Chi avrebbe mai detto che una protesta di agricoltori avrebbe creato un
problema politico capace di mettere in imbarazzo il governo di Narendra Modi,
in India. Eppure è proprio così. Da due mesi la capitale indiana Delhi è
assediata da una moltitudine di coltivatori e lavoratori agricoli. Sono
centinaia di migliaia di persone venute soprattutto dai grandi stati della
pianura indogangetica ma in parte anche dal resto dell’India. Dalla fine di
novembre sono accampati intorno alla Grande Delhi; chiedono l’abrogazione di
tre nuove leggi che liberalizzano il mercato agricolo, approvate lo scorso
settembre dal parlamento nazionale in gran fretta e senza dibattito. Sono
determinati: hanno resistito prima alle cariche di polizia e poi al freddo
invernale.
Una prova di forza
Ora, dopo undici round di incontri inconclusivi con rappresentanti del
governo, le trattative sono rotte. Il governo offre di sospendere
l’applicazione delle leggi contestate per 12 o 18 mesi, ma non tratterà altro.
I coltivatori ripetono che non se ne andranno finché quelle leggi non saranno
abrogate.
Si prepara una prova di forza. I rappresentanti degli agricoltori
confermano una “marcia dei trattori” il 26 gennaio, giorno della festa delle
Repubblica, quando a Delhi si svolge un’imponente parata militare. Il governo
sperava di evitarlo: ma la Corte Suprema, interpellata, ha rifiutato di
emettere un divieto. La dimostrazione di potenza dell’India “emergente”
oscurata da un’armata rurale.
Vivere della terra
Un movimento popolare così ampio ha spiazzato il governo. La protesta dei
coltivatori è stata descritta dai grandi media indiani come la rivolta di un
gruppo sociale che vive di sovvenzioni di stato e teme di perdere i propri
privilegi: rappresentanti di un vecchio mondo assistito che frenano le riforme
necessarie a modernizzare un settore agricolo inefficiente e insostenibile.
Come ha ripetuto il primo ministro Modi, le nuove leggi «liberano gli
agricoltori indiani», che potranno finalmente competere sul mercato. Molti
hanno sottolineato che in fondo l’agricoltura fa solo il 16 per cento del
Prodotto interno lordo indiano, una fetta marginale rispetto all’industria e
soprattutto i servizi cresciuti negli ultimi vent’anni. Dimenticano però di
aggiungere che il 55 per cento della forza lavoro è occupata in agricoltura, e
anche neppure questo dato riflette la realtà: 800 milioni di persone, su un
miliardo e 300 milioni di indiani, vivono direttamente o indirettamente della
terra. La protesta dell’India rurale mette in imbarazzo il governo perché ogni dirigente
indiano sa che la terra e i coltivatori restano la base della società e della
legittimità politica della nazione.
Sette campi di protesta, sette città
temporaneee
Chi ha visitato i sette campi di protesta che circondano la Grande Delhi
infatti ha raccolto una storia ben diversa da quella raccontata dai media
mainstream.
La scena. Le prime colonne di trattori e camion sono arrivate dagli stati del
Punjab e dell’Haryana a nord-ovest della capitale federale. Bloccati dalla
polizia al confine del territorio di Delhi (è un Territorio dell’Unione, come
un ministato), si sono accampati là, in località Singhu. Altre colonne di
protesta sono arrivate dall’Uttar Pradesh e dal Bihar a est, e in parte dal
Rajasthan a ovest; delegazioni sono giunte dal Maharashtra (lo stato con
capitale Mumbai) e dal Kerala a sud. Poco a poco sono sorti ben sette siti di
protesta: il più grande, a Singhu, si estende per oltre dieci chilometri. Come
città temporanee popolate da uomini e donne, vecchi e giovani. Ci sono caste rurali
e anche Dalit (i fuoricasta, lo scalino più basso della gerarchia sociale
indiana).
