Nel lontano Duemila la casa editrice Dedalo pubblicò un volume, Homo sapiens e mucca pazza. Antropologia del
rapporto col mondo animale, che, curato e
introdotto da me, conteneva i saggi dell’antropologo Mondher Kilani,
dell’etologo Roberto Marchesini, della filosofa Luisella Battaglia, oltre al
mio.
Rileggerlo oggi, al tempo della pandemia da Covid-19, induce a riflettere
sull’assenza di lungimiranza dimostrata da politici e intellettuali, perfino da
taluni scienziati, rispetto al rischio, del tutto fondato, che alla encefalite
spongiforme bovina (questo è il suo nome scientifico) altre epidemie o pandemie sarebbero
susseguite se nulla fosse cambiato nel nostro rapporto con l’ambiente e con gli
animali non umani: in particolare con quelli confinati e mercificati
negli allevamenti intensivi e nei mattatoi industriali.
“La loro reificazione e massificazione – scrivevo in quel volume – il loro confinamento e segregazione, la loro riduzione a macchine per la produzione di carne, latte o uova, si rivelano, infine, distruttivi non solo della vita e della salute degli animali ma anche di quelle degli esseri umani“. E aggiungevo che “la scoperta che l’encefalopatia spongiforme è trasmissibile dal bovino all’uomo non ha decisamente pregiudicato (…) la diffusa propensione occidentale a considerare la carne come un bisogno naturale e irrinunciabile”.
L’ugualmente diffusa abitudine di definire l’encefalopatia come morbo della
“mucca pazza” – scriveva dal canto suo Mondher Kilani – era un chiaro indizio della propensione ad
attribuire ai soli bovini la responsabilità di una catastrofe provocata dagli
umani.
Allora – scriveva lo stesso Kilani – le autorità europee perseguirono “un vasto piano di soppressione dei vitelli
nati da qualche giorno“. E oggi un altrettanto crudele quanto inutile
olocausto si è ripetuto: a novembre scorso, in Danimarca – per fare un solo
esempio – 17 milioni di visoni
sono stati massacrati e gettati in enormi, orrende fosse comuni, ritenendo in
tal modo di eliminare un ceppo mutato del Covid-19.
Eppure al tempo presente dovrebbe essere del tutto chiaro che a favorire i virus, le epidemie e le pandemie conseguenti è il nostro stesso sistema produttivo, che tuttora perpetua, se non moltiplica, gli allevamenti intensivi, utilizza combustibili fossili quali petrolio e carbone, inquina incessantemente e massivamente, incrementa la deforestazione, riducendo così l’habitat naturale di molte specie. In definitiva, epidemie e pandemie sono l’esito dell’abnorme predominio della specie umana sul resto delle forme viventi e del conseguente sconvolgimento degli equilibri del pianeta. Il che produce la perversa dialettica che induce a praticare costumi e stili di vita i quali, a loro volta, non fanno che avallare e favorire tutto ciò.
Insomma, la coazione a
ripetere gli errori del passato sembra caratterizzare il comportamento degli
umani anche rispetto a pandemie ed epidemie. Ancor meno c’è da illudersi
quanto ai comportamenti della “gente comune”. Per fare un solo esempio, un
evento pur così scioccante e doloroso, mortifero e di lunga durata quale la
pandemia attuale sembra aver intaccato assai poco perfino il costume di sparare botti, petardi e fuochi d’artificio
nel corso della serata-notte dell’ultimo giorno dell’anno: come se in tal modo
si potesse esorcizzare i quasi due milioni di vittime di Covid-19 a
livello mondiale e la prospettiva, del tutto realistica, di un 2021 che,
nonostante i vaccini, sarà egualmente condizionato dal
Coronavirus.
Una tale usanza, già di per sé alquanto
detestabile poiché altamente inquinante nonché irrispettosa dell’altrui
tranquillità, oltre tutto è
foriera, ogni anno, d’incidenti anche mortali: quest’anno a perdere la vita è
stato un tredicenne che viveva in un insediamento rom di Asti e altrove ben 79
sono state le persone ferite, alcune gravemente.
Ma, come sempre, a pagare il
tributo di vittime più alto sono stati i non-umani. A Roma, com’è noto, la sera-notte del 31
dicembre scorso, in via Cavour e in altre strade del centro, centinaia di
storni sono morti a causa di botti, petardi, bombe da tiro e simili, che
hanno sconvolto a tal punto quelle povere creature da provocare loro infarti
letali, da farli sbattere, soccombendone, contro muri e finestre o addirittura
contro cavi d’alta tensione.
Chi tuttora enfatizza il significato
propiziatorio e la funzione di rito di passaggio di fuochi e
simili – come se oggi coloro che sparano botti, petardi, bombe da tiro
fossero consapevoli di un tale significato e di una tale funzione – in fondo perpetua l’idea che tutto ciò che è presuntamente
primigenio, tradizionale, ancestrale vada preservato e perpetuato al di là dei
contesti storici e sociali, al di là degli stessi gravi danni che il “rito”
produce. L’antropologo
Marino Niola, pur riconoscendo che un tale “rituale” sia divenuto ormai
“serbatoio di episodi di cronaca nera”, ammette, sì, che sia “sacrosanto fare
dei controlli”, ma ritiene che sia
“stupido vietare i botti”.
Per concludere: la coazione a
ripetere, l’aspirazione a tornare al “mondo di prima”, la tendenza a
perpetuare, come se nulla fosse accaduto, abitudini e costumi consueti quali il
consumo di carne, la caccia, l’uso di pellicce animali, il quotidiano
contributo all’inquinamento; insomma, l’incapacità di trarre da questa tragedia qualche lezione etico-politica
da tradurre in prassi quotidiana: tutto questo espone noi umani, ma anche gli incolpevoli
non umani, a un futuro costellato da epidemie e pandemie.
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