La nostra prossima automobile sarà elettrica. Un circolo virtuoso
tecnologico-commerciale si sta per avviare, e creerà presto condizioni
favorevoli alla diffusione di questo tipo di autoveicoli: prezzi accessibili,
rete capillare di colonne per la ricarica veloce, ragionevole autonomia delle
batterie. Con la nostra auto elettrica potremo andare a prendere i figli nelle
scuole del centro con la coscienza tranquilla, finalmente, perché nei tre
chilometri tra andata e ritorno non avremo emesso gas serra, né polveri sottili
e nel complesso avremo utilizzato meno energia di quanta ne richiede il diesel
euro 6.2 temp su cui viaggiamo adesso, perché i motori
elettrici sono più efficienti di quelli a combustione interna.
“Sì, però…”, ci dice il nostro amico a cena, “l’energia che carica la
batteria la devi pure generare da qualche parte e vedrai che lì, all’altro capo
della presa di corrente, i gas serra vengono fuori lo stesso”.
“Non è detto…”, rispondiamo pronti, “Non c’è alcuna emissione, se all’altro
capo ci mettiamo un campo fotovoltaico o eolico o una cascata di acqua fresca
che fa girare una turbina!”
Nel 2017 negli stati dell’Unione Europea il 13,9% della domanda di energia
è stata coperta da fonti rinnovabili (Eurostat). Il 4,3% di questa energia è stata
prodotta da impianti fotovoltaici, eolici e idroelettrici, il tipo di impianti,
cioè, a cui generalmente ci riferiamo quando diciamo “energia pulita”. Il resto
invece si basa su quello che si può ottenere dalla biomassa, bruciandola direttamente nelle caldaie o bruciando il biocombustibile
prodotto tramite il compostaggio o altri processi di fermentazione. La combustione
in tutti i casi produce CO2 e polveri sottili e se vogliamo
sostenere la sostenibilità del motore elettrico preferiamo escludere dal conto
l’energia da biomassa, anche se per molti versi è preferibile a quella da fonti
fossili.
Il 4,3% è un po’ poco, bisogna ammetterlo, per poter affermare che la Tesla
del nostro vicino di casa è alimentata dal vento, ma confidiamo che la
percentuale possa crescere molto nei prossimi anni, per effetto del progresso
tecnologico e delle pressioni che l’opinione pubblica sta cominciando a
esercitare sui governi.
Potremo mai contare in futuro sul 100% di energia pulita emancipandoci una
volta per tutte dai combustibili fossili?
David MacKay, fisico e matematico all’Università di Cambridge, ha provato a
rispondere seriamente a questa domanda con un lavoro di ricerca e di calcolo
che definirei titanico, riferito alla Gran Bretagna ma di valore universale per
metodo e risultati. Nel suo libro del 2008, consultabile online, Sustainable
Energy – Without the Hot Air, che in italiano
tradurremmo Energia sostenibile – senza aria fritta,
elabora una stima della quantità massima di energia
sostenibile che ci si può aspettare di ottenere nel paese, considerando scenari
ai limiti della plausibilità. Per esempio, ipotizza di installare parchi
eolici off-shore (in mare aperto) su un terzo dell’estensione
dei fondali più adatti, cioè con profondità inferiore a 25 metri, disponibili
all’interno delle acque territoriali britanniche. Solo un terzo, per assicurare
un minimo di agio al traffico navale e alle attività di pesca; comunque un’area
vastissima, di poco più grande dell’intera Lombardia. Si tratterebbe di 44.000
turbine da 3 MW, che, messe idealmente in fila a 67 metri una dall’altra,
coprirebbero tutti i 3000 km di costa della Gran Bretagna.
Visualizzare mentalmente un simile schieramento lungo le bianche scogliere
di Dover o meglio ancora lungo la riviera romagnola e poi su fino a Trieste e
giù fino a Santa Maria di Leuca e poi di nuovo su fino a Ventimiglia aiuta a
capire cosa si intende per “scenari ai limiti della plausibilità”.
