lunedì 8 febbraio 2021

Impronte umane sul pianeta Terra - Elena Camino

 

Dagli anni ’80 del secolo scorso a oggi sono stati elaborati numerosi strumenti concettuali per mettere in evidenza il crescente impatto esercitato dalle attività o impronte umane sul pianeta Terra. Questi strumenti sono stati associati a misure quantitative di grandezze fisiche (superficie di un territorio, massa di una sostanza, volume di un gas, ecc.), in modo da renderne più comprensibile il significato. 

Alcuni di questi strumenti concettuali hanno avuto larga diffusione, per la loro chiarezza e adattabilità a varie situazioni. Per esempio, il concetto di impronta ecologica, introdotto nel 1996, viene adesso ampiamente utilizzato sia nelle scuole, sia nelle pubbliche amministrazioni.

Il 22 gennaio 2021 è entrato in vigore il Trattato ONU per la Proibizione delle Armi nucleari (Treaty of Prohibiting Nuclear Weapons – TPNW), che decreta l’illegalità delle armi nucleari: questa decisione storica – anche se di non immediata attuazione – può aiutarci a riflettere su altro strumento concettuale che potrebbe essere molto utile proporre: l’impatto della crescente presenza di sostanze radioattive sul nostro pianeta, che sta rendendo il nostro pianeta sempre meno confortevole per tutti i suoi abitanti: quelli presenti, e quelli che vivranno nei prossimi secoli.

L’IMPRONTA ECOLOGICA

L’idea di misurare in modo quantitativo ma intuitivo  le ‘tracce’ che le società umane – dai singoli individui alle Nazioni, fino alla comunità globale – lasciano sul nostro pianeta, i due Autori canadesi Mathis Wackernagel e William Rees hanno introdotto nel 1996 il concetto di ‘Impronta ecologica’ nel loro libro Our Ecological Footprint: Reducing Human Impact on the Earth.

L’impronta ecologica misura l’area biologicamente produttiva di mare e di terra necessaria a rigenerare le risorse consumate da una popolazione umana e ad assorbire i rifiuti prodotti. Nel 1961 l’umanità usava il 70% della capacità globale della biosfera, ma nel 1999 era arrivata al 120%. Poi, dall’inizio degli anni 2000, stiamo consumando sempre più velocemente le risorse e i servizi che la natura ci offre: stiamo intaccando il ‘capitale naturale’ contraendo dei debiti che renderanno sempre più difficile la vita alle generazioni future.

Attualmente l’umanità – nel suo insieme – sta consumando l’equivalente di 1,6 Terre: da un lato preleviamo troppe risorse rispetto ai tempi necessari alla natura per riprodurle; dall’altra produciamo troppi rifiuti, che si accumulano sul suolo, negli oceani, nell’atmosfera.


L’artificiale supera il naturale!

Nel 2020 alcuni studiosi hanno fornito una nuova informazione per documentare il dilagante impatto umano sul pianeta, pubblicando sulla rivista Nature i risultati di una lunga e complessa serie di misure da cui risulta che la massa globale di ‘cose’ prodotte dall’umanità ha superato la biomassa di tutti i viventi.  Si tratta di materiale edile, plastiche, metalli… insomma, tutto ciò che viene prelevato dalle componenti geologiche e biologiche della natura, e trasformato in infrastrutture e oggetti ‘inanimati’.   


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Questa quantificazione dell’impresa umana offre una caratterizzazione quantitativa, ma anche simbolica, secondo gli Autori dello studio, dell’epoca in cui viviamo: l’Antropocene.

L’era radioattiva

Antropocene è un termine introdotto ufficialmente dalla comunità scientifica il 29 agosto 2016 quando – dopo numerose riunioni e discussioni – il Working Group on the Anthropocene, istituito dalla Commissione Internazionale sulla Stratigrafia, comunicò che l’impatto umano sul pianeta è diventato così esteso e profondo, che richiede di individuare il periodo geologico in cui viviamo come una nuova era: l’Antropocene [1].  

