Lo abbiamo capito tutti, e già scritto in tanti. Non è una crisi passeggera questa, e quando sarà finita ci restituirà a un mondo diverso da quello che abbiamo chiuso fuori dalla porta all’inizio del lockdown. Tra i molti modi in cui la pandemia da COVID-19 sta cambiando il mondo c’è anche la crisi senza precedenti che ha contribuito a creare sul mercato del petrolio. E vale la pena seguirla, quella crisi, anche se le nostre attenzioni sono comprensibilmente monopolizzate dall’emergenza sanitaria e il prezzo della benzina non può essere, oggi, la nostra maggiore preoccupazione. Perché in un modo o nell’altro deciderà gli assetti geopolitici del mondo che verrà, segnerà una svolta nel percorso verso la transizione energetica, e influirà in modo determinante sugli sforzi per limitare il riscaldamento globale (che, ricordiamolo, è anche un fattore che contribuisce a rendere pandemie come questa sempre più probabili).
Da settimane, i principali indici dei prezzi del petrolio, quelli basati
sui contratti di acquisto di Brent (il greggio estratto nel Mare del Nord), e
il West Texas Intermediate (dai giacimenti dello stato americano), oscillano
tra i 20 e i 30 dollari al barile. Oscillano anche molto da un giorno
all’altro, con brusche cadute e risalite. Negli ultimi giorni sono cresciuti di
qualche punto grazie all’intervento del presidente USA Donald Trump che prova –
per ora con scarsa efficacia – a prendere in mano la crisi. Ma nel complesso
siamo ai livelli più bassi toccati dal 1998, quando il prezzo precipitò per
qualche mese a causa del tracollo delle economie asiatiche.
Nemmeno durante la grande crisi finanziaria del 2008 e 2009 aveva sfiorato
i 20 dollari al barile, come ora. E quei prezzi, quelli che trovate citati come
riferimento sui giornali, riguardano i futures, cioè prodotti
finanziari che impegnano a comprare una certa quantità di petrolio entro una
scadenza. Per quanto legata a filo doppio alla realtà dei pozzi e delle pompe
di benzina, è finanza. Sul mercato reale, fisico, i prezzi sono più bassi, in
alcuni casi già a cifra singola. Negli scambi reali tra produttori e
raffinatori, il petrolio nordamericano si vende a cifre che vanno da 13 o 14
dollari al barile giù fino a 5 dollari per il greggio di qualità minore. Pochi
giorni fa Bloomberg, titolando “Il mercato del petrolio è in pezzi”, raccontava
che negli Stati Uniti, per qualche produttore dai costi di produzione
particolarmente alti il prezzo è ormai negativo: in pratica pagano i clienti
perché si portino via il petrolio che non sanno più letteralmente dove mettere.
La crisi del mercato del petrolio deciderà gli assetti geopolitici del
mondo che verrà, segnerà una svolta nel percorso verso la transizione
energetica e influirà in modo determinante sugli sforzi per limitare il
riscaldamento globale.
La crisi è innescata da due fattori che, secondo quanto i libri di economia
insegnano su domanda e offerta, non dovrebbero coesistere. Da una parte, crollo
della domanda senza precedenti, perché la pandemia di COVID-19 tiene ferme le
economie di mezzo mondo. Dall’altra, eccesso smodato di offerta causato da una
guerra di nervi tra i grandi produttori, in particolare Arabia Saudita e
Russia. Il risultato è che il mercato è inondato di petrolio che in questo
momento nessuno vuole. “Il mondo del petrolio ha conosciuto molti shock in
passato, ma nessuno ha colpito l’industria con la ferocia a cui assistiamo
oggi” ha scritto l’Agenzia
Internazionale dell’Energia. “I paragoni con crisi passate sono inevitabili, ma
fuori luogo”.
Secondo Giuliano Garavini, docente di Storia delle relazioni internazionali
all’Università Roma Tre, e autore lo scorso anno del libro The rise and
fall of OPEC in the 20th century, “il precedente più simile è il
controshock petrolifero dei primi anni Ottanta. Allora, dopo un decennio di
prezzi alti, la domanda calò a causa della recessione negli Stati Uniti, mentre
l’offerta aumentò per l’arrivo del nuovo petrolio del Mare del Nord, estratto
soprattutto da Gran Bretagna e Norvegia. A quel punto l’Arabia Saudita, stanca
di limitare la produzione per stabilizzare i prezzi, decise di inondare il
mercato di petrolio e offrire forti sconti”.