MacKay stima la quantità di energia che tutte queste turbine sarebbero in grado
di produrre per ciascun cittadino e poi somma questa quantità al possibile
contributo pro capite di tutte le altre fonti di energia sostenibile, anch’esso
calcolato sulla base di casi limite ipotetici: solare fotovoltaica, solare
termica, energia da moto ondoso e da maree, idroelettrica, eolica terrestre,
geotermica ecc. Parallelamente, l’autore elabora una stima dell’attuale domanda di
energia pro capite, includendo il riscaldamento invernale, il raffrescamento
estivo, i viaggi in auto e in aereo, la produzione di beni e di cibo,
l’illuminazione ecc. Infine, confronta le due stime (quella dell’attuale
domanda e quella della possibile offerta) e mette in evidenza come, anche
considerando i casi limite, le fonti di energia sostenibile non riuscirebbero a
soddisfare completamente il nostro attuale fabbisogno energetico. Il divario
diventa scoraggiante quando si introducono i correttivi di plausibilità legati
all’impatto paesaggistico di certe soluzioni e ai costi di realizzazione e
manutenzione – pensate per un momento al MOSE nella laguna di Venezia e subito
dopo immaginate la sfida ingegneristica di un parco eolico con, poniamo, 10.000
turbine sui fondali dell’Adriatico.
La conclusione che se ne trae è che non possiamo illuderci di vivere di
energia pulita se assieme allo sviluppo di tecnologie capaci di sfruttare in
modo efficiente le fonti alternative, non si avvieranno iniziative serie
orientate alla drastica riduzione della nostra domanda.
Abbiamo una fiducia incrollabile nella capacità della tecnologia e del
mercato di rendere i nostri stili di vita più sostenibili senza chiederci di
modificarli. Colleghiamo la promessa di energia green e di automobili a
emissioni 0 – assieme alla promessa di bioplastiche e altri materiali
compostabili, di galline ovaiole allevate a terra, di carne
sintetica (Memphis Meats), di pomodorini idroponici all-season,
di cotone sostenibile – alla prospettiva di continuare indefinitamente a vivere
così, accendendo i condizionatori ai primi sentori dell’estate, muovendoci in
auto da soli nelle città anche per brevi tratti, usando contenitori monouso,
mangiando quasi ogni giorno carne, uova, formaggio e pomodorini freschi
imbustati, acquistando compulsivamente abiti nuovi ai saldi di stagione e
gettando via quelli dell’anno scorso, logorati dalla moda prima che dall’uso.
Questa fiducia incrollabile ci impedisce di vedere con chiarezza che nel nostro
stile di vita, invece, qualcosa deve cambiare. E ci fa credere che, se abbiamo
acquistato un SUV ibrido, abbiamo già fatto la nostra parte per salvare il
pianeta e che non dobbiamo fare molto altro. Con tutto quello che ci è costato!
Il SUV ibrido.
“Sì, però...”, ci dice il nostro amico a cena, “per i tuoi spostamenti in
città, la bicicletta sarebbe 30 volte più efficiente del tuo SUV ibrido, in
termini energetici. E in termini di emissioni, beh, dipende dall’impronta
ecologica di quello che hai mangiato, cioè dall’origine dell’energia che muove
i tuoi muscoli. Ma dopo aver mangiato le stesse cose, quelle che mi hai
preparato questa sera, io che torno a casa in bici emetterò zero polveri
sottili e 0g/km di CO2, mentre tu col tuo SUV ibrido emetteresti almeno 100g/km
di CO2 e chissà quante PM10. E il bello è che in bici ci si muove più in fretta
in città su brevi distanze e fino a 6-7 km i tempi di percorrenza sono simili a
quelli del tuo SUV ibrido nel traffico urbano, provare per credere. Tutto
questo”, continua il nostro amico, che si è infervorato, “sarebbe ancora più
vero se i piani per la mobilità urbana dessero priorità alla bicicletta, con
una rete di ciclabili ampie e sicure e con un’appropriata regolamentazione a
favore del ciclista. Inoltre, se treni e bus fossero attrezzati per caricare
all’occorrenza i ciclisti e le loro bici, una persona che abita fuori città,
potrebbe raggiungere il centro in treno e poi muoversi in bici. E nota che un
treno pieno è 18 volte più efficiente, per persona trasportata, del tuo fottuto
SUV ibrido con te solo a bordo. Bisogna fare pressioni sulle amministrazioni e
per fare pressioni bisogna innanzitutto mettersi a pedalare tutti assieme”.
