martedì 9 febbraio 2021

Siamo tutti un po’ vegani - Marina Forti

  

Nel carrello si ammucchiano buste di affettati, polpette, burger. Una bistecca sotto vuoto. Wurstel. Poi formaggi, creme, yogurt, latte. Tipica spesa da supermercato, tutto confezionato con cura, marchi e tabelle nutrizionali ben in vista. Tutto pronto per finire in padella, se non direttamente nel piatto. Solo che affettati, burger, formaggi e tutto il resto non sono ciò che il nome suggerisce, ma prodotti al cento per cento di origine vegetale: senza traccia di latte, uova o qualunque ingrediente di origine animale.

Anche in Italia i prodotti “vegan” sono entrati nella grande distribuzione organizzata. Non è più necessario cercarli in negozi specializzati e vagamente alternativi. E non sono più necessariamente cibi della cucina orientale come il tofu e altri derivati della soia, arrivati in occidente trenta o quarant’anni fa con le prime diete vegetariane e macrobiotiche. Sui banchi dei supermercati ormai c’è una nuova generazione di “surrogati”: prodotti che sembrano carne, ma non lo sono, sanno di formaggio, ma non nascono dal latte.

Il cibo vegano è diventato mainstream”, osserva Albino Russo, direttore dell’ufficio studi della Coop. È successo negli ultimi dieci anni. Secondo la società di indagini di mercato Nielsen, che studia i comportamenti dei consumatori incrociandoli con le informazioni riportate sulle etichette dei prodotti che acquistano, nel 2019 l’insieme dei prodotti vegetariani e vegani rappresentava il 5,3 per cento del valore delle vendite della grande distribuzione organizzata, il 4,5 per cento in più rispetto all’anno prima, e la componente principale è quella vegana. Una nicchia, certo, ma significativa. Anche perché “sono i prodotti che crescono più in fretta”, aggiunge il dirigente delle Coop, “e l’industria alimentare se n’è accorta”.

Il paradosso multimiliardario
La corsa a occupare il nuovo mercato dunque è aperta. Le multinazionali agroalimentari, da Nestlè a Unilever, inventano nuove etichette. Anche in Italia, grandi fabbricanti di carne e prodotti caseari hanno cominciato a proporre prodotti surrogati di origine vegetale: in Emilia Romagna c’è addirittura un’azienda che da un lato della strada produce rinomate mortadelle (vere) e dall’altro lato surrogati “vegani” a base di proteine del grano. Intanto si moltiplicano le piccole e medie aziende che lavorano legumi e spezie per trasformarli in cibi pronti di qualità.

In dieci anni abbiamo visto una trasformazione profonda”, osserva Pompea Gualano, fondatrice dell’agenzia di comunicazione Iwy – Ethical Communication, che ha sede a Milano e promuove consumi vegani. “Siamo passati da un unico tipo di burger vegetale, e neppure tanto appetitoso, a interi scaffali nei supermercati. La scelta è sempre più ampia, e il giro d’affari è multimiliardario”.

Chissà se l’avrebbero mai immaginato i fondatori della Vegan Society, che nel 1944 nel Regno unito teorizzarono “un modo di vivere che escluda ogni forma di sfruttamento degli animali”. I fautori di questa filosofia portavano a conseguenze estreme la scelta vegetariana, escludendo uova e derivati del latte, così come il miele (il nome “vegano” nasce dalla contrazione di vegetariano). E non si limitavano al cibo, perché il rispetto per gli animali implica rinunciare anche a lana, seta, pelli: è uno stile di vita.

Allora il veganismo era una corrente di pensiero quasi esoterica, una sorta di setta. Settant’anni più tardi su questa scelta è cresciuta un’industria multimiliardaria. Forse alla deriva commerciale ha contribuito la stessa Vegan Society, che nel 1990 ha registrato il suo marchio (trademark) e da allora ha certificato più di 47mila prodotti alimentari, di cosmetica e di abbigliamento.