La solidarietà palpabile
Secondo un’inviata di “The Wire”, «l’ossatura della protesta sono contadini
senza terra e coltivatori marginali», parola che indica una misura precisa: le
proprietà agricole “marginali” sono quelle sotto un ettaro, “piccole” quelle
sotto i due ettari. Secondo il censimento agricolo, in India l’86 per cento
degli agricoltori sono appunto marginali e piccoli, vivono su meno di due
ettari di terra; nel Punjab, da cui vengono molti dei manifestanti, un terzo
delle proprietà sono sotto due ettari e un altro terzo sotto 4 ettari. l’India
rurale è fatta di una miriade di piccolissimi produttori. Gli accampamenti sono
organizzati per resistere. I rimorchi dei camion sono diventati alloggi di
fortuna. Altri hanno montato tende. Centinaia di cucine da campo servono cibo a
tutti, di ogni religione o casta. «In ogni sito di protesta il livello di
organizzazione e il senso di solidarietà, è palpabile», riferisce un inviato
del magazine “Frontline”. Intorno agli agricoltori si è costituita una rete di
solidarietà; attivisti sociali hanno organizzato dispensari medici e dormitori
in edifici pubblici; sono state allestite lavanderie, perfino biblioteche.
L’atmosfera oscilla tra la resistenza e la festa popolare, con decine di
assemblee pubbliche, eventi culturali, lezioni, musica. Le notti d’inverno però
sono gelide nell’India settentrionale. C’è notizia di numerose persone morte di
ipotermia, o infarto o altro.
Protesta diffusa: le comunità sono unite
Ma nonostante tutto la protesta continua, e questo è possibile perché ha un
retroterra. In Punjab, secondo numerose testimonianze, da ciascuno dei 13.000
villaggi sono partite delegazioni di decine di persone, coltivatori e anche
maestri di scuola, camionisti, rappresentanti dei municipi rurali.
«In Punjab c’è un’insurrezione», scrive un’inviata del giornale online “The
Wire”, che in una sola provincia di questo grande stato ha contato 68 sit-in
permanenti, grandi e piccoli. Descrive comizi e raduni pubblici, e raccolte di
viveri, coperte, tende da mandare a quelli che sono andati a Delhi. I
manifestanti si alternano; c’è chi torna a casa per occuparsi del raccolto
mentre altri danno il cambio. «Tutte le comunità sono unite», spiegano alcuni
manifestanti.
Al movimento partecipano circa 500 organizzazioni di agricoltori e sindacati
rurali, raggruppati n 40 organizzazioni ora raggruppate in un coordinamento.
«Il governo pensa che i coltivatori oggi siano la massa impotente e ingenua
descritta dalla letteratura preindipendenza. Ma i coltivatori oggi hanno
assorbito l’eredità del movimento per la libertà [il movimento anticoloniale
nella prima metà del Novecento], i giovani hanno ereditato quello spirito»,
spiega a “Frontline” un agricoltore ed ex soldato nel sito di Ghazipur, a est
di Delhi. Non per nulla tra cartelli e volantini riemerge il volto di Bhagat Singh, leggendario leader socialista rivoluzionario
novecentesco.
Il contrasto alla propaganda governativa
«Abbiamo capito che bisognava contrastare la propaganda che rimbalza sulla
tv e sui social media», spiega (sempre a “Frontline”) un giovane ingegnere
informatico impegnato nella protesta: con un piccolo gruppo di volontari ha
creato una piattaforma elettronica che mette online conferenze stampa
quotidiane, interviste, testimonianze: si chiama Kisan
Ekta Morcha, è divenuta la grancassa del movimento.
Ai primi di dicembre il governo aveva offerto qualche emendamento alle leggi
contestate, se i manifestanti avessero sgomberato le strade. Ma quando questi
hanno rifiutato di tornare a casa prima di ottenere la revoca di quelle leggi,
il governo li ha accusati di essere facinorosi, estremisti, “khalistani” –
riferimento al movimento separatista armato che negli anni Ottanta si batteva
per uno stato indipendente in Punjab, il Khalistan. Per questo tra i cartelli
comparsi nei siti di protesta molti dicono «siamo coltivatori, non terroristi».
Il movimento dunque continua. È rimasto unito, e pacifico. La prima vittoria
l’ha avuta quando, il 20 dicembre, la Corte Suprema ha chiesto al governo di
sospendere l’applicazione delle leggi contestate e aprire il dialogo. Le foto dei
primi incontri ritraggono i rappresentanti delle 40 organizzazioni rurali
intorno a un lunghissimo tavolo, con i rappresentanti di tre ministeri del
governo centrale (agricoltura, commercio, ferrovie). Da parte governativa però
si sono presentati solo junior ministers,
l’equivalente di sottosegretari, figure senza potere decisionale: non i
ministri titolari e tantomeno il primo ministro. Benché incalzato da un nuovo
intervento della Corte Suprema nella prima settimana di gennaio, il governo
Modi continua a prendere tempo.