Cosa si può rispondere a uno così? Che ha ragione, che anche noi in effetti
dovremmo… ma…
Le motivazioni che seguono questo tipo di “ma…” sono il vero nucleo del
problema quando si tratta di sostenibilità. Sono tutte motivazioni
riconducibili a un’idea di comfort immediato e privato al
quale non sappiamo rinunciare e nel caso del confronto tra SUV e bicicletta
hanno a che fare con la protezione dagli agenti esterni, con il non arrivare
sudati e il poter indossare il tailleur di Armani, con la comodità dei sedili,
con l’indulgere alla pigrizia – largamente compensato dall’ora serale in
palestra – e col piacere narcisistico di essere alla guida di un’auto così.
Razionalmente comprendiamo che sarebbero rinunce ridicole rispetto alla posta
in gioco, che è, nel breve termine, la riduzione dei rischi sanitari associati
alla concentrazione di polveri sottili nell’aria che respiriamo, e nel lungo
termine, la preservazione di un pianeta abitabile per i nostri nipoti. Questa
consapevolezza razionale, però, non si traduce in un sentimento di urgenza
abbastanza forte da indurci a cambiamenti di questo tipo. Benché il nostro
amico a cena si sia portato dietro un sensore di polveri sottili tascabile e due
giorni fa abbia rilevato nella nostra zona valori di concentrazione doppi
rispetto al limite di sicurezza, le polveri sottili restano invisibili e oggi,
in questa mattina di festa, radiosa e freddissima, i camini fumanti sui tetti
di Bologna ci parlano solo di famiglie al caldo e di calze piene di dolciumi,
in una sorta di idillio urbano postmoderno che ci incanta al di là della
finestra. Le PM10 sembrano un problema davvero remoto. La salute dell’umanità e
il riscaldamento globale che la minaccia sono ancora più lontani. Riconosciamo
che si tratta di problemi seri e reali, perché ci fidiamo dei molti esperti che
ce li rappresentano in termini chiari, ma per il momento ci sembra di poter
rinviare qualsiasi nostra iniziativa seria al riguardo. Almeno fino a quando
non potremo permetterci di sostituire il SUV ibrido con uno completamente
elettrico. A quel punto il nostro amico non avrà più nulla da rimproverarci. O
no? O ci dirà che non abbiamo capito niente? Dopotutto, non lo inviteremo più a
cena.
La contraddizione tra la lucida consapevolezza del problema del
riscaldamento globale e l’assenza di un impulso etico verso un’azione
collettiva all’altezza del problema è un tema centrale nell’ultimo libro di
Jonathan Safran Foer, Possiamo salvare il mondo prima di cena.
Questa contraddizione viene ricondotta alla differenza tra sapere e credere.
Possiamo sapere che una minaccia incombe su di noi, ma
non crederci. Se non ci crediamo vuol dire che non pensiamo
veramente che la gravità della situazione pretenda da noi una scelta radicale.
Confidiamo sul fatto che in qualche modo tutto si aggiusterà grazie
all’intervento di un deus ex machina e che la stessa entità
della minaccia sia stata magari sopravvalutata. Tutti gli ebrei polacchi, dice
Foer, proponendo un parallelo un po’ estremo, sapevano che la minaccia nazista
si stava avvicinando e concretizzando. Quelli che, oltre a saperlo, ci credevano,
hanno avuto la forza per compiere una scelta radicale: hanno abbandonato la
loro casa e si sono salvati – la nonna di Foer era una di loro.