Da lì in poi il prezzo del greggio resta mediamente basso fino alla metà
degli anni 2000, quando torna a impennarsi. “Per certi versi somiglia a
quello che vediamo ora” continua Garavini. “Siamo in recessione globale e pesante,
c’è un nuovo petrolio sul mercato (lo shale prodotto negli
stati uniti con la tecnica del fracking), e c’è il rifiuto
dell’Arabia Saudita di sobbarcarsi da sola il compito di tenere su i
prezzi. Quello che è veramente diverso è che il calo del prezzo degli anni
Ottanta ha portato poi a un’enorme espansione della domanda mondiale, si può
dire che è stato la benzina della seconda globalizzazione. Oggi è difficile
pensare che succeda lo stesso”.
A causa del crollo della domanda senza precedenti e dell’eccesso smodato di
offerta, il mercato è inondato di petrolio che in questo momento nessuno vuole.
Ci arriveremo, ma prima serve capire l’origine della crisi. La tempesta
covava sotto le ceneri da mesi, ma è esplosa nel corso di un fine settimana,
drammaticamente accelerata dalla diffusione mondiale del nuovo coronavirus. È
venerdì 6 marzo quando, a Vienna, si incontrano Alexander Novak, ministro
dell’energia della confederazione russa e il suo omologo saudita, il principe
Abdulaziz bin Salman, fratello di quel Mohammed bin Salman (MBS) che di fatto
ha in pugno l’Arabia Saudita. Si incontrano alla sede dell’OPEC, l’associazione
che riunisce la maggior parte dei paesi produttori di petrolio in Medio
Oriente, Africa e Sud America.
Da tre anni l’OPEC, di cui l’Arabia Saudita è di gran lunga il membro più
influente, mantiene una faticosa alleanza con la Russia (ribattezzata OPEC+).
L’interesse comune – contrastare la concorrenza dei produttori statunitensi
di shale oil – li ha tenuti finora attorno allo stesso tavolo,
impegnati a limitare ad arte la produzione in modo da mantenere i prezzi del
greggio abbastanza alti da alimentare le rispettive economie. L’obiettivo
dell’incontro viennese era decidere cosa fare di fronte alla crisi economica
innescata dal nuovo coronavirus. L’Arabia Saudita si presenta al tavolo con la
proposta di continuare, anzi inasprire il piano di tagli progressivi alla
produzione, in modo da sostenere il prezzo del petrolio anche nel periodo di
recessione che si sta aprendo.
La Russia però non ci sta. Ha l’impressione che i prezzi alti degli ultimi
anni abbiano favorito più che altro i produttori americani di shale oil,
e vuole provare una strategia diversa: usare la recessione per metterli fuori
mercato, forte del fatto che negli ultimi anni Putin ha fatto cassa, e può
permettersi di vendere petrolio a prezzo scontato per un anno o due senza
battere ciglio. D’accordo con Putin, Novak abbandona la riunione e annuncia che
la Russia aumenterà la propria produzione. Ma a sorpresa, l’Arabia Saudita vede
e rilancia, anzi fa saltare il tavolo. Nel fine settimana che segue al vertice
fallito di Vienna, il regno saudita annuncia che aumenterà la produzione di 2,5
milioni di barili al giorno, il 2 per cento dell’intera produzione mondiale. I
maggiori analisti si dividono sul senso della mossa saudita: per alcuni è
un chicken game tra due produttori che giocano a chi cede per
primo – già che ci sono, mettendo in ginocchio il rivale comune, lo shale
oil statunitense, troppo costoso da estrarre per reggere in questo
mercato. Per altri, il regno saudita sta invece prendendo atto che il mondo è
cambiato. Che la spinta politica per la transizione verso le energie
alternative combinata al cigno nero del coronavirus rende il greggio una
risorsa destinata a perdere valore nei prossimi decenni. Tanto vale vendere
tutto il vendibile prima possibile, e investire i proventi in
qualcos’altro.
