La salute è un diritto fondamentale, incluso e normato nella vasta gamma di
dichiarazioni e convenzioni internazionali riguardanti i diritti umani. Ed è
anche il diritto che forse più di ogni altro è complesso e insieme sfuggevole,
se letto nella prospettiva della sua esigibilità. Da quando, fin dagli esordi
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e poi, in maniera più
stringente, con la Dichiarazione di Ottawa del 1986, la salute cessa di essere
“assenza di malattia” per divenire “stato di benessere fisico, psichico e
sociale” di ogni individuo, la salute è diventata “un diritto che attraversa
tutti i diritti” (un diritto inclusivo,
nel linguaggio ONU), funzione complessa non solo dei sistemi di welfare e
dell’accesso alle cure (che le malattie le prevengono, le curano o ne riducono
l’impatto), ma di fattori ambientali e sociali, di variabili quali reddito, lavoro,
istruzione, risorse abitative, nutrizione, qualità della vita urbana, coesione
sociale, riduzione delle disuguaglianze, clima e qualità dell’aria e
dell’acqua, non discriminazione, diritto alla vita. E via elencando. Così,
nell’affrontare il tema del diritto alla salute alla luce del Covid19,
nell’ultimo Rapporto sui Diritti Globali1, ci si è misurati con
uno scenario difficile e contraddittorio, su cui la pandemia (anzi, la
sindemia) ha calato le sue carte, rilanciato la partita dei diritti,
enfatizzandone i limiti e, insieme, l’ineludibile necessità. Il Covid19,
insomma, è una potente lente di ingrandimento per leggere “l’ordinario” stato
dei diritti, e del diritto alla salute soprattutto.
Lo stesso termine sindemia, adottato per il Covid19 – e destinato a entrare
nel vocabolario comune, se sono realistiche le previsioni circa ricorrenti
crisi pandemiche correlate a diversi fattori ambientali e sociali – richiama
con forza ed esalta la pervasiva interdipendenza tra fattori, determinanti e
dimensioni diverse. Interdipendenza non solo tra i diversi diritti umani
(prospettiva del resto fin dall’inizio adottata dal Rapporto sui Diritti Globali sin dal suo stesso
titolo) ma anche tra diritti umani e diritti sociali. La contrapposizione tra
gli uni e gli altri, spesso protagonista di un dibattito teorico e politico a
tratti acceso (anche a sinistra), rischia di non cogliere il nodo
dell’interdipendenza esemplarmente rappresentata dal diritto alla salute, che
ha bisogno tanto di un quadro normativo globale rinnovato e forte (sempre più
forte, dotato di dispositivi di responsabilità politica, accountability, di
lotta all’impunità e meccanismi di risarcimento), tanto di diritti sociali più
esigibili, perché sono quelli che incidono sui determinanti sociali che “fanno”
la salute e ne condizionano qualità e esigibilità. Né si può dire che i diritti
umani appartengano alla sfera del “formalismo” globale, astratto e magari
retorico, di cui fare anche a meno, e i diritti sociali sono la carne e il
sangue della lotta sociale cui poco importa della forma e della norma:
basterebbe riandare alla grande lotta contro l’AIDS degli anni ’90 per trovare
un folgorante esempio di pratiche di movimento globale che hanno tenuto insieme
tutto, lotta alla discriminazione basata sull’orientamento sessuale e diritto
di accesso alle cure, lotta contro la povertà e la disuguaglianza e diritto
alla vita, lotta contro il TRIPS (accordo sulla proprietà intellettuale) e
alleanza tra stati trasgressori e persone malate, diritto all’informazione e
battaglia per l’antiproibizionismo in tema di droghe, difesa della sanità
pubblica e parità di genere. Lezione appresa, memoria da riattivare, che
riemerge con prepotenza in epoca di sindemia: se ne esce davvero solo
rispettando i diritti. Tutti.
Determinanti sociali.