La questione per Foer non è credere o non credere che il riscaldamento
globale abbia un’origine antropica e che si debba fare urgentemente qualcosa
per evitare gli scenari catastrofici che ci si prospettano – né il suo libro,
né lo studio di MacKay, né le riflessioni contenute in questo articolo si
rivolgono ai negazionisti, bensì a lettori già sensibilizzati. La questione,
invece, è credere o non credere che l’unica cosa da fare urgentemente per
salvarci dalla catastrofe sia abbandonare la nostra casa. Non in
senso letterale, ovviamente – per andare dove, poi? – ma nel senso figurato di
abbandonare il modello di benessere nel quale ci siamo accomodati e ci sentiamo
al sicuro. Un modello di benessere basato su un’assurda e insostenibile
sproporzione tra l’irrilevanza di molti nostri bisogni e l’enorme quantità di
risorse che consumiamo per soddisfarli.
La nostra sensibilità ecologista è cresciuta rapidamente negli ultimi anni
e sta cominciando a incidere in modo significativo sulle nostre scelte. Lo
testimonia lo sforzo straordinario che l’industria e il mercato stanno
compiendo per assecondare questa sensibilità. Un marchio di acqua minerale
italiano, ad esempio, considerando la nostra crescente avversione per gli
imballaggi di plastica, ha cominciato a imbottigliare l’acqua in lattine di
alluminio da 33 cc, anziché in bottigliette di PET, nel quadro di un’iniziativa
commerciale rivolta soprattutto ai baristi e ai ristoratori. Grazie a questa
iniziativa, il barista, mentre ci serve acqua in lattina, può spiegarci che
l’alluminio è molto più sostenibile della plastica, perché infinitamente
riciclabile senza perdita di qualità e meno dannoso se disperso nell’ambiente.
Così sentiamo di avere dato, noi e lui, un altro piccolo contributo alla difesa
del pianeta. In più la lattina entra perfettamente negli appositi scomparti del
nostro SUV ibrido, che abbiamo parcheggiato qui fuori in seconda fila.
“Sì, però…” ci dice il nostro amico che ormai incontriamo soltanto al bar
“rispetto all’acqua del rubinetto, anche considerando la pulizia delle brocche
e dei bicchieri, l’acqua in lattina ha un’impronta ecologica nell’ordine delle
mille volte superiore. Che sia in lattina o in plastica l’acqua imbottigliata
deve essere trasportata e questa in particolare ha fatto almeno 300 km prima di
arrivare qui. Perché allora il barista, se vuole darsi arie da ecologista non
ti propone acqua del rubinetto e perché tu non gliela chiedi? Perché le
amministrazioni pubbliche non obbligano i baristi a includere acqua del
rubinetto nel servizio e vendere acqua imbottigliata solo su richiesta, se
proprio uno la vuole?”
Al discorso sulla sostenibilità sta accadendo ciò che da più di un secolo
accade a quello sulla nutrizione: l’industria trasforma le tesi dominanti,
semplificandole, in leve di marketing, affinché la nostra anima sempre più
ecologista e salutista possa rispecchiarsi nelle opzioni che ci offre (su
questi temi consiglio la lettura di Nutritionism, di Gyorgy Scrinis
che delinea una interessantissima storia delle teorie nutrizioniste e dei loro
intrecci con l’industria alimentare a partire dalla metà del XIX secolo).
Ai claim nutrizionali come senza grassi saturi, senza
zuccheri aggiunti, senza olio di palma, ricco di
proteine e fibre ecc. ora si affiancano i claim
ambientalisti: packaging sostenibile col 20% di plastica in meno, col 50% di
plastica riciclata, 100% riciclabile, plastic free, confezione
biodegradabile ecc.