Che fosse tattica (guerra di nervi per riaprire la trattativa) o strategia
(nuovo approccio di lungo termine al mercato), è possibile che né sauditi né
russi avessero del tutto previsto quello che sarebbe venuto da lì a poco. Un
grande paese dietro l’altro che entra in lockdown più o meno rigido, compresi
giganti economici come gli Usa e giganti demografici come l’India e il Pakistan.
Auto ferme e fabbriche chiuse. Le compagnie aeree che, una dietro l’altra,
annunciano lo stop dei voli. Nel giro di 15 giorni insomma, come ha scritto il
corrispondente di Bloomberg Javier Blas, la guerra dei prezzi
tra Arabia e Russia comincia a sembrare il gruppo di supporto in un concerto:
famoso per 15 minuti, ma subito messo in ombra da un evento più importante.
La tempesta covava sotto le ceneri da mesi, ma è esplosa con la pandemia,
sotto forma di guerra tattica tra Arabia Saudita, Russia e Stati Uniti.
Difficile fare i conti in tempo reale, ma secondo Goldman Sachs la domanda
mondiale di greggio, che nel 2019 è stata in media attorno ai 100 milioni di
barili al giorno, scenderà almeno per aprile di 20, forse 25 milioni di barili
al giorno – e continuerà così finché dureranno i lockdown delle maggiori
economie. Per raffronto, dal 1985 si sono registrati solo tre anni in cui la
domanda mondiale di greggio è calata, e persino nel 2009, all’apice della
Grande Crisi, calò di “appena” 1 milione di barili al giorno.
I contraccolpi si iniziano a vedere ovunque. I produttori americani
di shale, estremamente costoso da estrarre, vanno immediatamente in
sofferenza: a quei prezzi lavorano in perdita, e grossa. Per ora continuano a
estrarre petrolio, perché poco fatturato è sempre meglio che niente fatturato.
Ma vendono a prezzi pericolosamente vicini allo zero e in qualche caso
addirittura inferiori, come nel caso del produttore del Wyoming di cui
raccontava Bloomberg.
Intanto, grandi compagnie petrolifere annunciano lo stop a nuovi
investimenti, ovvero alla ricerca e sfruttamento di nuovi giacimenti. Le più grandi
raffinerie indiane rimandano indietro parte del greggio che aveva ordinato per
questi mesi, e che al momento non vale la pena di
trasformare in benzina.
Manca solo un tassello per completare il collasso del mercato petrolifero:
tra poco non si saprà più dove mettere il greggio in eccesso. Entro due o
tre mesi si riempiranno le riserve strategiche degli Stati, così come i grandi
serbatoi commerciali per l’immagazzinamento di petrolio, concentrati nei grandi
porti e comunque accessibili solo ai grandi produttori. Per i più piccoli, i
guai arriveranno già tra pochi giorni, tanto che i produttori americani stanno
esplorando soluzioni di pura emergenza, come trasformare in serbatori i treni
cisterna parcheggiati nelle stazioni. Quando tutti
i serbatori saranno pieni, molti dovranno per forza fermare i pozzi e
falliranno. E qui si apre un altro problema, perché un impianto petrolifero non
è un negozio di cui si può semplicemente tirare giù la saracinesca: fermarlo è
una complessa e costosa operazione che può avere un forte impatto
ambientale.
Quando tutti i serbatori saranno pieni, molti dovranno per forza fermare i
pozzi e falliranno. E qui si apre un altro problema, perché fermare un impianto
petrolifero è una complessa e costosa operazione che può avere un forte impatto
ambientale.