L’insostenibile debolezza del diritto alla salute
Lo stato attuale della declinazione internazionale del diritto alla salute
è lontano dal garantire la sua esigibilità. E questo nonostante la normativa
internazionale abbia rinunciato alla complessità dello “stato di benessere
fisico psichico e sociale”, abbia ben presto perso per strada la
dimensione sociale e si sia concentrata
sul diritto di accedere a servizi e cure del miglior livello
disponibile. È dunque diventato il diritto a godere del livello più alto ottenibile di salute, come diritto
fondamentale di ogni essere umano senza distinzioni di razza, religione, credo
politico o condizione sociale e economia; laddove livello più alto ottenibile di salute, nonostante
le tante precisazioni e dettagli dei documenti internazionali, resta una zona
grigia, incerta e variabile, mentre quella più presidiata e cogente appare la
lotta alla discriminazione nell’accesso alle cure. I determinanti sociali
appaiono esclusi dai dispositivi di esigibilità e accountability2.
Si è detto, il virus non guarda in faccia nessuno, ma le sue conseguenze i
diversi volti li vede benissimo. E privilegia i più fragili, i più marginali, i
più poveri, nel mondo e all’interno di ogni paese. Ancora una volta è evidente
come un mondo e società attraversate da profonde disuguaglianze – di reddito, istruzione,
opportunità, partecipazione – producano profonde disuguaglianze nella salute e
nel diritto alla sua esigibilità, e come il modello capitalistico le riproduca
e le moltiplichi. I determinanti sociali della salute sono via via stati
esposti a crescenti stress con l’evolvere del modello capitalistico
globalizzato, e con il contestuale ritrarsi dei sistemi di welfare, secondo
quella teoria liberista del trade off – o investimenti
produttivi o spesa pubblica – che nei
decenni ha guidato lo smantellamento della sanità pubblica e universalistica,
accelerando la sua privatizzazione, e la finanziarizzazione delle imprese che
la forniscono. Mentre si andava ulteriormente aprendo la forbice delle
disuguaglianze sociali, in un meccanismo esponenziale, le mancate misure di
politica fiscale, previdenziale, sociale, redistributiva, consegnavano quote
sempre più ampie di popolazione – nel mondo ma anche nelle società ricche, come
in Europa – a nuovi livelli di povertà o comunque di radicale crisi della qualità
della vita. Uno sguardo ad alcuni dati pre-Covid19 rende per esempio conto
della debolezza delle politiche di lotta alla povertà e all’impoverimento: la
relazione intermedia di valutazione del raggiungimento degli Obiettivi per lo
sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals,
SDGs) dell’Agenda 2030 dell’ONU, stilata nel 2019, denuncia che non sarà
raggiunto l’obiettivo di portare a zero la povertà estrema (vivere con meno di
1,25 dollari al giorno) nel mondo entro il 2030, oggi la percentuale è di circa
il 9% (l’8% tra gli occupati), prima della pandemia si prevedeva al meglio di
arrivare in altri 10 anni al 6%, dopo la pandemia si prevede un sensibile
aumento. Al contempo, poco meno di 4 miliardi di persone, il 55% della
popolazione globale, non ha alcuna protezione sociale, l’87% in Africa, il 14%
in Europa; il 22% dei disoccupati e il 28 % delle persone disabili non hanno
misure di sostegno, il 35% dei bambini in difficoltà non ha alcuna protezione e
il 60% delle madri non riceve alcun aiuto economico. Se guardiamo all’Europa, i
dati sono meno drammatici, eppure l’obiettivo della Strategia Europe 2020, che
dichiarava di voler diminuire di 20 milioni di unità i poveri europei (113
milioni), all’inizio del 2020 registrava un decremento di soli 4,2 milioni in
10 anni, mentre la povertà relativa cresceva di 3,5 milioni. Questo senza
contare le conseguenze del Covid19 in questi primi 10 mesi di pandemia.
Universal Health
Coverage, una coperta troppo corta
Oltre alla generale debolezza dell’impatto delle politiche sui determinanti
sociali della salute, appare critico anche un aspetto cruciale dell’esigibilità
del diritto alla salute per come declinato in sede globale, quello dell’accesso
ai migliori servizi e trattamenti disponibili, sia per la prevenzione che per
la cura. Qui, comunque, l’accountability sembra aver segnato qualche passo in
avanti, le norme sono più dettagliate e le responsabilità dei governi più
tracciabili, e la lotta all’impunità ha in mano qualche strumento normativo.
