martedì 2 febbraio 2021

Dominerai le altre forme viventi - Annamaria Rivera


Nel lontano Duemila la casa editrice Dedalo pubblicò un volume, Homo sapiens e mucca pazza. Antropologia del rapporto col mondo animaleche, curato e introdotto da me, conteneva i saggi dell’antropologo Mondher Kilani, dell’etologo Roberto Marchesini, della filosofa Luisella Battaglia, oltre al mio.     

Rileggerlo oggi, al tempo della pandemia da Covid-19, induce a riflettere sull’assenza di lungimiranza dimostrata da politici e intellettuali, perfino da taluni scienziati, rispetto al rischio, del tutto fondato, che alla encefalite spongiforme bovina  (questo è il suo nome scientifico) altre epidemie o pandemie sarebbero susseguite se nulla fosse cambiato nel nostro rapporto con l’ambiente e con gli animali non umani: in particolare con quelli confinati e mercificati negli allevamenti intensivi e nei mattatoi industriali.

La loro reificazione e massificazione – scrivevo in quel volume – il loro confinamento e segregazione, la loro riduzione a macchine per la produzione di carne, latte o uova, si rivelano, infine, distruttivi non solo della vita e della salute degli animali ma anche di quelle degli esseri umani“. E aggiungevo che “la scoperta che l’encefalopatia spongiforme è trasmissibile dal bovino all’uomo non ha decisamente pregiudicato (…) la diffusa propensione occidentale a considerare la carne come un bisogno naturale e irrinunciabile”.

L’ugualmente diffusa abitudine di definire l’encefalopatia come morbo della “mucca pazza” – scriveva dal canto suo Mondher Kilani – era un chiaro indizio della propensione ad attribuire ai soli bovini la responsabilità di una catastrofe provocata dagli umani.

Allora – scriveva lo stesso Kilani – le autorità europee perseguirono “un vasto piano di soppressione dei vitelli nati da qualche giorno“. E oggi un altrettanto crudele quanto inutile olocausto si è ripetuto: a novembre scorso, in Danimarca – per fare un solo esempio – 17 milioni di visoni sono stati massacrati e gettati in enormi, orrende fosse comuni, ritenendo in tal modo di eliminare un ceppo mutato del Covid-19.

Eppure al tempo presente dovrebbe essere del tutto chiaro che a favorire i virus, le epidemie e le pandemie conseguenti è il nostro stesso sistema produttivo, che tuttora perpetua, se non moltiplica, gli allevamenti intensivi, utilizza combustibili fossili quali petrolio e carbone, inquina incessantemente e massivamente, incrementa la deforestazione, riducendo così l’habitat naturale di molte specie. In definitiva, epidemie e pandemie sono l’esito dell’abnorme predominio della specie umana sul resto delle forme viventi e del conseguente sconvolgimento degli equilibri del pianeta. Il che produce la perversa dialettica che induce a praticare costumi e stili di vita i quali, a loro volta, non fanno che avallare e favorire tutto ciò.

Insomma, la coazione a ripetere gli errori del passato sembra caratterizzare il comportamento degli umani anche rispetto a pandemie ed epidemie. Ancor meno c’è da illudersi quanto ai comportamenti della “gente comune”. Per fare un solo esempio, un evento pur così scioccante e doloroso, mortifero e di lunga durata quale la pandemia attuale sembra aver intaccato assai poco perfino il costume di sparare botti, petardi e fuochi d’artificio nel corso della serata-notte dell’ultimo giorno dell’anno: come se in tal modo si potesse esorcizzare i quasi due milioni di vittime di Covid-19 a livello mondiale e la prospettiva, del tutto realistica, di un 2021 che, nonostante i vaccini, sarà egualmente condizionato dal Coronavirus.      

Una tale usanza, già di per sé alquanto detestabile poiché altamente inquinante nonché irrispettosa dell’altrui tranquillità, oltre tutto è foriera, ogni anno, d’incidenti anche mortali: quest’anno a perdere la vita è stato un tredicenne che viveva in un insediamento rom di Asti e altrove ben 79 sono state le persone ferite, alcune gravemente.

Ma, come sempre, a pagare il tributo di vittime più alto sono stati i non-umaniA Roma, com’è noto, la sera-notte del 31 dicembre scorso, in via Cavour e in altre strade del centro, centinaia di storni sono morti a causa di botti, petardi, bombe da tiro e simili, che hanno sconvolto a tal punto quelle povere creature da provocare loro infarti letali, da farli sbattere, soccombendone, contro muri e finestre o addirittura contro cavi d’alta tensione.

Chi tuttora enfatizza il significato propiziatorio e la funzione di rito di passaggio di fuochi e simili – come se oggi coloro che sparano botti, petardi, bombe da tiro fossero consapevoli di un tale significato e di una tale funzione – in fondo perpetua l’idea che tutto ciò che è presuntamente primigenio, tradizionale, ancestrale vada preservato e perpetuato al di là dei contesti storici e sociali, al di là degli stessi gravi danni che il “rito” produce.  L’antropologo Marino Niola, pur riconoscendo che un tale “rituale” sia divenuto ormai “serbatoio di episodi di cronaca nera”, ammette, sì, che sia “sacrosanto fare dei controlli”, ma ritiene che sia “stupido vietare i botti”.

 

Per concludere: la coazione a ripetere, l’aspirazione a tornare al “mondo di prima”, la tendenza a perpetuare, come se nulla fosse accaduto, abitudini e costumi consueti quali il consumo di carne, la caccia, l’uso di pellicce animali, il quotidiano contributo all’inquinamento; insomma, l’incapacità di trarre da questa tragedia qualche lezione etico-politica da tradurre in prassi quotidiana: tutto questo espone noi umani, ma anche gli incolpevoli non umani, a un futuro costellato da epidemie e pandemie.

 

da qui

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