Dove si cerca di dire che in fondo siamo meno egoisti di quanto pensiamo e
che in fondo doniamo più di quanto crediamo, perché è solo così che creiamo
relazioni.
Se quella che oggi chiamiamo “economia” in principio era solo un’attività
di sussistenza, con il trascorrere del tempo ha assunto un ruolo sempre più
centrale, al punto da prendere, in molti casi, il posto della politica. La
progressiva “occidentalizzazione” del mondo sta provocando una diffusa
colonizzazione dell’immaginario economico, che ci porta a vedere tutto in
un’ottica mercantile in cui ciascuno cerca di ottenere il massimo guadagno con
il minimo costo. Estesa questa visione all’intero genere umano, si ottiene il
cosiddetto homo oeconomicus, un essere razionale che agisce
perseguendo fini utilitaristici e, pertanto, profondamente egoista.
Eppure non è sempre stato così, come ha dimostrato Karl Polanyi. In molte
società l’economia era – e in certi casi è ancora – inserita all’interno di un
sistema di valori in cui non sempre gli individui perseguono il massimo
guadagno, ma a volte rispondono a principi che possono portare in direzione
diversa.
L’economia è quindi moralmente vincolata ad altre forme di espressione
culturale come la religione, la parentela, le gerarchie sociali, le alleanze,
le amicizie. È dunque “incastonata” (embedded) nella società e non
esterna a essa e alle sue regole morali, come invece accade nelle società
mercantili, dove l’economia è stata espulsa dalla sfera della moralità.
L’economia non occupa lo stesso ruolo nelle diverse società umane. Secondo
Polanyi sono tre i modi in cui l’economia si integra nella società:
reciprocità, redistribuzione e scambio.
La reciprocità implica una situazione di egualitarismo e viene praticata in
società dove non esistono leggi che regolano vendita e acquisto, per cui lo
scambio avviene sulla base della simmetria e spesso le transazioni si
verificano nell’ambito della parentela o del vicinato.
La redistribuzione, invece, necessita di una struttura di potere
centralizzata: un capo, un sovrano, uno Stato ricevono beni e denaro da parte
di tutti i componenti del gruppo, sia esso una piccola tribù o il governo di
uno Stato-nazione, e devono poi provvedere a redistribuirli secondo le
modalità, più o meno eque, previste dalla loro società.
La terza modalità, quella dello scambio mercantile o commercio calcolato,
nasce dall’avvento della rivoluzione industriale e dal conseguente sorgere
dell’economia di mercato. Questa trasformazione segna lo spartiacque tra i
diversi tipi di economie e civiltà. Il capitalismo, infatti, muta la sostanza
dei rapporti economici precedenti, che si fondavano soprattutto sulle relazioni
sociali. Nel sistema capitalistico, al contrario, sono i rapporti sociali a
essere definiti tramite i rapporti economici.
Anche in società dove tutto sembra vivere all’ombra del profitto, però, ci
sono oasi in cui di tanto in tanto si cessa di essere utilitaristi.
Il dono, per esempio, è un’eccezione alla regola che suggerisce di tenere
le proprie cose per sé e ottenerne altre tramite l’acquisto o lo scambio
esplicito. Eppure donare è essenziale, fondamentale, ma qual è l’importanza del
gesto? Perché si dona? Per instaurare relazioni.
A intuirlo in maniera determinante fu l’etnologo francese Marcel Mauss,
quando nel 1924 scrisse il celebre Saggio sul dono. Forma e
motivo dello scambio nelle società arcaiche.
L’antropologia ci offre molti esempi di società presso le quali il dono
costituisce uno degli elementi fondanti. In alcuni casi però gli antropologi
hanno peccato di “caritatevolezza”, attribuendo talvolta a popolazioni non
occidentali un’immagine da buon selvaggio alieno a ogni forma di utilitarismo,
che vive in modo assolutamente solidale. L’opposto rispetto a noi dove, dopo
Adam Smith, tutti concordano nell’affermare che affinché la società funzioni
bene ciascuno deve perseguire il proprio interesse. Se c’è qualcuno che dona
per creare le basi di una convivenza, dunque, non siamo certo noi occidentali,
razionali e utilitaristi. Abbiamo così relegato il dono in un dominio
etnografico, congelandolo in ambiti esotici e impedendo quindi una sua
ricontestualizzazione nel mondo occidentale e la sua riattualizzazione in epoca
moderna.
Ma è davvero così?
Prendiamo il caso del Nordest italiano, da tempo celebrato quale esempio
del boom della piccola industria, della cultura del lavoro, dell’ideologia
capitalista convertita a livello familiare. In questa terra, che vanta i
redditi medi più alti d’Italia, ci si attenderebbe di incontrare gente
ossessionata dal lavoro e dal guadagno che passa il tempo a parlare di schei.