Secondo il CESCR, Committee on Economic, Social and Cultural
Rights dell’ONU, servizi, beni, farmaci devono essere disponibili; devono essere accessibili per tutti senza esclusioni e
discriminazioni, essere accettabili, in
termini etici e culturali, e devono essere di qualità, sotto il
profilo scientifico e della sicurezza. Da queste quattro dimensioni generali
deriva un sistema di indicatori che consente di monitorare e valutare il grado
di adesione degli stati a questo set di principi. E poi, soprattutto, il
programma Universal Health Coverage (UHC)
dell’OMS, la copertura universale dei servizi di base, adottato con la
risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite Global Health and Foreign Policy, dal 2012 ha avviato
una serie di azioni e programmi mirati all’obiettivo di una copertura almeno
dei più essenziali servizi sanitari di base. Consapevole delle ricadute delle
povertà – dei singoli e delle nazioni – sull’accesso a servizi e cure, e dei
limiti dei sistemi di sanità pubblica nel mondo, il CESCR ci tiene a
sottolineare come l’accesso debba essere accompagnato dalla garanzia che l’uso di questi servizi non esponga i pazienti –
particolarmente i gruppi più poveri e vulnerabili – alla sofferenza
economica; e che gli stati devono attivarsi affinché i sistemi di finanziamento della sanità impediscano il pagamento
diretto delle prestazioni da parte dei pazienti e introducano sistemi di
prepagamento e di distribuzione del rischio per evitare spese insostenibili a
causa delle cure mediche e il conseguente impoverimento delle famiglie. Queste
precondizioni sono a carico degli stati, che ne dovrebbero quindi rispondere.
Nel 2019, sempre nell’ambito dell’Agenda dei SDGs, che prevede la copertura
universale entro il 2030, l’OMS fa il punto, e quello che rileva non è positivo:
4 miliardi di persone non ha accesso ai servizi sanitari di base, 5 milioni di
persone non accedono alle cure per la tubercolosi, 17 milioni a quelle contro
l’HIV/AIDS, 20 milioni di bambini non sono vaccinati contro difterite, tetano e
pertosse, 204 milioni di donne non hanno servizi di pianificazione familiare,
2,3 miliardi di persone non dispongono di servizi igienici. Secondo la Banca
Mondale, poco meno di un miliardo di persone spende il 10% del budget
famigliare in servizi per la salute, con l’esito che ogni anno 100 milioni
cadono nella povertà a causa di queste spese. Con buona pace dei SDGs, la
previsione più rosea diceva che nel 2030 il 30-35% della popolazione mondiale
sarà ancora senza accesso ai servizi di base. Poi è arrivato il Covid19, e
tutte le previsioni, già negative, sono precipitate.
La partita impari tra
Salute pubblica e Big Pharma
Sempre secondo l’ONU, la lentezza e i fallimenti verso una copertura
universale dipendono in buona parte dal mancato accesso ai farmaci: testualmente, i prezzi elevati dei prodotti farmaceutici, e l’accesso non equo a
questi prodotti, nei singoli paesi e tra nazioni, così come le sfide
finanziarie associate a questi prezzi elevati, continuano ad impedire ogni
progresso verso la copertura universale. Big Pharma – le
maggiori aziende multinazionali del farmaco – è uno dei settori capitalistici
più concentrati, gioca in regime di oligopolio, ed è tutelata dal TRIPS, il
trattato sulla proprietà intellettuale e i brevetti, che consente di mantenere
i diritti su un farmaco brevettato per ben 20 anni, il che impedisce ad altri
di produrlo e ai farmaci di assumere la qualità di generici. La determinazione
dei prezzi dei farmaci è una delle procedure più opache di tutto il capitalismo
globalizzato, paradossalmente – trattandosi di beni che hanno a che fare con la
salute e la vita – fuori controllo anche dal punto di vista capitalistico, per
esempio senza misura nel rapporto tra costi di produzione e prezzi di mercato.
