Settimane di colloqui e una sentenza della Corte Suprema non sono bastate a
rassicurare gli agricoltori indiani che anzi hanno intensificato le loro
proteste fino a prendere d’assedio la capitale proprio il 26 gennaio,
anniversario dell’entrata in vigore della Costituzione indiana.
Gli scontri violenti
hanno lasciato dietro di sé un morto e decine di feriti, ma gli
agricoltori indiani non ci stanno a subire passivamente dei provvedimenti che
al di là delle motivazioni contingenti legate al Covid hanno come effetto
di lunga durata quello di abbattere il sistema di salvaguardia dei prezzi
agricoli. Un tema estremamente sensibile in un paese dove la popolazione
rurale rappresenta ancora il 65% della popolazione totale: 895 milioni di
persone che dipendono dalla generosità della terra.
Ma la generosità da
sola non basta se la terra è maldistribuita e i prodotti mal pagati. Due
aspetti che in India, come in molti altri paesi del mondo, lasciano molto a
desiderare.
Secondo gli ultimi
dati Fao, in India solo l’1% degli agricoltori possiede appezzamenti che vanno
oltre i dieci ettari di terra, per un’estensione totale pari al 13% di tutta la
terra agricola.
Per contro l’81% degli
agricoltori possiede meno di due ettari di terra che complessivamente
rappresentano il 38% di tutta la terra agricola. Appezzamenti del tutto
insufficienti a sostenere nuclei familiari che a volte superano i sette
componenti. E i risultati si vedono: in India il 30% della popolazione rurale è
sottoalimentata.
Da tempi immemorabili
l’India è afflitta dall’iniqua distribuzione delle terre che paradossalmente la
rivoluzione verde introdotta negli anni sessanta del secolo scorso ha acuito
perché ha reso l’agricoltura più costosa e quindi sempre più presidiata
da proprietari facoltosi.
Distribuire la terra
in maniera più equa è una scelta non gradita al potere agrario e i politici
difficilmente la compiono. Tuttavia negli anni successivi
all’indipendenza, sotto la guida di Jawaharlal Nehru, collaboratore di Gandhi,
in India vennero intraprese varie misure molto apprezzate dai piccoli
coltivatori. Misure che non ampliavano la quantità di terra a loro
disposizione, ma che cercavano di porre rimedio a un’altra piaga che aggravava
la loro povertà. Il flagello si chiamava sottomissione ai signori locali, che
essendo gli unici a poter acquistare i loro prodotti potevano imporre il prezzo
che volevano.
Un potere di ricatto
accresciuto dal fatto che oltre ad essere l’unico sbocco di vendita erano anche
i banchieri o per meglio dire gli usurai della zona, gli unici ai quali i
contadini potevano rivolgersi per ottenere un prestito.
E quando la terra
è poca e i raccolti magri e malpagati, il debito è l’unico modo per
sopravvivere. Ma se chi presta è anche acquirente esclusivo di ciò che si
produce, allora l’assoggettamento al suo potere di ricatto diventa
totale. E fu proprio per rompere la spirale di strapotere che
risucchiava i contadini negli abissi della miseria, se non della
schiavitù, che vennero assunte due iniziative di particolare
importanza.
La
prima: l’istituzione di prezzi minimi da garantire agli agricoltori. La
seconda: l’allestimento di mercati regolamentati, in cui svolgere le
operazioni di compra vendita in maniera controllata. In India tali strutture
sono semplicemente chiamate mandi, termine hindi che
significa mercato.
La loro caratteristica
è che sono governati da appositi comitati che oltre a mantenere
l’elenco di tutti i soggetti autorizzati ad operare all’interno dei mercati
regolamentati, hanno il compito di verificare la loro
condotta, di incassare le dovute commissioni e di accertarsi che i produttori
riscuotano il loro dovuto il giorno stesso della transazione.
Quanto alle modalità
di vendita non sono ammesse trattative dirette, ma solo vendite tramite asta,
in modo da evitare condizionamenti e ricatti tipici dei rapporti caratterizzati
da asimmetria di potere.