In parte è così, ma proprio qui si riscontra la più elevata presenza di
attività di volontariato.
In una società che sembra avere posto l’ideale del guadagno e
dell’ottimizzazione dei profitti in cima alla propria scala dei valori,
ritroviamo numerose testimonianze di un impegno che non contempla nulla di
remunerativo, se analizzato in chiave puramente utilitaristica. Che cos’è
l’azione di volontariato se non un dono offerto sotto forma di servizi? E che
dire dei moltissimi “donatori” di sangue e di organi che consentono di salvare
numerose vite, senza alcun guadagno materiale?
Anche noi occidentali doniamo. Il problema è che spesso non ce ne rendiamo
conto. Il nostro immaginario è così condizionato dall’ideologia di mercato che
ci sembra impossibile uscire dagli schemi dominanti. Il dono si nasconde nelle
pieghe delle nostre azioni e non ci accorgiamo che molte di queste non sono
affatto mosse da logiche utilitaristiche, il che non significa gratuite. Il
dono non è mai gratuito: chi dona si attende un controdono, ma la differenza
tra donare (e contraccambiare) e scambiare sta nell’assenza di contratto.
Il dono, infatti, implica una forte dose di libertà. Non c’è l’obbligo di restituire, inoltre modi e tempi non sono rigidi. Il valore del dono sta nell’assenza di garanzie da parte del donatore. Un’assenza che presuppone una grande fiducia negli altri. Il valore del controdono sta nella libertà: più l’altro è libero, più avrà valore ciò che ci donerà a sua volta. Il dono diventa in questo caso promotore di relazioni. Quello che apre la strada al dono è la volontà degli uomini di creare rapporti sociali, perché l’uomo non si accontenta di vivere nella società e di riprodurla come gli altri animali sociali, ma deve produrre la società per vivere.
Quando regaliamo qualcosa a qualcuno, scegliamo qualcosa che ci fa piacere
regalare, ma tenendo presenti i gusti e la personalità del destinatario.
Pertanto, in quel dono ci sarà qualcosa di noi e qualcosa di chi lo riceverà,
perché in fondo gli oggetti sono ricettacoli di identità.
Ricevere un regalo provoca spesso una duplice sensazione: da un lato
l’emozione che spinge alla gratitudine verso il donatore; dall’altro un lieve
senso di imbarazzo, dovuto al fatto che in quel momento, mentre stringiamo tra
le mani quel dono, sentiamo di essere passati nella condizione di “debitori”
nei confronti di chi ha voluto farci un regalo. Il pensiero, infatti, si
rivolge subito al modo in cui cercheremo di “sdebitarci”.
Debito è una parola che non amiamo, ci fa sentire in colpa se gli
indebitati siamo noi, in ansia se siamo creditori... In uno scambio mercantile,
al termine della transazione i partner si ritrovano proprietari di quanto hanno
acquistato o barattato. Mentre prima dello scambio uno doveva dipendere dall’altro
per soddisfare i propri bisogni, a scambio avvenuto, entrambi risultano
reciprocamente indipendenti e senza obblighi. Nel caso del dono, il ricevente
non “paga” sul momento, come in una normale transazione commerciale. Chiunque
di noi si sentirebbe offeso se, facendo un regalo, ci vedessimo contraccambiare
su due piedi con un altro regalo (tranne che nelle occasioni stabilite, come il
Natale). La restituzione avviene nel tempo ed è grazie a questa dimensione
prolungata che il debito si protrae e mantiene attivo il legame tra le due
parti.
Tutto nasce dal fatto che nella nostra percezione tendiamo ad associare il
debito alla sfera economica, mentre facciamo rientrare il dono in quella
affettiva. Forse è per questo che siamo un po’ restii a chiamare con un freddo
termine contabile quello che ci sembra essere invece un sentimento tra i più
genuini, che riserviamo a parenti, amici e persone care. Infatti, nell’ambito
familiare lo stato di debito è considerato normale, ma non viene percepito come
tale. I genitori spesso donano ai figli molto più di quanto ricevano, ma non
per questo si sentono creditori, né necessariamente i giovani si sentono in
dovere di sdebitarsi. Anche in una coppia o tra amici si contraggono debiti
(scambi di favori, di oggetti, d’affetto). Si dona perché ci fa piacere l’atto
del donare. Donando si genera debito e quindi si crea squilibrio. Se osserviamo
i rapporti di coppia o di amicizia è proprio nella situazione contraria, cioè
in uno stato di equilibrio dare/avere che si determina la rottura di un
rapporto. Il celebre gesto della restituzione dei regali al partner per sancire
la fine di una storia ristabilisce la parità e annulla il debito. Allo stesso
modo, l’inizio di un rapporto è spesso segnato da un regalo o da uno scambio di
regali, che altera la situazione di parità originale, creando asimmetria.