Così oggi siamo di fronte a un paradosso. Quella che in origine era una scelta alternativa radicale ha dato luogo a un mercato che riproduce molti dei meccanismi più perversi del sistema alimentare globale: la grande industria che domina il mercato, lo strapotere della grande distribuzione organizzata, e la prevalenza di prodotti di tipo industriale, sempre più lavorati, sempre meno naturali: d’altra parte serve parecchia tecnologia per trasformare cereali e legumi in qualcosa che sembra carne o formaggio.

Eppure, le persone che si definiscono vegane sono una piccolissima minoranza: appena il 2,2 per cento della popolazione italiana, secondo l’ultimo rapporto annuale dell’Eurispes (è una stima, ma si basa sul sondaggio più ampio e continuativo disponibile in Italia). Solo se si aggiungono coloro che si definiscono vegetariani arriviamo all’8,9 per cento (in aumento rispetto agli anni precedenti). Ma questa minoranza ha cominciato a influenzare un mercato più vasto.

Le motivazioni di chi cerca prodotti “senza tracce di ingredienti animali” sono molte e diverse. “Io sono una vegana etica”, spiega Pompea Gualano. “Intendo dire che ho fatto questa scelta per motivi etici, perché mi dissocio da ogni tipo di sfruttamento delle altre specie animali”. Ma “non esiste un solo profilo del consumatore vegano”, aggiunge. “Per alcuni è una scelta filosofica o religiosa. Per altri una decisione dettata da motivi di salute e benessere personale, magari perché cercano una dieta con meno grassi e colesterolo o perché hanno intolleranze alimentari, per esempio al latte”. Poi c’è chi ne fa una questione di ecologia: “La preoccupazione per il cambiamento del clima, l’impatto ambientale degli allevamenti, la sostenibilità ambientale”. Tra i vegani “la sensibilità ecologista è venuta in auge solo di recente” , dice quasi senza nascondere un certo stupore, “mi auguro che le nuove generazioni, sempre più sensibili al tema ambientale, si aggreghino. Il cambiamento di rotta è urgente”.

Dall’osservatorio della Coop, Albino Russo stima che i prodotti vegani rispondano soprattutto una scelta salutista. “Ma anche il rispetto per gli animali è un sentimento sempre più diffuso”.

Chi sceglie di nutrirsi di alimenti esclusivamente vegetali però non ha bisogno di alimenti surrogati, osserva Gualano, che cura i rapporti con la stampa della Società scientifica di nutrizione vegetariana, associazione di medici e specialisti di nutrizione che promuove le diete “basate su cibi vegetali”. “Per una dieta equilibrata bastano cereali, frutta, verdure, legumi, frutta secca e semi oleaginosi”. Spiega che nel pasto vegano ideale c’è tutto il necessario.

Ma è chiaro che non sono frutta e verdura a mobilitare i grandi nomi dell’industria alimentare. “Più la scelta vegana fa tendenza, più la domanda si diversifica. E le persone vogliono anche andare a cena fuori, addentare un burger, trovare del cibo pronto”, spiega Gualano. “Così, tutto ruota attorno ai surrogati. Sono questi il vero affare”.

Tutto vegetale, sangue compreso
“Il problema del futuro sono le proteine”, dice Massimo Santinelli, che nel 1991 ha fondato Biolab, azienda di Gorizia diventata uno dei più rinomati marchi italiani del cibo vegano. “Non potremo produrre proteine animali per dieci miliardi di persone, è una questione di sostenibilità ambientale. Così, è scattata la ricerca di alternative”.