Gli studiosi hanno preso in esame vari eventi che potessero funzionare come ‘marcatori’ dell’inizio di questa nuova epoca, tra cui l’aumento esponenziale del consumo di risorse (segnalato dall’impronta ecologica), oppure l’aumento della concentrazione di CO2 in atmosfera (conseguente alle attività produttive alimentate dai combustibili fossili). Il nuovo traguardo prima citato (la produzione di cose artificiali che supera la massa complessiva dei viventi) non era ancora stato raggiunto. La scelta finale degli scienziati è caduta sugli elementi radioattivi prodotti dalle esplosioni di ordigni nucleari, a partire dal primo test nucleare, il 16 luglio 1945 ad Alamogordo, nel Nuovo Messico. Negli anni successivi, dopo i tragici bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, fino al 1998 furono compiuti test nucleari (con una media di una esplosione ogni 9,6 giorni!) che lasciarono tracce facilmente rilevabili in atmosfera, negli organismi viventi, nelle acque oceaniche.

Barry Commoner (1917-2012), biologo e pacifista statunitense, era già un attivista negli anni della guerra  fredda, nel periodo in cui furono più intense e frequenti le esplosioni di bombe nucleari nell’atmosfera, con una intensa ricaduta, su tutto il pianeta, dei prodotti radioattivi di fissione degli esplosivi nucleari.   Nel 1958 Commoner costituì insieme ad altri un comitato di protesta contro le bombe atomiche e iniziò la pubblicazione di un notiziario, «Nuclear  information», divenuto, nel 1964, «Scientist and Citizen», e trasformato, nel 1969, nella rivista mensile «Environment». 

La biologa Rachel Carson (1907-1964) è nota soprattutto per il suo  libro ‘Primavera silenziosa’, in cui denunciò con forza i rischi legati all’uso indiscriminato di alcune sostanze chimiche usate come insetticidi (come il DDT).  Collaborò anche con Commoner e altri studiosi nel denunciare il pericolo delle emissioni radioattive.  Nel 1964 tenne un discorso a un convegno di 1500 medici in California, in cui spiegò dettagliatamente come i radionuclidi derivanti da depositi di scorie nucleari o da tests svolti in atmosfera si spostavano lungo le catene alimentari e venivano dispersi fino a luoghi remoti come l’Artico, dove danneggiavano i bambini allattati al seno dalle loro mamme Esquimesi.

Radioattività “pacifica” e “sostenibile”?

Come ho ricordato in un articolo di alcuni giorni fa, il 1º luglio 1968 fu sottoscritto da USARegno Unito e Unione Sovietica un Trattato di Non Proliferazione degli Armamenti Nucleari (Treaty on the Nonproliferation of Nuclear Weapons (NPT) che entrò in vigore il 5 marzo 1970Francia e Cina vi aderirono nel 1992.  L’articolo IV del Trattato assicurava tuttavia a ciascuno degli Stati membri il diritto a usi pacifici della tecnologia nucleare: “…tutti gli Stati membri hanno il diritto inalienabile a sviluppare ricerca, produzione e uso dell’energia nucleare per scopi pacifici, senza discriminazioni. […].

Era il periodo in cui si pensava che l’energia atomica avrebbe portato benessere a tutta l’umanità, fornendo una forma di energia economica, ambientalmente pulita, e sicura. Si sottolineò con enfasi l’importanza della cooperazione internazionale per sviluppare nuove applicazioni dell’energia nucleare, specialmente nei aree in cui erano presenti Stati che non possiedono armi nucleari,con la dovuta considerazione per le esigenze delle aree in via di sviluppo del mondo.

Nonostante la complessità della filiera, gli enormi investimenti finanziari, i vincoli di sicurezza richiesti per la costruzione di una centrale nucleare, il moltiplicarsi di incidenti e le segnalazioni dei rischi associati  all’eventuale uso bellico, la produzione di energia da fonte nucleare si è diffusa in molte parti del mondo. Come segnala lo studioso Stephen Herzog in un recente articolo, L’Agenzia Internazionale per l’Energia atomica(International Atomic Energy Agency – IAEA) presenta una lista di 220 reattori attualmente impiegati per la ricerca nucleare in 53 Stati, e 440 reattori per la produzione di energia, presenti in 30 Paesi.

Dalle miniere alle scorie – una tragica eredità per le prossime generazioni

Immaginando di guardare il nostro pianeta da ‘fuori’ e misurare le fonti di radioattività che dalla Terra emettono verso lo spazio, scopriamo che in numerose aree del mondo sono presenti luoghi di emissioni radioattive – alcuni noti, altri segreti o sconosciuti – che contribuiscono a caratterizzare questo periodo geologico come ‘radioattivo’.  Al materiale radioattivo legato alla filiera di produzione militare occorre aggiungere quello che riguarda la costruzione di centrali per la produzione di elettricità: molte di esse sono ormai arrivate a fine vita, e dovrebbero essere dismesse. Questo crea un grave problema del ‘decommissioning’: non basta infatti smantellare gli impianti, ma occorre provvedere alla decontaminazione finale di tutti i materiali radioattivi.   

