Uno degli elementi indicativi della nostra condizione
provinciale subalterna è l’assenza dal dibattito pubblico sardo dei temi
internazionali.
Ciò che trova spazio a livello di mass media è
totalmente filtrato dall’organizzazione delle informazioni e del sapere
italiana (giornali, tv, esperti di politici estera).
Il che implica che anche lo sguardo con cui guardiamo
alle cose che ci succedono intorno non sia il nostro.
La nostra politica mainstream (definiamola
così), quella che occupa il Palazzo e ha spazio nei media, evita accuratamente
il discorso.
Vi ricordate di qualche presa di posizione di
presidenti della Regione o di esponenti dei partiti italiani in Sardegna a
proposito delle grandi questioni internazionali?
Quando si organizzano incontri internazionali sulla
Sardegna o persino in Sardegna, di solito le istituzioni sarde vengono trattate
alla stregua di ospiti malamente tollerati.
Ricordo ancora con raccapriccio il presidente Cappellacci,
qualche anno fa, a un abboccamento diplomatico alla Maddalena, col suo badge da “invitato” al collo (Cappellacci era
quello che “il limite della Sardegna sono i Sardi”, teniamo
presente).
Il timido accenno delle istituzioni regionali sarde ad
occuparsi della vertenza catalana, un anno e mezzo fa, fu abbandonato
repentinamente, facendone perdere ogni traccia. Sarà bastata una telefonata da
Roma.
E con gli esempi direi che possiamo chiudere qui.
Un ambito politico che coltiva da tempo e con una
certa dedizione le questioni internazionali è quello indipendentista.
A volte anche in questo ambito si scontano cornici
interpretative mutuate dal contesto politico italiano o comunque assunte
acriticamente dall’esterno.
O ci si limita ad applicare schemi rigidi, astratti,
che non tengono conto della complessità dei processi, della multidimensionalità
delle relazioni tra popoli, tra centri di interesse economico e tra entità
politiche.
Però quello indipendentista resta l’ambiente di
dibattito in cui il livello politico internazionale è sistematicamente
contemplato.
Naturalmente anche all’esterno di esso esistono
singoli appassionati di questioni geopolitiche ed anche discussioni più o meno
pubbliche in merito.
Ma non si tratta mai di posizioni istituzionali, né di
ragionamenti strategici strutturati, proiettati in un mondo reale in cui la
Sardegna esiste come soggetto tra altre entità collettive e politiche.
Del resto, anche a proposito dell’opprimente
occupazione militare o della sottomissione a rapporti di forza economica di cui
siamo un mero oggetto passivo, difficilmente si riesce ad andare oltre la
stigmatizzazione e la protesta.
In generale, nelle discussioni pubbliche di solito si
replicano meccanismi di tifoseria ideologica e geo-strategica in perfetto stile
“guerra fredda”, senza alcun ancoraggio a dinamiche concrete e alla spietata
realtà sarda odierna.
È un grosso limite della nostra politica, compresa
quella indipendentista, autodeterminazionista e di sinistra alternativa.
Così capita di litigare – ovviamente di solito sui
social – a proposito di Ucraina, di Siria o di Venezuela e tralasciamo, che so
io, la complessa situazione algerina di queste settimane.
O discutiamo di Cina, Via della Seta e meccanismi
economici europei impiegando slogan e frasi fatte, rinunciando a pensare noi
stessi, problematicamente ma attivamente, dentro il grande processo di
transizione storica in corso.
Cosa ha da dire e da fare la Sardegna dentro questa
complicata fase storica? Che orizzonte deve darsi nel groviglio delle questioni
internazionali (relazioni economiche, produzione e distribuzione di energia,
clima, migrazioni, diritto internazionale, ecc.)?
Non mi attenderei nulla dalle forze che dominano il
quadro politico, stante la loro natura di succursali di un potere esterno.
