La trasformazione del modo in cui produciamo il cibo è una questione politica e sociale posta dai movimenti contadini e ambientalisti, ma qualcuno cerca di tramutarla in nuova occasione di business
Negli ultimi anni, l’aggravarsi della crisi climatica e ambientale ha reso
sempre più evidente la necessità di trasformare il modo in cui produciamo e
consumiamo il cibo. In questo contesto, l’agroecologia, scienza che utilizza i
principi e gli strumenti dell’ecologia per disegnare sistemi alimentari sostenibili,
pratica che lavora con i processi naturali e la biodiversità, e movimento
sociale che costruisce sistemi alimentari attraverso filiere corte, ha occupato
un posto centrale nel dibattito internazionale volto a trasformare il sistema
agroalimentare.
Il temine agroecologia, pur essendo riconducibile agli agronomi di inizio secolo
scorso, viene ripreso in America Latina alla fine degli anni Settanta da una
serie di correnti intellettuali che agli elementi agronomici ed ecologici
aggiungono fattori legati all’antropologia, all’etno-ecologia, alla sociologia
rurale e agli studi sullo sviluppo, con il risultato di mettere i saperi
pratici dei contadini, connotati dagli orizzonti culturali locali, al centro
del processo di sviluppo di un’agricoltura sostenibile.
Questa centralità dei saperi contadini, della loro capacità di innovazione
e adattamento legata alle condizioni agronomiche, sociali e culturali a livello
locale, diventa lo strumento centrale di trasformazione del sistema
agroalimentare ripreso dalle organizzazioni internazionali di contadini,
pescatori, pastori, indigeni che difendono un modello di produzione agricolo
non capitalistico. Infatti, il movimento internazionale per la sovranità alimentare,
che nasce a Roma nel 1996 intorno all’elaborazione della sovranità alimentare
proposta da la Via Campesina durante il Forum parallelo al World Food Summit della Fao,
assume l’agroecologia come strumento centrale di lotta all’interno del sistema
produttivo.
La crisi globale legata alla speculazione sui prezzi del cibo evidenzia la
necessità di trasformare il sistema agroalimentare, tanto da portare alla
riforma del Comitato Mondiale per
la Sicurezza Alimentare nel 2009. Le stesse negoziazioni sul
cambiamento climatico, soprattutto in preparazione della Cop 21 di Parigi, la
Conferenza delle Nazioni unite sul cambiamento climatico, hanno evidenziato
come l’agricoltura industriale basata su pesticidi, sementi ibride e
fertilizzanti risultante dalla «Rivoluzione verde» degli anni Sessanta, non
fosse più sostenibile.
I movimenti agrari transnazionali per la sovranità alimentare, organizzati
in convergenze globali come il Forum di Nyeleni 2015, sono riusciti ad affermare all’interno della
Fao la centralità dell’agroecologia come pratica e modello produttivo di
riferimento delle politiche pubbliche per trasformare il sistema agroalimentare
mettendo in risalto come la natura politica dell’agroecologia richieda di
trasformare le strutture di potere nella società.
Questo riconoscimento dell’agroecologia come elemento centrale per la
trasformazione del sistema agroalimentare nel contesto delle negoziazioni sul
cambiamento climatico, ha portato una vasta gamma di attori a utilizzare il
termine agroecologia in modi molto diversi tra loro, cercando di appropriarsi
del concetto per depotenziarne la sua portata trasformativa. In particolare, le
grandi imprese, insieme ad alcuni stati e alle organizzazioni intergovernative
che le sostengono, hanno spinto per una concezione annacquata
dell’agroecologia, riducendola a un insieme di tecniche agricole volte a
mitigare i danni ambientali associati all’agricoltura industriale. Il risultato
è la limitazione del potenziale trasformativo dell’agroecologia senza mettere
in discussione le disuguaglianze, lo sfruttamento e la distribuzione di valore
dietro l’attuale sistema agroalimentare.
Spesso questi attori, nel proporre una trasformazione del sistema
agroalimentare, utilizzano i termini «agroecologia» e «intensificazione
agricola sostenibile» in modo intercambiabile, oscurando le molteplici e
importanti differenze tra questi approcci.
Infatti, l’intensificazione agricola sostenibile è fondamentalmente
incentrata sull’aumento di produttività agricola cercando di ridurre gli
impatti negativi sull’ambiente e sulla salute, senza occuparsi delle questioni
di governance, proprietà, potere o controllo sulle risorse necessarie a
produrre, trasformare e distribuire il cibo. L’agroecologia, invece, pone
l’accento sulla riduzione degli input esterni, una maggiore biodiversità,
giustizia sociale e trasformazione politica attraverso un cambiamento profondo
delle strutture e dei sistemi socioeconomici che danno forma al nostro sistema
agroalimentare. Chi oscura le differenze tra i termini cerca di spogliare
l’agroecologia di questo significato più profondo e del suo potenziale di
trasformazione.