Fino a non molto tempo fa le diete vegane erano basate sulle proteine della soia, riassume Santinelli, che ho raggiunto via Skype nel suo ufficio. Dalla cagliatura della soia si ottiene il tofu, dal processo di fermentazione si ottiene il tempeh. “La soia resta la madre di tutte le proteine vegetali”, la meno costosa e più versatile, adattabile a ogni clima. “Ma ormai è guardata con sospetto”, spiega. La soia coltivata in modo intensivo, spesso in varietà geneticamente modificate (ogm), è alla base dell’industria dei mangimi per animali ed è responsabile di una buona parte della deforestazione della regione amazzonica. “Noi abbiamo le nostre coltivazioni biologiche e non-ogm”, precisa Santinelli. Ma intanto si sono affermati alimenti proteici alternativi alla soia, derivati dal girasole, dal frumento, dalla quinoa, dai piselli. Soprattutto, spiega, “la ricerca si è indirizzata verso prodotti surrogati”.

L’innovazione decisiva in questo senso è venuta dalla California, con due aziende che hanno investito anni di lavoro e milioni di dollari per studiare combinazioni di proteine vegetali da sostituire alla carne. La prima è stata la Beyond meat (oltre la carne), fondata nel 2009 da un imprenditore convinto che per contrastare la crisi climatica fosse necessario trovare fonti proteiche alternative alla carne. Grazie a una squadra di esperti in biotecnologie, e a investimenti per 72 milioni di dollari (a cui ha contribuito tra gli altri il fondatore della Microsoft Bill Gates) nel 2014 la Beyond meat ha messo sul mercato un hamburger molto simile a quelli di manzo per sapore, consistenza e valore nutritivo. Almeno così dice chi l’ha assaggiato: c’è anche il sughetto rosso della carne al sangue, ottenuto dal succo di barbabietola.

Il Beyond burger ha invaso supermercati e catene di fast food negli Stati uniti e in Europa; dal 2019 la Beyond meat è quotata alla Borsa di New York. La concorrente Impossible Food, creata nel 2011 da un biochimico dell’Università di Stanford, afferma di aver raccolto in totale investimenti per un miliardo e mezzo di dollari, a cominciare dai grandi nomi della Silicon Valley (tra cui di nuovo Bill Gates). Il suo Impossible Burger è sul mercato dal 2016; secondo i produttori la novità è che contiene anche l’eme, un complesso chimico ottenuto per sintesi che imita la mioglobina del sangue. Entrambe le aziende hanno anche prodotti che imitano il pollo e la carne di maiale.

Con investimenti miliardari e grande uso di tecnologia, la non-carne che sembra carne ha cambiato il mercato statunitense ed europeo. Sulla scia della novità, in Italia sono entrati in scena altri produttori, aziende medie e piccole e perfino artigianali. Guerre di denominazione come quella scoppiata al Parlamento europeo sulla denominazione dei surrogati con nomi che ricordano la carne sono un semplice corollario.

La Biolab, che con sessanta dipendenti diretti e 9 milioni annui di fatturato è un’impresa di medie dimensioni, oggi produce un burger che Massimo Santinelli definisce “molto carneo, sanguigno”, e in padella si comporta come la carne. “Partivamo da una buona conoscenza degli ingredienti”, spiega, “poi siamo andati per tentativi, abbiamo sperimentato. Finché abbiamo trovato la giusta combinazione di aroma, struttura e impatto visivo”.

Il vegano a tempo parziale
Ma perché una persona che rifiuta la carne dovrebbe cercare qualcosa che le somiglia? In effetti l’industria del cibo surrogato non si rivolge ai vegani. Anzi: “Quei burger che sembrano sanguinare fanno impressione a uno convinto della sua scelta, proprio perché somigliano alla cosa vera”, osserva Natasha Linhart, fondatrice e amministratrice delegata del gruppo Atlante, che esporta alimentari di qualità italiani nel Regno unito, negli Usa e in Asia (non commercia carne, tiene a precisare). Qualche anno fa Linhart ha creato il marchio Vegamo per far produrre e distribuire cibi a base vegetale in alcuni grandi supermercati italiani. Secondo lei quei burger surrogati mandano un messaggio ambiguo, “come dire che rinuncio alla carne ma in realtà la vorrei”.