Sembrerebbe una contraddizione: dono e controdono dovrebbero portare a un
equilibrio, ma allo stesso tempo generano una sorta di conflitto permanente.
L’antropologia ci ha però insegnato come l’equilibrio di un gruppo non nasce
per forza da uno stato di inerzia, ma spesso da una serie di conflitti interni
controllati.
Si dona per soddisfare il proprio piacere di vedere felice un’altra
persona, ma non è affatto un atto gratuito. Tale gesto rientra in una “economia
della gratitudine”, uno stato di debito reciproco, nutrito da surplus, da
sorprese e che fa sì che ciascuno possa dire dell’altro: «Gli devo molto».
Non tutti i doni creano relazione, in alcuni casi possono, al contrario, spezzarla.
Pensiamo, per esempio, alla carità: certo è un dono, ma non ci si attende certo
di essere ricambiati dal mendicante. Si fa quindi la carità per aiutare chi è
più sfortunato di noi, ma la carità ferisce chi la riceve, è umiliante, perché
chi riceve non può restituire. Il circolo virtuoso identificato da Mauss si
spezza.
Al triangolo donare-ricevere-contraccambiare viene a mancare un lato,
l’ultimo.
Questa assenza dà vita a gerarchie sociali ed economiche che si trasformano
inevitabilmente in rapporti di forza e trasforma il ricevente in debitore
impotente.
Sono molte le occasioni che ci si presentano di donare in modo
spersonalizzato o generalizzato: pensiamo alle donazioni in caso di catastrofi
o alle iniziative di raccolta fondi per aiutare i Paesi più poveri o per
finanziare la ricerca per la cura di malattie rare. La carità,
istituzionalizzata tramite enti organizzati, non è più un dono al prossimo,
ossia al vicino, a qualcuno che conosciamo, ma diventa un dono finalizzato a
lenire sofferenze e disagi più grandi, meno definiti. Al singolo destinatario
si sostituisce una categoria (poveri, affamati, affetti da determinate
malattie, colpiti da catastrofi) più o meno vasta e quanto mai anonima. Questo
tipo di dono diventa un atto che lega soggetti astratti: un donatore che ama
l’umanità e un destinatario che incarna la miseria del mondo.
Si tratta di una tipica forma di dono generalizzato che non prevede un
controdono in beni materiali. Se c’è un beneficio per il donatore, sarà semmai
di tipo interiore. Si tratta di una sorta di riconversione. Il donatore non
offre qualcosa di davvero suo, non sceglie un oggetto che rappresenti in
qualche modo il rapporto tra lui e il destinatario. Il donatore offre del
denaro, suo come appartenenza materiale ed economica, ma non “suo” in quanto
segnato da un rapporto affettivo unico (se affetto o attaccamento c’è, è per il
denaro in genere, non per “quel” denaro).
L’uomo è soprattutto un essere relazionale e crea relazioni attraverso il
dono. Se proviamo a spogliare il dono dai suoi abiti “esotici” e “primitivi” e
a ripensarlo come un riferimento per contrastare quell’anonimato che tanto ci
spaventa, scopriamo la grande attualità della lezione di Marcel Mauss.
Un circuito di scambio
L’arcipelago delle Trobriand si trova al largo della costa nord-orientale
della Nuova Guinea. Fu qui, nel secondo decennio del Novecento, che nacque la
moderna antropologia, fondata sulla ricerca sul campo, grazie alle ricerche di
Bronislaw Malinowski. La sua celebre opera Gli argonauti del Pacifico
occidentale non è fondamentale solo per il suo ruolo storico e
pionieristico, ma anche per l’accuratezza etnografica e l’acume delle
intuizioni contenute.
Tra le tante classificazioni possibili per questo testo, rientra anche
quello di primo studio di antropologia economica. Malinowski voleva dimostrare
che alcune usanze locali, bollate come insensate e primitive, avevano in realtà
una loro logica e che le idee degli economisti sulla razionalità peccavano,
invece, di etnocentrismo. Per lui erano addirittura inefficaci anche applicate
al capitalismo occidentale, da lui considerato non meno intriso di magia e di
simbolismo di quanto non lo fossero i sistemi di pensiero chiamati “primitivi”.
Gli argonauti malinowskiani delle Trobriand non viaggiavano alla ricerca di
un vello d’oro, ma navigavano da un’isola all’altra dell’arcipelago, percorrendo
migliaia di chilometri.
Affacciato dalla sua veranda sull’isola di Kiriwina, Malinowski vedeva
arrivare ogni giorno piroghe da direzioni opposte. […]
Da Aime, Pensare altrimenti, Add editore 2020.
Nessun commento:
Posta un commento