I “mercati regolamentati”: la posta in
gioco
Cosa è in gioco? In estrema sintesi, il sistema di regolamentazioni statali
che dagli anni Sessanta del secolo scorso offre qualche protezione ai
coltivatori indiani.
La prima delle tre leggi contestate infatti permetterà di commercializzare la
produzione agricola al di fuori dei mercati all’ingrosso statali (mandi), attualmente regolamentati dagli Agricultural
Produce Market Committees, Apcm. Secondo il governo è una riforma che «aprirà
nuove opportunità per tutti i coltivatori», perché moltiplica i possibili
compratori per i loro raccolti e li “libera” dalla burocrazia e dagli
intermediari. Ma non ha convinto gli agricoltori: i quali temono che sul
“libero mercato” non saranno loro a fissare i prezzi, bensì i grandi
acquirenti. Temono anche di perdere altri servizi essenziali oggi offerti dai
mercati di stato, tra cui i silos e gli anticipi per le sementi.
Le altre leggi contestate aboliscono i limiti allo stoccaggio di derrate
agricole, salvo casi di emergenza (era una norma antiaccaparramento): ma così,
secondo i critici, i grandi traders potranno
comprare derrate quando la produzione è abbondante e immagazzinarle per
metterle sul mercato quando più conviene. La terza legge infine promuove la “coltivazione
a contratto”, cioè la possibilità di stipulare contratti tra l’agricoltore e il
futuro compratore. Il governo sostiene che questo darà sicurezza ai
coltivatori, perché sapranno che il futuro raccolto è piazzato a un prezzo
pattuito in anticipo. Molti agricoltori conoscono già questo sistema, e sono
scettici.
Il punto è che i “mercati regolamentati” fanno parte del sistema che include il
prezzo minimo di supporto (Msp), a sua volta funzionale al Sistema pubblico di
distribuzione (Pds), con cui lo stato fornisce alimenti di base a prezzi
calmierati a tutti gli indiani, in particolare ai più poveri. È un intero
sistema creato negli anni Sessanta per garantire un prezzo equo ai produttori e
allo stesso tempo assicurare l’accesso al cibo a tutti i cittadini. È questo
che oggi è in gioco.
La crisi ecologica
La Rivoluzione verde è finita. Il Prezzo minimo è sorto con la rivoluzione
agraria basata sulle varietà ibride “ad alto rendimento” di grano e poi di riso
arrivate negli anni Sessanta e Settanta. In India la “rivoluzione verde” ha
avuto successo grazie alla fertilità della pianura indogangetica e alle sue
abbondanti riserve idriche sotterranee. Convinti dalle rese abbondanti, e dalla
garanzia che lo stato avrebbe comprato i raccolti a un prezzo stabilito, gli
agricoltori sono passati alle nuove sementi. In Punjab e Haryana grano e riso
hanno rapidamente sostituito ogni altra coltura: da poco meno di metà della
superficie coltivata nel 1970, a oltre l’80 per cento nel 2010. Già negli anni
Novanta l’India era passata da importare cibo a esportarne.
Ormai però il suolo fertile e l’acqua abbondante sono esauriti. In Punjab la
falda freatica cala in media di 33 centimetri l’anno, tanto che va cercata con
pozzi sempre più profondi, ed è spesso inquinata da residui di fitofarmaci e
concimi azotati. I suoli sono sempre meno produttivi. Eppure Punjab e Haryana
restano il “granaio” dell’India, grazie alle pompe che estraggono l’acqua
rimasta e un grande uso di concimi: nei quarant’anni trascorsi tra il 1978 e il
2019 la produzione di grano e riso in Punjab è aumentata del 134 per cento (da
126 a 285 milioni di tonnellate), ma il consumo di fertilizzanti è aumentato
oltre il 600 per cento (da 4,2 a 27,2 milioni di tonnellate: riprendo i dati
dall’economista Prem Shankar Jha).
La conseguenza è duplice. Da un lato, l’India produce grandi surplus alimentari
che ha cominciato a esportare. Dall’altro però la monocoltura intensiva ha
innescato una spaventosa crisi ecologica. E questo ha anche fatto calare la
produttività e salire le spese di produzione.
Liberalizzazione vs insostenibilità?