I surrogati della carne o del formaggio però “sono rivolti a persone che cercano cibo di qualità e buon livello nutritivo ma con meno grassi. Oppure a coloro che rifiutano gli allevamenti intensivi, o che vogliono avere la coscienza a posto circa l’ambiente, senza rinunciare ai sapori abituali”, dice Linhart. Del resto, l’industria dei surrogati usa poco il termine “vegano” e preferisce plant based, a base di piante. Si rivolge ai cosiddetti consumatori flessibili, gli onnivori che preferiscono meno prodotti animali nella loro dieta. Nel mondo anglosassone sono stati definiti flexitarians. Albino Russo parla di “vegani part time”, che alternano prodotti vegani e non.

I produttori di surrogati puntano proprio a loro. “Il nostro target sono i flexi”, dice Roberto Grimoldi, direttore commerciale di Biolab. “Ci siamo limitati a seguire lo sviluppo del mercato”, spiega. “Le multinazionali del burger surrogato hanno creato un mercato nuovo, e noi l’abbiamo seguito. E se sul burger siamo andati al traino, con gli affettati abbiamo innovato”. Si tratta di una combinazione di soia, cereali, semi oleaginosi, addensanti, e aromi naturali, tagliati in modo da ricordare bresaola, carpaccio, roastbeef. L’azienda di Gorizia distribuisce burger e affettati in vaschette pronte in alcuni grandi supermercati italiani e in una catena specializzata in prodotti bio; esporta anche in vari paesi europei, “ma dobbiamo fare a gomitate con le multinazionali”, dice Grimoldi. “Anche in questo non facciamo che seguire il mercato”, spiega Santinelli. “Il consumatore passa sempre meno tempo in cucina, rispetto anche solo a vent’anni fa. Forse la pandemia ha un po’ cambiato le cose, ma sul lungo periodo la tendenza è questa. Il tempo ‘risparmiato’ in cucina lo riempie l’industria alimentare con le confezioni di affettati pronti, i cibi precotti, verdure già lavate, minestre e zuppe da scaldare in pochi minuti”.

Oggi la Biolab occupa il sito di un ex mattatoio chiuso una ventina d’anni fa: “L’abbiamo comprato all’asta fallimentare nel 2016 e ristrutturato”, racconta Santinelli. “Dove prima soffrivano gli animali ora lavoriamo soia e spinaci. Una sorta di riscatto”.

Il paradosso nel mercato rionale
Un etto di mortadella affettata al momento, un paio d’etti di formaggio, macinato per il ragù, ravioli e pasta fresca. Anche qui tutto è rigorosamente di origine vegetale: però non siamo in un supermercato ma in un mercato rionale di Roma. Nel box di Barbara Cullari si trovano i prodotti “surrogati” confezionati, ma il punto forte del suo Vegan Store sono i cibi sfusi venduti a peso. “Non volevo l’ennesimo negozio alternativo. Ho deciso di aprire un banco in un mercato perché volevo creare un paradosso: tra i banchi del pesce e i salumieri ci sono anche io, con i prodotti freschi, l’affettatrice e la bilancia”.

Trovare i prodotti sfusi è stata un’impresa. “In questo settore non era previsto, è tutto preconfezionato. Ho dovuto contattare i produttori e chiedere che mi fornissero pezzi interi che io possa vendere al dettaglio” , spiega Cullari, “credo di aver letteralmente creato un mercato”. Solo alcuni piccoli produttori italiani hanno accettato: “Le ditte più grandi e note vendono per lo più attraverso la grande distribuzione, sia quella generale sia quella specializzata in prodotti biologici. A volte sono vincolati da accordi esclusivi”.