Sia chiaro: è una cosa buona. Significa che l’industria finalmente si sta
assumendo la responsabilità del suo impatto sull’ambiente e sta prendendo
misure opportune per ridurlo. Significa anche, ne siamo convinti, che sulla
spinta di questa consapevolezza la tecnologia e il mercato sapranno sviluppare
in futuro soluzioni impensate e ancora più efficaci. Perfino al problema che
sta più a cuore a Foer, cioè la produzione industriale di carne e latticini
basata sull’allevamento intensivo di animali, che secondo lui e molti altri, è
il principale fattore climalterante. L’azienda americana Beyond Meat, a questo
riguardo, si sta presentando come il deus ex machina nella
tragedia globale della carne. I suoi famosi beyond burger 100%
vegetali a base di legumi, surgelati e distribuiti negli Stati Uniti e in
qualche paese europeo, forniscono la stessa esperienza sensoriale di un
hamburger di manzo, ma la loro produzione ha un’impronta ecologica nettamente
inferiore. Così potremo mangiarne quanti ne vogliamo senza preoccuparci di
nuocere al pianeta. Bello! È pur vero che se mangiassimo direttamente i legumi
senza passare attraverso il raffinatissimo ed energivoro processo industriale
che li trasforma in burger e poi li surgela per spedirli in
giro per il mondo, l’impronta sarebbe ancora più piccola, molto più piccola; ma
noi non vogliamo rinunciare al valore aggiunto di un burger vegetale e a
goderne tutte le volte che ci pare. L’economia su cui continuiamo a prosperare
si regge su questo tipo di valore aggiunto e di emissioni aggiunte.
Il limite dei nostri dei ex machina è che la machina da
cui ci si aspetta che escano è sempre la stessa e c’è chi pensa che sia proprio
la machina in sé ad essere insostenibile. “Dopo quasi mezzo
secolo di ricerche e sperimentazioni sul tema della transizione verso la
sostenibilità, oggi sappiamo per certo che essa richiede un cambiamento
radicale del sistema sociotecnico e culturale.” Questo non lo dice il nostro
amico al bar, ma Ezio Manzini in un libro importante: Politiche del
quotidiano, progetti di vita che cambiano il mondo, dove si parla dei modi
in cui questo cambiamento può determinarsi. Si afferma in particolare che un
cambiamento sistemico radicale su larga scala non sarà possibile finché non si
saranno accumulati cambiamenti radicali a livello locale, attraverso progetti
di innovazione sociale e sistemica di piccola scala, come, ad esempio, i gruppi
di acquisto solidali, le iniziative di carpooling o di co-housing ecc. A
Bologna, la mia città, ce ne sono alcuni che vorrei citare: Arvaia e Camilla, che propongono
modelli alternativi di produzione del cibo e distribuzione dei beni di consumo,
il cohousing Porto 15, o la fattoria e
caseificio Lama Grande, dove le mucche
mangiano erba e muoiono di vecchiaia. Quando questi e altri progetti
pionieristici avranno ispirato altri progetti dello stesso tipo, replicandosi
cento o mille volte e affermando cento o mille volte un nuovo modello di
benessere, allora si saranno create le condizioni per un cambiamento radicale
su scala maggiore.
Anche i comportamenti individuali hanno un ruolo in questo processo di
transizione. Ogni cittadino che ha lasciato l’auto per muoversi in bicicletta,
dice Manzini, ha creato un mutamento sistemico. Minimo, ma radicale. Quelli che
hanno acquistato un’auto ibrida, invece, si sono limitati a un
cambiamento incrementale, perché la loro scelta, per quanto green la
si voglia considerare, non esce dalle logiche del sistema dominante dei
trasporti, fondato sulla mobilità automobilistica individuale che è
intrinsecamente insostenibile.
