Da mesi oramai l’Italia si sta preparando a ospitare “il più grande progetto di cattura e stoccaggio della CO2 al mondo”, il famigerato CCS. Il sito individuato da Eni sarebbe quello di Ravenna, il costo potrebbe arrivare fino a 12 miliardi di euro, di cui chiaramente una parte finirà con l’essere coperta da risorse pubbliche.
Un progetto
accolto con entusiasmo dall’ormai ex governo guidato da Giuseppe Conte, seppure
si tratti di una tecnologia ancora in fase pilota e dai costi astronomici, che
l’industria propone come panacea per la decarbonizzazione, ma che di fatto
continua a raccogliere una sconfitta dopo l’altra.
È di qualche
giorno fa l’annuncio della chiusura definitiva e a tempo indeterminato
dell’impianto di cattura e stoccaggio della CO2 di Petra Nova in Texas.
L’impianto – una joint venture tra la NRG Energy e la società del petrolio e
gas JX Nippon – era stato inaugurato nel 2016 con un annuncio trionfale
dell’amministrazione Trump e grazie a un finanziamento di 195 milioni di
dollari da parte del Dipartimento per l’energia del governo federale degli
Stati Uniti. Esperti e giornalisti da tutto il mondo sono stati invitati a più
riprese a visitare il progetto di punta per la cattura e stoccaggio di CCS
negli Stati Uniti: l’unico operativo, e “il più grande al mondo” che utilizzava
quella specifica tecnologia.
Fino all’annuncio
della sua chiusura definitiva: troppo costoso e economicamente insostenibile.
Il progetto
era pensato per catturare le emissioni di CO2 della centrale a carbone di WA
Parish, trasportarle via gasdotto per reiniettarle in un vicino giacimento di
petrolio, che aveva già superato il suo picco di sfruttamento, e permettere
quindi la massima estrazione del petrolio rimasto. Un paradosso che alla fine è
stato letale per il progetto stesso: ridurre le emissioni “nascondendole” e
allo stesso tempo mantenere attiva una centrale a carbone e un giacimento di
petrolio.
Con il
crollo del prezzo del greggio durante la pandemia, estrarre petrolio con questo
metodo era diventato non economico e quindi il progetto Petra Nova è stato
prima congelato e poi definitivamente chiuso.
Petra Nova è
stato operativo solamente per una fase pilota di tre anni, e il suo costo non è
stato affatto irrisorio. Per metterlo in piedi è stato speso un miliardo di
dollari. Inoltre la tecnologia necessitava di così tanta energia da costringere
la NRG a installare una centrale a gas solo per alimentare il processo di
separazione e cattura della CO2. La documentazione presentata alla Security and
Exchange Commission parla di “perdite finanziarie inattese” per la NRG causate
dal progetto.
E i
risultati? Il progetto parlava di una riduzione delle emissioni del 90%.
Tuttavia analisi indipendenti hanno dimostrato che il progetto catturava le
emissioni da una sola delle quattro unità della centrale a carbone da 654 MW.
Inoltre, non considerava le emissioni di CO2 generate dalla centrale a gas che
alimentava il progetto, né le emissioni fugitive di metano. Secondo l’ultimo
rapporto presentato al Dipartimento dell’energia statunitense, basato su dati
dell’Agenzia per l’ambiente degli Stati Uniti, Petra Nova catturava solamente
il 7% delle emissioni della centrale a carbone di WA Parish, che è
considerata la più mortale del Texas a causa delle emissioni nella
comunità di Houston e nella regione. Lo stesso rapporto ha segnalato inoltre
367 giorni di interruzione in tre anni, in pratica uno ogni tre giorni, proprio
a causa di problemi con la tecnologia di cattura o della centrale a gas che la
alimentava. Infine, il rapporto indica un aumento significativo del consumo di
acqua nella centrale a carbone, dovuto proprio alla tecnologia di cattura e
stoccaggio.
Insomma
tante ombre, forse troppe, per una tecnologia che si propone come risolutiva
per i cambiamenti climatici ma che tale decisamente non è.
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