Prova ne siano le trattative segrete (non è un’enfasi, è l’aggettivo corretto)
che si ripetono ogni volta tra aziende e governi al momento dell’acquisto di un
farmaco per i sistemi sanitari nazionali, dove conta ma non basta essere paesi
ricchi e essere acquirenti stabili: l’ultima esperienza pre-Covid19 in Italia è
stata quella dei farmaci contro l’epatite C, che sono partiti da decine di
migliaia di euro per ogni ciclo di trattamento individuale, costringendo –
prima di scendere a più miti consigli – a selezionare chi ne avesse diritto
(pochi) a discapito di tanti. Un problema enorme per un farmaco che cura in
maniera efficace una patologia mortale. Lo chiamano value-based pricing model, in sostanza si dice che il
prezzo è funzione della percezione dell’acquirente circa l’insostituibile
utilità del prodotto. Non male, per merci che salvano vite. È la legge del
profitto, si dirà. Vero, ma c’è qualcosa di più del regime oligopolistico del
farmaco – che per inciso fa sì che Big Pharma abbia margini di profitto di due
o tre volte superiori alla media dei profitti di tutte le altre merci, paghi
sempre meno tasse, accresca il processo di finanziarizzazione, investendo in
dividendi molto più che in ricerca – ed è la capacità di sfruttare le risorse
pubbliche indebolendo al contempo il potere negoziale degli enti pubblici,
nazionali e sovranazionali, che le erogano e che dovrebbero averne dei benefici
per garantire la salute di tutti. Si tratta non di escamotage di mercato ma di
una vera governance di sistema, e questa debolezza della sfera pubblica è ciò
che sempre più incide nella mancata esigibilità del diritto alla salute.
La parola chiave della governace dei farmaci è PPP, public private partnerships, sistemi
pubblico-privati che dovrebbero garantire negoziazioni e accordi tra aziende e
politiche pubbliche, nazionali o globali; nulla di male, se non fosse che a
questi tavoli le carte le dà Big Pharma. Tra i molti esempi3, stiamo a quanto
accade in Europa: qui opera lo IMI – Innovative Medicine Initiative
– una PPP tra Commissione Europea (CE) e compagnie del farmaco,
come GlaxoSmithKline, Novartis, Pfizer, Lilly e Johnson & Johnson, che
siedono nel consiglio di amministrazione. La CE ci butta denaro pubblico per la
ricerca – il meccanismo che stiamo vedendo per il vaccino anti-Covid19, oggi
con 16 miliardi di euro investiti – ma non ci guadagna alcun controllo sul
prezzo finale, né sulle priorità da seguire. Big Pharma non si attiene ai 25
obiettivi prioritari dell’OMS, tra cui primeggiano le malattie trasmissibili,
ma ricerca e investe sui farmaci più promettenti dal punto di vista commerciale
(ampiezza e durata prevista del mercato, con un occhio sempre sui paesi ricchi
che possono pagare), né ha ascoltato la CE quando chiedeva, nel 2017, di
investire soprattutto in ricerca (mettendoci soldi pubblici, dunque avendo
potenzialmente voce) su vaccini contro i coronavirus come SARS e MERS. Nessun
ascolto. Ciò che sconcerta è che la CE ne è ben consapevole, ma continua ad
affondare nella stessa palude: nel più recente rapporto di valutazione sull’IMI
si legge che tra il 2008 e il 2016 non può essere
verificato alcun beneficio socio economico dall’attività dell’IMI,
oltre al fatto che non ci sono esempi di attività
che abbiano portato a terapie o prodotti nuovi, più sicuri e più efficaci per i
pazienti. Concludendo che il valore aggiunto dell’IMI per
la società e per i pazienti è difficile da dimostrare. È
dimostrato invece quello per le grandi aziende, che incamerano miliardi per le
loro ricerche.