I sostenitori della liberalizzazione argomentano che il prezzo minimo e i
numerosi sussidi di stato ormai perpetuano un’agricoltura insostenibile, ha
creato una classe di coltivatori dipendenti dalle sovvenzioni, disincentiva a
diversificare le colture. Altri, tra cui Jha, fanno notare che molti
coltivatori hanno già diversificato, anche in quelle regioni “granaio”, e
coltivano ortaggi per il mercato urbano, o altre derrate: ma proprio per questo
sanno già cosa significa essere in balia del “libero mercato”. Mentre nessun
governo ha mai tenuto la promessa di investire in infrastrutture, magazzini
refrigerati o altro a sostegno del mercato agricolo, e devono affidarsi a
intermediari che hanno un potere spropositato.
Il sistema è insostenibile? Molti in India, anche tra gli oppositori alle leggi
oggi contestate, concordano che il meccanismo dei mercati regolamentati va
rivisto. Che quei Comitati di gestione (i succitati Agricoltural Produce Market
Committees) in cui sono rappresentati enti locali e organizzazioni di
agricoltori riflettono molti dei vizi della società più generale, dalle
divisioni di casta e di classe, alle azioni di lobby di vari interessi, alla
burocrazia. E però «non c’è dubbio che continuano a mitigare l’arbitrarietà dei
prezzi e limitare le malversazioni ai danni dei coltivatori», osserva un
editoriale di “Frontline”.
Il surplus di produzione tra
esportazione e interessi privati
È anche vero che i silos della Food Corporation of India (ente di stato)
straboccano di derrate: quasi 28 milioni di tonnellate di riso e 55 milioni di
tonnellate di grano alla fine di giugno 2020, ben 42 milioni di tonnellate più
di quelle che sono considerate riserve strategiche. Così l’India ha cominciato
a esportare riso (12 milioni di tonnellate l’anno scorso) e grano (circa 6
milioni di tonnellate destinate a mangimi animali). Prem Shankar Jha osserva
che, dai dati ufficiali, quel riso è stato venduto sul mercato internazionale a
poco più di 7 miliardi di dollari, con un profitto di 4,18 miliardi di dollari
rispetto al “prezzo mimino di supporto” che lo stato aveva pagato ai
coltivatori. Fin troppo facile la conclusione: «Gli immediati beneficiari
[della liberalizzazione] saranno i grandi esportatori a cui la Food Corporation
venderà i suoi surplus» a poco più del prezzo minimo, conclude Jha. Tra i
manifestanti è convinzione diffusa che tra questi i beneficiari abbiano un
nome: le imprese di Mukesh Ambani e di Gautam Adani, due multimiliardari molto
legati al primo ministro Modi (i quali smentiscono di avere interessi nel
mercato agricolo). Non a caso in tutto il Punjab le proteste hanno preso di
mira stazioni di benzina e ripetitori dei telefonini del gruppo Reliance (di
Ambani), o i silos refrigerati del gruppo Adani.
La protesta attuale è solo una parte del
problema
Forse è vero, la protesta di queste settimane rappresenta solo una parte
del complesso mondo rurale indiano. Il sistema dei mercati regolamentati e del
prezzo minimo in effetti riguarda solo riso e grano (il progetto di estenderlo
ad altre derrate non è mai decollato), e non copre le zone più periferiche.
Mentre la gran parte dei coltivatori – di cereali, cotone, ortaggi o altro – è
già in balia del libero mercato: di intermediari che stabiliscono le regole; di
grossisti che fissano prezzi e standard. Degli usurai a cui devono chiedere
anticipi per comprare sementi e concimi. Delle oscillazioni dei mercati e del
clima.
Senza contare che gran parte dell’India rurale, quella più marginale, coltiva
per la sussistenza, non rientra nel computo economico, e dipende dall’uso delle
terre comuni. È la parte più penalizzata dall’inarrestabile accaparramento di
terre avvenuto negli ultimi trent’anni per permettere l’espansione di miniere,
fabbriche e grandi imprese agro-industriali.
Gli agricoltori che assediano Delhi non hanno l’aspetto di “privilegiati”. Sono
convinti che le tre leggi contestate siano il preludio ad abolire anche il
Prezzo minimo e smantellare quel che resta del sistema di redistribuzione
costruito negli anni postindipendenza: e allora sarà peggio non solo per loro
ma per tutta l’India rurale. La posta in gioco è proprio questa.
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