Gli agricoltori
consegnano le loro derrate ad agenti autorizzati che vendono i
quantitativi al migliore offerente a partire da una base d’asta corrispondente
al prezzo minimo fissato dal governo.
Ma va tenuto presente
che l’India è uno stato federale e ciascuno dei 28 paesi che lo compone ha
ampia autonomia decisionale. Per questo anche la legislazione relativa
ai mandi ha caratteristiche diverse da uno stato all’altro. In
certuni è solo un’opportunità offerta ai produttori. In altri è imposto come
canale di vendita obbligatorio.
In generale gli
agricoltori apprezzano i mandi, ma c’è chi li critica aspramente
ritenendoli strutture antiquate e ferraginose sovraccariche di burocrati
e intermediari che fanno lievitare i prezzi al consumatore finale.
Per di più li
accusano di ostacolare il commercio fra i diversi stati della federazione
indiana perciò ne chiedono l’eliminazione. Neanche l’attuale governo vede
di buon occhio i mandi e prendendo spunto dalla necessità di
intensificare i commerci via internet, come misura precauzionale
anti-covid, il settembre scorso ha emanato tre decreti
che aprono la strada alla morte dei mandi, non tramite la loro
chiusura d’impero, bensì una lenta strategia di corrosione.
In effetti il triplice
scopo dei tre decreti è quello di ridare impulso ai rapporti di
compravendita condotti fuori dai circuiti controllati, di fare tornare i
prezzi a fluttuare secondo il gioco della domanda e dell’offerta, di
facilitare gli acquisti diretti fra produttori ed acquirenti appartenenti a
stati diversi della federazione indiana.
In sintesi la parola
d’ordine è liberalizzare ritenendo che mercato deregolamentato faccia sempre
rima con efficienza e quindi arricchimento per tutti. Ma i piccoli contadini
del Punjab, del Haryana, dell’Uttar Pradesh, temono che lo smantellamento dei
mandi li riporti ai tempi in cui erano alla totale mercé dei mercanti e
ovunque sono scoppiate proteste, sfociate in scontri e blocchi stradali. “Senza
controlli si torna a catene peggiori di quelle esistenti al tempo della
dominazione inglese” hanno scritto sui loro cartelli.
Eppure tutti
riconoscono che oggi i mercati agricoli non sono più dominati da rozzi
signorotti locali che vestono i panni degli usurai.
Tutti sanno
che la scena è dominata da grandi imprese, addirittura di
dimensione multinazionale, guidate da raffinati dirigenti di alta cultura ed
alta competenza giuridica. Ma non per questo sono meno insidiose. Per sapere di
cosa sono capaci non è necessario andare in Africa o in Asia: basta
interrogare certi piccoli produttori di casa nostra, terzisti
di imprese alimentari o fornitori di supermercati.
Essi testimoniano di
rischi climatici buttati interamente sulle loro spalle, di pagamenti
dilazionati a 180 giorni, di pomodori pagati 20 centesimi al chilo rimessi
sugli scaffali dei supermercati a due euro al chilo. Con inevitabili
conseguenze sui lavoratori: il settore agricolo è fra quelli a più alta
incidenza di lavoro nero che permette al caporalato di spadroneggiare. Tutti
segnali di come la legge del contenimento dei costi sappia essere spietata
quando non è mitigata dalla coscienza.
Iniquità, abusi,
prepotenze, sono tanto più probabili quanto più ampie sono le asimmetrie di
potere. E poiché le asimmetrie sono presenti ovunque, il dibattito su come
contenerle e come impedire che sconfinino nel sopruso dovrebbe aprirsi ovunque.
Per questo ciò
che si sta discutendo in India non è un affare solo loro, ma anche nostro. In
ballo ci sono le gerarchie di valore, la funzione della legge, il ruolo della collettività. In
una parola in ballo c’è il ruolo della politica che Papa Francesco
esorta costantemente a sapersi liberare dalle sudditanze ideologiche e dagli
interessi particolari per mettersi al servizio degli ultimi, della dignità umana,
del bene comune.
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