Il nuovo report del Centro Internazionale Crocevia su Agroecologia
spazzatura: la finta transizione ecologica senza giustizia sociale,
scritto insieme a Friends of the Earth International e il Transnational
Institute si concentra su tre importanti iniziative
internazionali di collaborazione pubblico-privato particolarmente importanti ed
esemplificative di questo tentativo: (i) L’Iniziativa per un’Agricoltura
Sostenibile (Sai), (ii) La Nuova Visione dell’Agricoltura (Nva) e (iii) La
Nuova Coalizione per l’Economia Alimentare e l’Uso del Territorio (Folu).
Sebbene vi siano differenze tra queste iniziative, operano secondo logiche
simili con l’obiettivo di trasformare i piccoli proprietari terrieri in imprese
agroalimentari sostenibili e con una visione politica comune di come i peggiori
mali dell’attuale sistema agroalimentare possano essere mitigati senza alcuna
redistribuzione fondamentale di valore, potere e/o controllo.
Queste iniziative si avvalgono di sfumature agro-ecologiche – in
particolare di alcuni strumenti e tecniche – ma mirano a preservare le attuali
strutture sociali, politiche ed economiche che consentono di trarre enormi
profitti dalle catene di valore globali di prodotti agricoli, e a garantire che
i costi sociali e ambientali di questo sistema agroalimentare dominante siano
sostenuti da altri, senza mettere in discussione le ingiuste relazioni
socioeconomiche, politiche ed ecologiche su cui si basa.
Il report evidenzia la concezione di agroecologia, e del sistema
agroalimentare, che viene portata avanti dalle multinazionali agroalimentari
sia attraverso la Sai, la Nva e la Folu e altre iniziative simili
multi-stakeholder, identificando tre principi comuni che le caratterizzano:
§ L’ossessione
tecnologica-produttivista: le tre iniziative sono orientate dall’idea di poter
aumentare (all’infinito) la produzione alimentare, come se questo fosse l’unico
modo per affrontare la sfida di nutrire la popolazione in crescita con risorse limitate,
ignorando che fame e malnutrizione a oggi sono causate dalle molte forme di
disuguaglianza, esclusione, emarginazione ed espropriazione proprie
dell’attuale sistema agroalimentare. La ricerca di un incremento della
produzione alimentare all’infinito, utilizzando meno terra e meno lavoro, si
affida acriticamente alla tecnologia per trovare soluzioni ai problemi
dell’attuale sistema agroalimentare, nonostante la diffusa evidenza che la
tecnologia da sola non è in grado di affrontare i complessi problemi sociali,
politici, economici e culturali che sono all’origine della povertà, della fame
e della malnutrizione, con il rischio di approfondire ulteriormente
disuguaglianze ed esclusione. I veri promotori dell’agroecologia difendono
invece un approccio più sfumato alla tecnologia, che valuta le singole
tecnologie nel loro contesto sociale ed ecologico, e adotta solo quelle che
possono avere un ruolo nell’affrontare le disuguaglianze sistemiche più
profonde. In altri termini, l’agroecologia non si concentra solo
sull’incremento della produttività, ma mira alla redistribuzione, alla
diversità e al cibo come diritto umano, piuttosto che come merce per un
profitto sempre maggiore.
§ L’ossessione per le
nuove opportunità di business: le società impegnate nelle iniziative
Sai, Nva e Folu hanno costruito le loro attività intorno all’attuale sistema
agroalimentare. Il loro apparente abbraccio dell’agroecologia – nella sua forma
riduzionista – si è verificato perché vedono la possibilità di nuove
opportunità di business e profitti. Da un lato cercano di trarre profitto dalla
«green economy», vedendo opportunità per maggiori profitti nel riciclaggio, la
conservazione e le nuove «efficienze» nell’uso delle risorse. Allo stesso
tempo, usando il linguaggio dei «modelli di business inclusivi», spingono
agricoltori, pescatori e pastori a integrarsi nelle «catene del valore» globali
sotto il loro controllo. Le imprese agroalimentari transnazionali traggono
vantaggio quando i piccoli agricoltori, pescatori o pastori adottano la loro
tecnologia brevettata – o i modelli di agricoltura intensiva con input «verdi»
– o quando passano dalla produzione per il proprio consumo personale e i
mercati locali alla vendita dei loro prodotti a giganteschi commercianti di
materie prime globali. La pressione esercitata sui piccoli agricoltori,
pescatori e pastori affinché entrino nelle catene globali del valore, sia come
produttori che come consumatori, viene giustificata in primo luogo dal primato
del «libero mercato» nel generare ricchezza e, in secondo luogo, dal fatto che
la povertà dei contadini e degli altri produttori alimentari è il risultato
della loro «esclusione» da quei mercati (piuttosto che dai termini contrattuali
e dal potere negoziale in base ai quali possono accedere a questi mercati).