Eppure il suo banco è ben rifornito, perché “sta sorgendo un artigianato vegan”, osserva Cullari. Il tofu fresco è di un produttore della zona dei Castelli Romani. Anche il seitan e il tempeh sono artigianali. Così la pasta, l’imitazione del bacon, i formaggi fatti in Toscana. “Molti produttori locali puntano sui cibi della tradizione italiana”.

Spesso sono piccole o piccolissime aziende a conduzione familiare, sparse dal nord al sud della penisola. Come Natura e Bontà, fondata tre anni fa da Grazia Lorusso e suo marito a Ravenna, che lavorano il tofu e producono seitan (un concentrato di proteine dei cereali) con semi oleaginosi o altri ingredienti per farne crocchette, straccetti, bistecche, cotolette. “Vogliamo conquistare l’onnivoro”, dice. Distribuisce per vendita diretta, in parte online, in pochi negozi a Roma e in Puglia, alcuni punti vendita affiliati a una nota catena di prodotti bio. La sua è una piccola produzione, ogni settimana lavora una cinquantina di chili di ingredienti: “Tutto artigianale, confezionato a mano, sterilizzato al forno, senza conservanti né additivi, tutto biologico certificato”.

È una piccolissima impresa artigianale anche quella fondata ad Aversa da Salvatore Vicario, Dario Ferrara e Raffaele Serpe, rispettivamente laureato in odontoiatria e chef, proprietario di un pub, avvocato. Hanno cominciato a lavorare al loro progetto a marzo 2020, e a settembre hanno cominciato a sfornare un macinato e delle polpettine che sembrano carne rossa. Erano spinti dalla ricerca di “un futuro più pulito” e dal desiderio di innovare, dicono i tre soci, che raggiungo con Skype nelle cucine del pub di Dario Ferrara, diventato il loro stabilimento.

Abbiamo cercato un prodotto valido per consistenza e sapore, ma senza ingredienti di origine animale”, spiega Vicario. È convinto che l’umanità dovrà abituarsi a “un nuovo concetto di alimentazione” per preservare il pianeta. “Ridurre il consumo di carne è una necessità ambientale, oltre che etica. Volevamo innovare e pensiamo di aver dimostrato che si può fare anche in modo artigianale”, aggiunge. Spiega di aver cercato di riprodurre l’umami, termine giapponese che indica uno dei cinque sapori fondamentali percepiti dal palato umano (insieme a dolce, salato, amaro e acido). “È il gusto che persiste quando si mangia carne. Noi siamo riusciti a ricrearlo mescolando alcuni vegetali e spezie in una sorta di concentrato”. Combinato con soia, piselli e aromi debitamente trattati può assumere l’aspetto e il sapore di carne macinata. Dopo mesi di prove e di studio sulle confezioni, i tempi di scadenza, le etichette, oggi i tre soci distribuiscono confezioni di macinato, burger e polpettine in alcuni negozi tra Napoli, Aversa e Roma con il marchio Umamamì. “Vogliamo conquistare anche i non vegani”, aggiunge Ferrara, “ragù e polpettine sono cibi della tradizione campana, sono parte della convivialità”.

Il cibo vegano sta diventando una moda e ci si buttano a capofitto le multinazionali? Ben venga, aprono la strada a consumi alternativi”, dice Raffaele Serpe.

Così siamo tornati al paradosso iniziale. Partiti da motivazioni etiche, animaliste, ecologiche, siamo arrivati a “un’industria alimentare inserita nel circuito di quella convenzionale, e con molta tecnologia”, osserva Pompea Gualano. Piccole produzioni artigianali a parte, è un’industria dominata da pochi marchi “a base vegetale” e dalla grande distribuzione organizzata. “Alcuni puristi storcono il naso di fronte all’imitazione della carne e alla spregiudicatezza di certe aziende che fabbricano da un lato salumi, dall’altro surrogati vegani. Ma gli animalisti sono pragmatici, tutto ciò che sostituisce la carne è visto con favore”. Fosse pure un prodotto tecnologico venduto in vaschetta monodose al supermercato.

 

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