti l’unico realizzato sta già chiudendo - Elena Gerebizza

Da mesi oramai l’Italia si sta preparando a ospitare “il più grande progetto di cattura e stoccaggio della CO2 al mondo”, il famigerato CCS. Il sito individuato da Eni sarebbe quello di Ravenna, il costo potrebbe arrivare fino a 12 miliardi di euro, di cui chiaramente una parte finirà con l’essere coperta da risorse pubbliche.

Un progetto accolto con entusiasmo dall’ormai ex governo guidato da Giuseppe Conte, seppure si tratti di una tecnologia ancora in fase pilota e dai costi astronomici, che l’industria propone come panacea per la decarbonizzazione, ma che di fatto continua a raccogliere una sconfitta dopo l’altra.

È di qualche giorno fa l’annuncio della chiusura definitiva e a tempo indeterminato dell’impianto di cattura e stoccaggio della CO2 di Petra Nova in Texas. L’impianto – una joint venture tra la NRG Energy e la società del petrolio e gas JX Nippon – era stato inaugurato nel 2016 con un annuncio trionfale dell’amministrazione Trump e grazie a un finanziamento di 195 milioni di dollari da parte del Dipartimento per l’energia del governo federale degli Stati Uniti. Esperti e giornalisti da tutto il mondo sono stati invitati a più riprese a visitare il progetto di punta per la cattura e stoccaggio di CCS negli Stati Uniti: l’unico operativo, e “il più grande al mondo” che utilizzava quella specifica tecnologia.

Fino all’annuncio della sua chiusura definitiva: troppo costoso e economicamente insostenibile.

Il progetto era pensato per catturare le emissioni di CO2 della centrale a carbone di WA Parish, trasportarle via gasdotto per reiniettarle in un vicino giacimento di petrolio, che aveva già superato il suo picco di sfruttamento, e permettere quindi la massima estrazione del petrolio rimasto. Un paradosso che alla fine è stato letale per il progetto stesso: ridurre le emissioni “nascondendole” e allo stesso tempo mantenere attiva una centrale a carbone e un giacimento di petrolio.

Con il crollo del prezzo del greggio durante la pandemia, estrarre petrolio con questo metodo era diventato non economico e quindi il progetto Petra Nova è stato prima congelato e poi definitivamente chiuso.

Petra Nova è stato operativo solamente per una fase pilota di tre anni, e il suo costo non è stato affatto irrisorio. Per metterlo in piedi è stato speso un miliardo di dollari. Inoltre la tecnologia necessitava di così tanta energia da costringere la NRG a installare una centrale a gas solo per alimentare il processo di separazione e cattura della CO2. La documentazione presentata alla Security and Exchange Commission parla di “perdite finanziarie inattese” per la NRG causate dal progetto.

E i risultati? Il progetto parlava di una riduzione delle emissioni del 90%. Tuttavia analisi indipendenti hanno dimostrato che il progetto catturava le emissioni da una sola delle quattro unità della centrale a carbone da 654 MW. Inoltre, non considerava le emissioni di CO2 generate dalla centrale a gas che alimentava il progetto, né le emissioni fugitive di metano. Secondo l’ultimo rapporto presentato al Dipartimento dell’energia statunitense, basato su dati dell’Agenzia per l’ambiente degli Stati Uniti, Petra Nova catturava solamente il 7% delle emissioni della centrale a carbone di WA Parish, che è considerata la più mortale del Texas a causa delle emissioni nella comunità di Houston e nella regione. Lo stesso rapporto ha segnalato inoltre 367 giorni di interruzione in tre anni, in pratica uno ogni tre giorni, proprio a causa di problemi con la tecnologia di cattura o della centrale a gas che la alimentava. Infine, il rapporto indica un aumento significativo del consumo di acqua nella centrale a carbone, dovuto proprio alla tecnologia di cattura e stoccaggio.

Insomma tante ombre, forse troppe, per una tecnologia che si propone come risolutiva per i cambiamenti climatici ma che tale decisamente non è.

da qui

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