Se dalla nostra postazione ‘fuori’ dal pianeta volessimo avvicinarci, in molti luoghi scopriremmo altri indizi della presenza di radiazioni: sono i segni delle conseguenze drammatiche che la radioattività ha lasciato sulle popolazioni umane e negli ambienti naturali.

Conseguenze di test nucleari

In un articolo pubblicato pochi mesi fa da due studiosi francesi, Jean Marie Collin e Patrice Bouveret, per conto della Heinrich Böll Foundation e di ICAN (International Campaign to Abolish Nuclear Weapons France), ricordano che le conseguenze delle esplosioni atomiche sperimentali sono ancora presenti oggi in molte parti del mondo, e costituiscono ancora un importante rischio per la salute umana e degli ecosistemi.

Tra gli esempi che citano vi è il caso della Francia, che tra il 1960 e il 1996 eseguì 17 test nucleari in Algeria e 193 nella Polinesia francese. In Algeria, in particolare, la Francia decise di ‘seppellire’ tutti i materiali contaminati nel deserto; ancor oggi non è noto dove e quanto materiale radioattivo vi è stato sepolto. La situazione della Francia non è unica: attualmente sono numerosi i luoghi in cui le aree in cui sono stati eseguiti test nucleari da vari stati sono state malamente o per nulla decontaminate, e non si è mai provveduto a registrare i danni umani, né tantomeno a risarcire le vittime.  

Miniere di uranio e danni alla salute

La pericolosità del lavoro nelle miniere di uranio era ben nota fin dai tempi della 2° guerra mondiale: dal 1944 al 1986 quasi 30 milioni di tonnellate di minerali di uranio sono stati estratti in territori della Nazione  Navajo.  Molte comunità di indiani Navajo lavorarono in queste miniere, e spesso le loro famiglie abitavano in stretta vicinanza con le aree di scavo. Attualmente le miniere sono state chiuse, ma è rimasta una eredità contaminata: più di 500 miniere abbandonate sono ancora radioattive, così come molte abitazioni e fonti d’acqua.  

La miniera di Jaduguda, nello stato del Bihar, in India, ha iniziato le operazioni nel 1967. E’ la prima e più importante delle miniere di uranio di questo Paese. Più di 35.000 persone vivono in vicinanza di questo complesso di scavi e operazioni minerarie, e per molti anni hanno denunciato gli effetti devastanti sulla salute delle persone; numerose sono le testimonianze di deformità congenite, infertilità, problemi respiratori, aborti nei villaggi vicini agli scavi.

Tra le aree in cui in Australia sono stati identificati depositi di uranio, e avviati lavori di scavo per l’estrazione del minerale che lo contiene, molte sono situate in zone che le popolazioni locali considerano sacre.  Ciò non ha impedito alle imprese interessate di avviare le estrazioni, approfittando del fatto che la maggior parte delle comunità indigene non ha diritti di proprietà sulle terre abitate da millenni.

Stati Uniti, India, Australia… sono solo alcuni esempi tra i tantissimi che da decenni denunciano la presenza di gravi problemi sanitari e di danni ambientali nelle aree (molte delle quali in territori abitati da popolazioni indigene) in cui ‘nasce’ la filiera dell’uranio.

Uranio impoverito e poligoni di tiro

Lungo la filiera che porta alla costruzione di centrali nucleari e di materiale bellico viene prodotto un materiale di scarto che contiene varie miscele di isotopi dell’uranio: l’uranio ‘impoverito’ (depleted uranium – DU): essendo un materiale di elevata densità, è stato impiegato sia per uso civile (contrappesi stabilizzatori di aerei) sia per uso militare, per la costruzione di proiettili ad altissimo potere penetrante.

La tragedia dell’uranio ‘impoverito’ inizia molti anni fa. Nel 1978 il Pentagono annuncia la produzione di proiettili con uranio impoverito; da allora questi proiettili sono stati utilizzati in moltissimi campi di battaglia (dall’Irak all’Afganisthan, fino ai Balcani) creando crescente allarme per gli i numerosi e devastanti effetti tardivi, a lungo termine, provocati dall’uso di queste particolari munizioni.

