Un effetto collaterale della grande diffusione degli
animali da compagnia oggi in atto è – almeno per chi abita in campagna e ha a
disposizione un po’ di terreno – la riscoperta dell’asino. Confesso che anch’io
da una quindicina d’anni sono l’orgoglioso proprietario di una coppia di asini
che hanno generato numerosi figli, una delle quali è rimasta con noi. Nella
strada dove abito vivono almeno altri cinque asini, che spesso comunicano a
distanza nel loro modo tipico. E, sempre per esperienza personale, posso dire
che – contrariamente alle aspettative – piazzare i vari piccoli che sono nati
negli anni non è stato difficile. Molte persone, oggi, sono finalmente attratte
da un animale che non ha mai goduto di grande reputazione rispetto al suo socio
equino, il cavallo.
Il rinnovato interesse per l’asino in carne ed ossa ha
portato anche a una produzione manualistica di cui questi due volumi sono un
esempio. I libri portano lo stesso titolo e la stessa immagine di copertina
(forza grafici, un po’ più di fantasia…) e sono usciti quasi in contemporanea,
a cavallo (ops…) di fine anno: segno che l’attenzione per l’asino è fenomeno
italiano molto attuale. Le edizioni originali, infatti, non sono proprio
recentissime. Il libro di Jill Bough è uscito in Gran Bretagna nel 2011; quello
di Jutta Person in Germania nel 2013. Evidentemente succede che gli amatori di
asini, quorum ego, finiscono per chiedersi da dove nasca la
loro passione e cosa possa significare. Ma mentre su cani e gatti c’è una
letteratura sterminata, il caso dell’asino come animale da compagnia è meno
scandagliato e più ambiguo. Per quanto presentissimi nella vita e nella cultura
quotidiana fino a una quarantina d’anni fa, è solo da poco che ci si interroga
su cosa c’è dietro lo sguardo di un asino. Per lungo tempo, il povero animale è
stato sostanzialmente usato e abusato, preso e sbattuto via come semplice
strumento di lavoro (cosa che gli capita ancora nei paesi del Terzo Mondo).
Oggi è come se avessimo tutti adottato una postura bressoniana, quella che
spinse il regista francese a girare nel 1966 l’indimenticabile Au
hasard, Balthazar.
Per quanto superficialmente simili, i due volumi sono in effetti complementari. Quello di Jill Bough è più storicizzante e fornisce molti dati e numeri sulla diffusione e sull’uso dell’asino. Quello di Jutta Person indaga piuttosto le rappresentazioni dell’asino nella cultura. In effetti, la posizione dell’animale nell’immaginario umano è contraddittoria. “Somaro” è un termine che in molte lingue identifica una persona stupida e ignorante; e, in generale, l’asino non ha mai goduto di molta considerazione intellettuale, soprattutto per la sua ostinazione e cocciutaggine. Ma è anche vero che proprio su un asino Gesù Cristo fece il suo ingresso a Gerusalemme, tant’è che – nella Bibbia e nel cristianesimo in generale – l’asino è di solito una bestia “positiva”. In quell’immagine, diventata un archetipo dell’iconografia cristiana, convivono realtà storica e metafora. È chiaro che se Gesù fosse entrato in città a cavallo come un conquistatore avrebbe tradito il suo messaggio; ma è anche vero, come ci informa Bough, che l’asino – da Salomone in giù – era considerato cavalcatura reale. E questa ambivalenza sembra aver informato tutte le rappresentazioni dell’asino nell’arte quanto nella vita, da Apuleio a Nietzsche; ma anche nel rapporto che si sviluppa, per esempio, tra soldati e asini (o muli). Dopo averli usati in prima battuta semplicemente come bestie da soma, i mulattieri sviluppano con i muli, nella battaglia, un rapporto straordinario di solidarietà e amicizia, in cui spesso l’animale salva la vita all’uomo. Indimenticabile, nonostante non sia citato in nessuno dei due libri, il racconto di Mario Rigoni Stern che si intitola Un uomo e una mula nella neve in Aspettando l’alba.
In effetti, se si deve cogliere una costante nel rapporto tra uomo e asino, è il movimento per cui l’asino viene usato spietatamente salvo poi scoprire il valore delle qualità morali che consentono all’uomo di sfruttarlo: pazienza, resistenza, affidabilità. Entrambi i libri dimostrano come tutti i grandi imperi e le conquiste coloniali non avrebbero potuto fare a meno degli asini. Ma anche come, con la meccanizzazione, gli asini – finalmente liberi di vivere senza un giogo – siano stati messi da parte, anzi eliminati come un fastidio. La storia dello sterminio degli asini in Sudafrica nel 1983 raccontata da Bough è insieme orrenda ed esemplare, perché si intreccia alla questione dell’apartheid. Eliminati perché facevano concorrenza sui pascoli ai più “produttivi” bovini, gli asini – animali dei neri poveri – sono diventati nel Sudafrica contemporaneo un simbolo di lotta all’oppressione e oggi sono tutelati e protetti.
Trattare l’asino non solo come strumento da lavoro, ma
– se non proprio come compagno – almeno come “vicino” ci consente di capirne
meglio la natura. Credo che la grande domanda che noi possessori di asini ci
facciamo sia: come fa un animale a essere così? Paziente al limite
dell’indifferenza, ma insieme consapevolissimo di tutto quello che gli sta
intorno.
Resistente alle violenze con una specie di passività
gandhiana, tesa più a sfinire l’aggressore che a pararne i colpi.
Intelligentissimo e capace di grandi affetti, nonostante la nomea (non me ne
vogliano gli amanti dei cavalli, ma non c’è paragone tra i due quanto a
capacità di elaborare). Una volta qualcuno mi ha chiesto cosa mi piacesse
davvero in un asino. Mi è venuto da rispondergli “Gli asini stanno”. Non
conosco nessun essere vivente che abbia un tale rapporto “terrestre” col mondo:
l’asino sembra sempre in connessione profonda col luogo dove si trova, come se
avesse trovato il suo posto nel mondo. E quel suo sguardo insieme laterale e
diretto sembra proprio celebrare un “qui ed ora” che ha qualcosa a che fare col
senso della vita. È difficile “umanizzare” gli asini, come facciamo con cani
gatti e altri animali domestici. L’asino rivendica sempre una sua alterità, che
però è estremamente aperta e – se mi passate il termine – compassionevole. Lui
sembra sapere qualcosa che noi ci affanniamo a cercare di capire. E allora
quella sua cocciutaggine apparentemente così incomprensibile per noi si
illumina con una bella intuizione suggerita da Jutta Person. L’asino ha
qualcosa di Bartleby lo scrivano. Come il personaggio di Melville, rifiuta di
farsi complice di quella grande messa in scena che l’uomo considera la sua
esistenza e il suo destino. Pressato dal nemico e dalle avversità, l’asino non
fugge ma resta piantato lì a sfidarli. Umile e insieme imbattibile, sembra dire
con la postura e l’espressione: “Preferirei di no”.
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