Ecco perché la Sai, la Nva e la Folu si concentrano sul principio di
«inclusione», ma non su quello di «redistribuzione».
§ L’ossessione per un
nuovo modello di governance pubblico-privato: dalle crisi finanziarie e ambientali del
2008, il multilateralismo tra stati ha perso terreno a favore del
«multistakeholderism»: un sistema di governance in cui le decisioni sono
modellate da consultazioni con ampi gruppi di stakeholder (portatori di
interessi), come governi, imprese, associazioni, dove le grandi imprese hanno
il sopravvento. In teoria, la governance dei processi multi-stakeholder
metterebbe sullo stesso piano diversi attori sociali, aziendali e statali
dandogli stessi poteri di voto. Ma, in realtà, i diversi attori si trovano in
posizioni di potere diverse, e hanno diverse capacità di far progredire i
propri interessi e visioni. Il settore agroalimentare cerca attivamente di
influenzare le Ong, i governi e le organizzazioni sociali, cercando di
convincerli che le imprese debbano giocare un ruolo chiave nel plasmare e
governare il nostro futuro collettivo globale, a partire dai sistemi
agroalimentari
Il grande capitale agroalimentare è un attore chiave dietro la Sai, la Nva
e la Folu. Oltre alle ben note multinazionali agroalimentari, anche molte
aziende chimiche, imprese finanziarie, governi, le grandi Ong e fondazioni
filantropiche sono impegnate nel sostenere queste iniziative a guida aziendale,
e spesso promuovono l’«agroecologia spazzatura» cara agli attori
industriali.
Attraverso queste iniziative, le grandi aziende propongono possibili
riforme per affrontare alcuni dei peggiori impatti delle loro attività.
L’obiettivo finale, tuttavia, è quello di garantire che le grandi imprese
possano continuare a trarre profitto, senza trasformare radicalmente né le
ingiuste relazioni socioeconomiche, politiche ed ecologiche su cui si basa
l’attuale sistema agroalimentare, né l’ideologia escludente e miope che lo
legittima. Per «cambiare tutto, affinché nulla cambi» le grandi aziende hanno
integrato selettivamente alcuni obiettivi, discorsi e pratiche chiave
dell’agroecologia. Utilizzano significative risorse politiche, finanziarie,
mediatiche e di pubbliche relazioni per far avanzare la loro visione
riduzionista dell’agroecologia, con l’obiettivo di assicurare che concezioni
più trasformative non mettano radici e non minaccino i loro profitti.
Tuttavia, secondo la dichiarazione dei movimenti agrari transnazionali che
hanno organizzato il Forum internazionale per l’agroecologia del 2015 a
Nyéléni, Mali, l’agroecologia rimane una questione profondamente politica. Una
vera transizione agroecologica deve quindi andare di pari passo con politiche
pubbliche che: i) garantiscano un ruolo centrale nella loro progettazione e
attuazione a contadini, pescatori, pastori, altri produttori di cibo su piccola
scala e ai lavoratori rurali e urbani; ii) siano coerenti con gli strumenti
nazionali e internazionali in materia di diritti umani, tra cui la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei
contadini e delle altre persone che lavorano nelle aree rurali; iii)
favoriscano un’agroecologia fedele alla sua visione di sostenibilità
dell’ecosistema e che affondi le sue radici nella giustizia sociale e
ambientale.
Le sfide che abbiamo davanti nell’attuale sistema agroalimentare devono
anche essere affrontate a un livello profondo, non solo attraverso un migliore
accesso ai mercati o alla tecnologia. Al contrario, la promozione di iniziative
di «agroecologia spazzatura» apre la possibilità di un maggiore green
washing delle forme di produzione socialmente ed ecologicamente
distruttive, e radica più profondamente le dinamiche ingiuste che hanno portato
alle crisi attuali.
*Mauro Conti ha conseguito un dottorato in Scienze Politiche e Sociologia
presso l’Università della Calabria e l’International Institute of Social
Studies -Erasmus University of Rotterdam. Ha lavorato come segretariato dell’International Planning
Committee for Food Sovereignty dal 2011 al 2020 e
ha ricoperto la carica di presidente del Centro Internazionale
Crocevia dal 2016 al 2020. Attualmente è assegnista di
ricerca presso l’Università della Calabria e consulente su agricoltura
familiare presso la Fao.
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