Alla fine della scorsa settimana il prezzo del greggio è tornato a salire
un po’, grazie alla Cina che inizia ad acquistare grandi quantità per le sue
riserve strategiche, e all’inevitabile tweet di Trump che annuncia di aver
parlato con Putin e Bin Salman e di aspettarsi da loro un imponente taglio
della produzione. Ma come spesso capita per le dichiarazioni a effetto del
presidente americano, la realtà appare subito diversa: i sauditi in particolare
si limitano ad auspicare un incontro che metta tutti attorno a un tavolo (OPEC,
Russia, Stati Uniti e tutti gli altri) in cerca di una soluzione “equa”: ovvero,
o tagliano tutti o non taglia nessuno. Una riunione virtuale aperta a tutti i
produttori mondiali è stata annunciata per il 6 Aprile, e subito rimandata al 9
per manifesta impossibilità di trovare un terreno comune da cui partire: russi e
sauditi continuano ad accusarsi reciprocamente, Trump definisce l’OPEC
“illegale” e minaccia di ricorrere ai buoni vecchi dazi, gli stessi produttori
americani non sono tutti d’accordo sull’idea di un taglio globale alla
produzione. Intanto, per non sbagliare, il regno saudita continua a caricare a
man bassa la flotta di superpetroliere che ha noleggiato a inizio marzo, e che
usa come serbatoi galleggianti. E nel frattempo manda milioni di barili in
Egitto, dove sono immagazzinati pronti a invadere il mercato europeo.
Presto o tardi l’eccesso di offerta verrà comunque frenato, o perché Arabia
e Russia sospenderanno il braccio di ferro o perché altri paesi saranno semplicemente
costretti a smettere di pompare greggio. Il prezzo salirà un po’ ma il crollo
della domanda, ormai vero protagonista di questa storia, sarà ancora lì. E
l’industria del greggio ne uscirà trasformata.
Come finirà, e che strada prenderà il mercato dell’energia dopo questa
crisi? In questi giorni può capitare di leggere analisi che sostengono, con
altrettanta convinzione, che la tempesta sul mercato del petrolio segnerà una
brusca battuta d’arresto per la lotta al riscaldamento globale e per la
riduzione delle emissioni, o che al contrario porterà
un’accelerazione verso la transizione alle fonti rinnovabili.
La tempesta sul mercato del petrolio segnerà una brusca battuta d’arresto
per la lotta al riscaldamento globale e per la riduzione delle emissioni, o
porterà un’accelerazione verso la transizione alle fonti rinnovabili?
La sfera di cristallo non ce l’ha nessuno, ma è vero che questa crisi
scatena forze altrettanto potenti in opposte direzioni. Quando l’economia
ripartirà e troverà ad attenderla tutto quel petrolio a basso prezzo, molti
correranno ad approfittarne. Energia a buon mercato in un momento in cui ci si
troverà sul groppone il salatissimo conto della recessione: una tentazione
quasi irresistibile, anche per paesi che si erano impegnati sulla riduzione
delle emissioni (figuriamoci per gli altri). Lo stesso vale per i consumatori.
“Oggi la benzina all’ingrosso in alcuni mercati americani costa 15 centesimi al
gallone” segnala Garavini. “Difficile pensare che questo prezzo non generi,
alla ripresa, un incentivo a usare auto”. Anche convincere gli automobilisti a
lasciare il motore a scoppio per l’elettrico potrebbe rivelarsi, dopo la crisi,
ancora più difficile di quanto già non fosse.
D’altro canto il prezzo basso del greggio, e più ancora l’estrema
volatilità che il suo mercato sta mostrando, sono un potente disincentivo a
investire in ricerca, estrazione, commercializzazione. Molto semplicemente, a
questi prezzi non vale la pena tirar fuori il petrolio dal terreno – giusto
Arabia Saudita e Russia possono farlo per un po’, perché hanno abbastanza soldi
in cassa e costi di estrazione più bassi. Molti governi e grandi imprese
potrebbero convincersi a guardare oltre il breve termine, ad altre fonti di
energia che possono garantire ritorni migliori sugli investimenti, e di programmare
a lungo termine senza preoccuparsi degli umori dell’autocrate di turno.
Per guardare in casa nostra, forse non è una sorpresa che la modesta
attività italiana di estrazione di petrolio sia stata inserita tra le “attività
essenziali” che restano attive anche durante il lockdown. Ma è più che mai
lecito chiedersi che senso avrà mantenerla, in un mercato su cui di fatto
lavora in perdita. “Per uscire da questa crisi si dovranno investire ovunque
grandi risorse” sintetizza Garavini. “Se andranno a pioggia a sostenere il
modello attuale, lo stato delle cose subito dopo la pandemia non cambierà
molto, ma se andranno in modo mirato su fonti rinnovabili, batterie e reti
intelligenti, la transizione energetica potrebbe accelerare molto rispetto a
quanto si prevedeva”.