Considero però indispensabile che si sviluppi una scuola
di studi e di riflessioni su questi temi che sia autonoma rispetto al dibattito
italiano e anche slegata da interessi di partito e di mera tattica politica
locale.
Non possiamo ignorare le dimensioni e la portata dei
problemi su scala continentale o globale e non possiamo dare per scontato di
non avere voce in capitolo.
Qualsiasi propensione all’autodeterminazione che non
contempli idee chiare e prospettive definite sulle grandi questioni
internazionali è destinata a restare una mera petizione di principio astratta.
Ed anche se le idee ci fossero e ci fosse una qualche
prospettiva definita, esse dovrebbero essere di natura molto pragmatica e
realistica, al di là delle posizioni ideali di partenza e delle finalità
generali auspicate.
Per dire, una condanna dell’occupazione militare
dell’isola è legittima e – secondo me – totalmente giusta. Ma in un’ottica
autodeterminazionista democratica come ci si pone davanti alle sfide dei
rapporti internazionali?
Una Sardegna che domani si ritrovi indipendente come gestirebbe
i rapporti con le varie potenze globali?
In che relazioni sceglieremmo di essere con l’Europa e
i suoi stati, egemoni e non, Italia compresa? E con la sponda sud del
Mediterraneo?
La geopolitica mi incuriosisce ma non mi ha mai
convinto come unica chiave di lettura dei fatti umani. Sono persuaso che sia un
gioco pericolosissimo in mano a oligarchie irresponsabili.
La visuale geopolitica è una visuale che non tiene in
alcun conto la vita umana e una sana ed equilibrata relazione tra la nostra
specie e il pianeta che la ospita.
Tanto meno si preoccupa di rapporti sociali, qualità
della vita delle comunità e delle persone che le compongono, sfere di interessi
e di bisogni che vadano oltre l’immediata convenienza materiale delle élite.
Il Risiko va bene come gioco da tavolo, quando non
sono davvero in ballo le esistenze di milioni o miliardi di esseri umani e
consistenti porzioni di mondo, o il mondo intero.
Nondimeno è necessario procurarci solide nozioni
strategiche in tutti i campi e uno sguardo nostro sul mondo, *prima* di
qualsiasi passo ulteriore verso una compiuta autodeterminazione.
E non solo uno sguardo che sia patrimonio di una
cerchia ristretta di iniziati, ma una vasta consapevolezza dei rapporti di
forza, degli interessi in gioco, delle possibilità reali.
È un elemento fondamentale, una conditio sine qua non, di qualsiasi percorso di
autodeterminazione.
Abbiamo bisogno di informazioni e di una loro
rielaborazione. Abbiamo bisogno di contatti all’estero, di esperti competenti,
di agenti sul campo.
Paradossalmente su questo piano non siamo nemmeno
tanto sguarniti. La nostra diaspora ci fornisce già molti fattori necessari.
Si tratta di renderla un elemento strategico e di
farla funzionare come rete diplomatica di fatto.
Se esistesse una politica sarda degna di tale
definizione, questa opzione sarebbe già da tempo in agenda.
Invece, noto con amarezza, la nostra emigrazione è
considerata per lo più come un fatto positivo (qualcuno che si leva dai piedi,
magari con troppe competenze e troppa voglia di fare).
Oppure come un bacino di consenso clientelare o di
promozione di stereotipi degradanti (meccanismo funzionale alla nostra
subalternità).
Non viene considerata né un problema strutturale da
affrontare col giusto piglio, né come una potenziale risorsa.
Ed anche questo dice molto sulla qualità e sugli scopi
reali della nostra politica coloniale.
Confido che l’attenzione per le questioni
internazionali cresca e si approfondisca. Non in termini retorici e puramente
ideologici, ma analitici e strategici.
Innanzi tutto presso gli ambiti politici, culturali e
sociali che fanno della nostra autodeterminazione democratica un proprio
obiettivo generale.
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