Molti soldati che hanno partecipato ad azioni di guerra utilizzando quei tipi di proiettili hanno manifestato nei mesi e anni successivi gravi patologie, riconducibili alle nanoparticelle generate dalle esplosioni a grandissime temperature dei metalli pesanti presenti nelle munizioni con DU. Numerosi luoghi in cui sono stati usati proiettili di questo tipo sono tuttora fonti di prodotti tossici che continuano a danneggiare l’ambiente e la salute dei residenti.  Anche in zone di pace si sono manifestate patologie collegate all’uso di uranio impoverito. Per esempio in Sardegna, nei poligoni di tiro, cioè nelle aree occupate dall’esercito e dagli alleati NATO per sperimentare nuove forme di armi.

Quali discariche per le scorie radioattive?

Più di un quarto di milione di tonnellate di rifiuti altamente radioattivi si trova immagazzinato nei pressi delle centrali nucleari e dei luoghi di produzione di materiale bellico: 90.000 tonnellate solo negli Stati Uniti. Questi rifiuti, che continuano a emettere radiazioni e danneggiano la salute umana e l’ambiente, sono da anni – molti da decenni – in attesa di essere trasferiti in modo permanente in depositi geologici: ma nessuno finora è pronto ad accoglierli. In questa attesa, i serbatoi di contenimento – acciaio, vetro, altri materiali – sono soggetti a naturale corrosione e degrado, che si sta già manifestando.

Come accennato altrove, la ricerca di luoghi adatti a conservare, lontano dagli umani e dagli ecosistemi, i rifiuti prodotti lungo tutte le tappe delle filiere dell’uranio è ancora irrisolta: per anni ogni luogo che sembrava adatto si è rivelato inadeguato, e solo da qualche anno si intravede qualche soluzione.  L’orientamento attuale è quello di scavare dei buchi profondissimi, raggiungendo zone in cui gli scambi con il mondo esterno siano ridotti al minimo, e stivare lì – in enormi depositi – il ‘pattume’ più pericoloso, quello che continuerà a emettere radiazioni per decine di migliaia di anni. Due siti sono in fase avanzata di costruzione, uno in Finlandia e l’altro in USA: raggiungeranno profondità di 500 – 600 metri, e da qui si accederà a enormi ‘stanze’ in cui verranno accumulati questi rifiuti ‘speciali’.  Un grande recinto di terra battuta circoscriverà l’imboccatura superficiale della struttura di smaltimento sotterranea.

Ma come avvisare le future generazioni che forse popoleranno la Terra tra decine di migliaia di anni, facendo capire che non dovranno assolutamente entrare all’interno di quei siti? Queste persone non parleranno le lingue che usiamo adesso, avranno altri simboli, altri modi di comunicare. Per il sito americano (Waste Isolation Pilot Plant – WIPP) una delle proposte è illustrata qui: Spike Field, in cui minacciose punte di pietra posizionate in modo caotico si slanciano verso l’alto. Una penosa testimonianza della stupidità umana del XXI secolo…

Un traguardo collaterale importante – nel diffondere la notizia dell’approvazione del Trattato ONU, che dichiara illegali le armi atomiche – può essere anche quello di ridurre il tragico lascito radioattivo alle generazioni future, sottolineando l’insostenibilità di tutte le filiere nucleari. 

 

NOTA. Non ho affrontato il tema delle applicazioni della radioattività a settori diversi dalla produzione di energia e dalla costruzione di armamenti. Un articolo divulgativo pubblicato da Enrico Mainardi (Ansaldo Energia) passa in rassegna numerose altre applicazioni che implicano l’uso diretto o indiretto dell’energia nucleare e della radioattività. I più significativi campi di applicazione riguardano l’industria, il settore alimentare e ambientale, la geologia e l’archeologia, la medicina, ecc. In campo medico in particolare sono in pieno sviluppo nuove applicazioni, sia ad uso diagnostico che terapeutico.

Sarebbe interessante e utile capire in che misura questo specifico uso della radioattività incide nella produzione globale di emissioni radioattive, e come sia possibile orientare questo campo di ricerca e di applicazione in modo da minimizzarne l’impatto lungo tutta la filiera.


[1] Nuclear Waste in the Anthropocene. Uncertainties and Unforeseeable Timescales in the Disposal of Nuclear Waste | GAIA 26/2 (2017): 96–99 |

 

da qui

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