Quando l’economia ripartirà e troverà ad attenderla tutto quel petrolio a
basso prezzo, molti correranno ad approfittarne. D’altro canto il prezzo basso
e volatilità del greggio sono un potente disincentivo a investire in ricerca,
estrazione, commercializzazione.
Qui si apre una lunga serie di “dipende”. Dipende da quanto durerà il
lockdown e la recessione che ne seguirà, da come ne usciremo, da quali paesi ne
usciranno per primi. Una ripartenza ci sarà, e riporterà vero l’alto sia la
domanda di energia sia, almeno un po’, i prezzi del greggio. Ma chi sarà
rimasto a venderlo? Quanti governi saranno contenti di dipendere così tanto da
Arabia Saudita e Russi? Ce la farà il governo USA a tenere in piedi i
produttori di shale? Come ne usciranno Venezuela, Iraq, Iran,
Libia, paesi produttori che contano sul petrolio per mantenere la macchina
statale e tenere in piedi economie sull’orlo della crisi o già oltre
l’orlo?
Il più importante di tutti i “dipende”, però, riguarda ciò che succederà
alla domanda di greggio dopo la pandemia. “Per decenni”, ricorda Garavini, “chi
studiava il mercato del petrolio si è preoccupato soprattutto di prevedere
il peak oil”, ovvero il momento in cui la produzione avrebbe
toccato il massimo per poi iniziare a diminuire, per l’impossibilità di trovare
nuove riserve e i rendimenti sempre minori nello sfruttamento di quelle
esistenti. Un termine sempre rimandato dalla scoperta di nuovi giacimenti, e
recentemente dalla comparsa del fracking. Tanto che a un certo
punto si è capito che sarebbe arrivato prima il peak demand, il
momento in cui la domanda mondiale toccherà il massimo e poi comincerà a
calare, per la spinta generale verso efficienza energetica, riduzione delle
emissioni, conversione alle rinnovabili.
Dopo quella data si continueranno a sfruttare le riserve disponibili, ma
gli investimenti si sposterebbero rapidamente su altre fonti di energia. I
principali analisti collocavano il peak demand negli anni 30
del secolo, ma il coronavirus potrebbe averla anticipata. “Lo capiremo solo
dopo, ma il picco potrebbe essere stato proprio nei due mesi del 2020 prima
della pandemia” suggerisce Garavini. La ripresa ci sarà, ma probabilmente
graduale. Qualche limitazione agli spostamenti potrebbe restare in piedi per
molto tempo o diventare addirittura strutturale. Settori particolarmente
assetati di petrolio, come il trasporto aereo, potrebbero impiegare anni a
tornare ai livelli pre-coronavirus. E dopo il lockdown ritroveremo intatti
tutti i fattori che, già prima della pandemia, facevano intravedere dietro
l’angolo una recessione: rallentamento della crescita cinese, Brexit, effetti
della guerra commerciale tra USA e Cina.
Ci si è preoccupati soprattutto di prevedere il peak oil, il
momento in cui la produzione avrebbe toccato il massimo per poi iniziare a
diminuire; a un certo punto si è capito che sarebbe arrivato prima il peak
demand, il momento in cui la domanda mondiale comincerà a calare.
Secondo Garavini, conteranno molto le previsioni del futuro che in questo
momento stanno formulando le grandi banche o dall’Agenzia internazionale
dell’energia (IEA), quei ponderosi rapporti annuali in cui si ipotizzano gli
scenari del mercato energetico da qui a 50 anni. “In passato si sono spesso
rivelate sbagliate, ma hanno lo stesso orientato le scelte, in una certa misura
si autoavverano. Se ora quegli scenari smettono di descrivere una domanda di
greggio in crescita fino al 2030, tutti dovranno modificare le loro politiche.
Un mondo in cui la domanda di greggio cala strutturalmente è un mondo diverso
da quello che abbiamo conosciuto finora”. I prossimi mesi diranno se siamo già
in quel mondo, e quanto sarà diverso.
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