Per capire meglio in che senso dobbiamo considerare radicale e sistemica la
scelta innocentissima di andare in bicicletta e sui mezzi pubblici, basta
immaginare cosa accadrebbe se questa scelta fosse fatta dalla collettività. Il
cambiamento avrebbe effetti negativi sul mercato delle automobili e quindi
sull’intero sistema economico, di cui l’industria automobilistica è uno dei
pilastri. Effetti che definiremmo recessivi, nei termini del sistema
sociotecnico e culturale corrente: la machina. È per questo che il cambiamento
fa paura anche a chi lo auspica e lo promuove. Allo stesso tempo però la
collettività sperimenterebbe i vantaggi di una mobilità agile ed efficiente e
il piacere di muoversi in città più pulite, sgombre e silenziose. A quel punto,
un ipotetico ritorno al traffico congestionato da migliaia di SUV ibridi con
una sola persona a bordo, che oggi accettiamo come un portato inevitabile del
benessere a cui aspiriamo, sarebbe diventato insopportabile.
Un tempo tolleravamo anche il fumo di sigaretta al ristorante come un
fastidio inevitabile e avremmo perfino giudicato come un rompiballe fanatico
chiunque si fosse messo a fare delle storie e avesse cercato di negare a un
nostro commensale il legittimo piacere di fumarsi una sigaretta a tavola. Ora,
dopo che un divieto imposto dall’amministrazione pubblica ha allo stesso tempo
formalizzato e contribuito a formare un consenso generalizzato attorno all’idea
che fumare al ristorante è sbagliato, il fumo delle sigarette al ristorante è
diventato insopportabile, perché abbiamo sperimentato direttamente quanto è
migliore un ambiente senza fumo.
La transizione verso la sostenibilità potrà davvero compiersi, quando l’insostenibile diventerà insopportabile.
Epilogo
Elon Musk, fondatore di Tesla e imprenditore visionario, dopo aver letto
questo articolo ebbe una crisi di coscienza. Si pentì di avere lanciato
il Cybertruck,
il nuovo pickup della gamma Tesla di automobili elettriche con guida
semiautonoma. “Non c’è niente di disruptive in questa
proposta”, pensava tra sé. “È solo un altro macchinone pacchiano in
circolazione, con una carrozzeria blindata, tesa e spigolosa, che è una
dichiarazione di ostilità verso il mondo esterno, una formidabile munizione dei
confini dell’io e del privato possesso, contro l’aggressione del Bene Comune.
Mio Dio, cosa stiamo facendo!”
Al Salone di Parigi nell’ottobre del 2020, in occasione della sua ultima
apparizione pubblica, Elon spiazzò la folla di adepti che era convenuta lì da ogni
parte del mondo per assistere alla presentazione dell’ennesima geniale
innovazione. Dopo essersi esibito in una danza folle e
sgraziata, in preda a una strana euforia, uscì dal palco per un paio di minuti e poi
rientrò in sella a una bicicletta pieghevole, sulle note della Pastorale di
Beethoven. “Signore e signori” disse “ecco BCC (Before the
Climate Changes), una bicicletta pieghevole, perfetta per il trasporto
intermodale, alimentata a fagioli e acqua di rubinetto.
Con questo mezzo straordinario sono arrivato fino a qui dal mio albergo in
Saint-Germain-des-Prés in 25 minuti, vale a dire 10 minuti in meno del mio
collaboratore in Cybertruck. E senza disturbare nessuno!” Alle prime risate
fragorose del pubblico, seguì un muto sbigottimento, appena ci si rese conto
che Musk diceva sul serio. Mentre illustrava con passione sincera tutti i
vantaggi di muoversi in BCC nei centri urbani, cominciarono a levarsi alcuni
mormorii di disapprovazione. Poi qualcuno urlò qualcosa, dando voce alla
frustrazione di tutti e innescando un’escalation di rabbia che culminò nella
violenza. La grande sala delle conferenze fu ridotta a un cumulo di macerie.
Musk fu prontamente scortato fuori dall’edificio e rientrò in albergo su un
Cybertruck della polizia francese. Gli ci vollero 54 minuti, perché c’era un
ingorgo.
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