Non c’è nessuno
complotto. È il capitalismo, bellezza
Il Covid19 si abbatte su un mondo e su un sistema in queste condizioni. Non
stupisce che anche di fronte alla distruttività della pandemia e al rischio per
la salute globale il regime delle PPP continui a farla da padrone, in Europa e
nel mondo, in modo esponenziale. Di fronte alla sfida in atto, la sola garanzia
di assicurare alla popolazione globale sia i trattamenti verificatesi almeno in
parte efficaci sia soprattutto la copertura vaccinale, è quella di dichiarare
il vaccino un bene comune, derogando ai
brevetti ventennali, secondo quanto per altro già prevedono le norme introdotte
a parziale integrazione del TRIPS a Doha nel 2001, su spinta di stati come
India e Sudafrica (allora sul tavolo c’era l’accessibilità ai farmaci contro
l’AIDS per i paesi più poveri e più affetti). Big Pharma non andrebbe in
fallimento, la deroga prevede comunque il pagamento di royalties e la ricerca
sta andando avanti con grandi investimenti di denaro pubblico. Sono numerosi i
paesi che in sede OMS e WTO-TRIPS hanno fatto questa proposta, ma quelli ricchi
(Europa compresa, noi compresi) hanno votato contro, e già dai tempi di Doha si
contano sulle dita di una mano le grandi aziende che sporadicamente hanno
aderito ad accordi di deroga ai brevetti. Si sta preferendo procedere ancora
una volta per PPP, si allunga la lista delle sigle di iniziative e tavoli in
cui si tentano negoziazioni (tra governi, agenzie internazionali pubbliche,
case farmaceutiche e, non scordiamoli, grandi filantropocapitalisti alla
Bill Gates), senza garanzie chiare e soprattutto con permanenti asimmetrie nei
poteri decisionali, asimmetrie tra privato e pubblico e tra paesi ricchi e
paesi poveri. L’ultima nata – COVAX – a cui aderiscono anche OMS e CE, dovrebbe
sorvegliare su una distribuzione non troppo iniqua del vaccino, che non vada a
totale discapito dei paesi più poveri. Ma è un pannicello caldo di fronte al
potere del mercato e dei sovranismi sanitari: il 13% dei paesi del mondo
(quelli ricchi, noi inclusi) si sono già accaparrati 2 miliardi di dosi, mentre
si stima che i paesi più poveri avranno accesso al vaccino a decorrere dal
2024. Non è difficile immaginare cosa significhino tre anni di scopertura
vaccinale in contesti già afflitti da povertà e scarsi o nulli sistemi di
welfare.
Dunque non c’è alcun complotto, è “solo” capitalismo globalizzato,
smantellamento della dimensione pubblica della salute, debolezza della
politica. A cui rispondere con una critica razionale, radicale e serrata del
modello di sviluppo che li alimenta, come stanno facendo movimenti come Our Health is not for sale (La nostra salute non è in vendita) o Diritto alla Cura. #Right2cure. Nessun profitto sulla
pandemia4, rivendicando cure e
vaccini sicuri, accessibili, per tutti. Gli anni ’90 e i primi anni 2000 hanno
visto un forte movimento antiliberista che proprio dalla lotta contro WTO e
TRIPS hanno tratto contenuti e obiettivi strategici, consapevoli della portata
che quella governance della produzione, dello scambio commerciale, della
finanziarizzazione avrebbero avuto sulla vita concreta di miliardi di persone,
a cominciare dall’impatto sui diritti fondamentali, umani e sociali. Da
Seattle, nel 1999, in pochi mesi ci sarebbe stato l’abbraccio con il movimento
della lotta all’AIDS, che rivendicava rispetto per le persone colpite,
investimenti sociali e diritto all’accesso ai farmaci. Una storia, un’esperienza
e una memoria di lotta che vanno strappate al silenzio: la partita è epocale,
la posta in gioco troppo alta per lasciarla in mano al gioco ridicolo di
negazionisti e complottisti. Riportiamo il conflitto e la contraddizione nel
cuore del problema.
Note:
1) 18° Rapporto sui diritti globali. Il virus contro i
diritti, a cura di Associazione Società Informazione, Ediesse-Futura
editore. Del rapporto scrive qui il curatore, Sergio Segio https://transform-italia.it/i-diritti-globali-e-i-crimini-di-sistema-al-tempo-della-sindemia/. Dati e informazioni
citati in questo articolo sono tratti dal capitolo La pandemia e il
diritto alla salute, pp 161-214. Nel medesimo capitolo sono citate
tutte le fonti.
2) Su
efficacia e cogenza dei meccanismi di accountability e lotta all’impunità
rispetto al diritto alla salute si rimanda al citato capitolo, pp 165-170
3)
Tutte le diverse strategie di mercato, di governance e di lobbying politica di
Big Pharma sono analizzate nel capitolo citato, pp 174-188.
4) http://europe-health-network.net/spip.php?article289&lang=en ; https://noprofitonpandemic.eu/.
(*) Testo ripreso da https://transform-italia.it/
Susanna Ronconi è ricercatrice e attivista. Collabora dal 2004 al Rapporto sui Diritti Globali, di cui cura l’analisi
delle politiche sociali; per l’edizione 2020 ha redatto il capitolo La pandemia e il diritto alla salute. È presidente
del Comitato scientifico dell’Associazione Forum Droghe.
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