Una favola di Leo Lionni, Federico, racconta di un topo
guardato con biasimo dagli altri topi perché manca di fare il proprio dovere
mentre tutti si adoperano nel raccogliere frutta e legna per la stagione fredda
alle porte. Federico guarda fiori e colori, contempla le nuvole; appare
assorto, svagato, non porta nessun seme al rifugio. L’inverno arriva e le
provviste finiscono. I topi, stretti l’uno all’altro, non immaginano come
attraversare, senza più cibo né legna, i mesi rigidi ancora a venire. Federico
si fa un poco più in alto di loro, e, da un immaginario pulpito di un
immaginario rifugio di sassi, inizia a raccontare le storie e le immagini di
cui ha fatto scorta, mentre non si avevano per lui che sguardi di rimprovero.
Le parole di Federico scaldano, sfamano e portano luce. Ai topi non resta che
ringraziarlo in coro, ringraziare quel suo tempo sottratto all’utile. “Non
voglio applausi, non merito alloro, ognuno in fondo fa il proprio lavoro”,
risponde Federico arrossendo.
Avremmo poi ritrovato qualcosa dello spirito di questo libretto d’infanzia
in una frase di Don Milani: “sortirne tutti insieme è la politica, sortirne da
soli è l’avarizia”.
C’è qualcosa, in questa favola, e nel passo in più che Don Milani ci
consente di fare, che ci sembra possa essere preso sul serio per ripensare la
scuola. Scuola che, in questo tempo di crisi, resta, noi crediamo, la sfida
politica più importante; salvarla significa anche sottrarla, almeno lei, al
rapporto con il mero utile, significa provare a pensare se, e come, sia
possibile rendere un’istituzione occasione di fare esperienza di un’eccedenza;
significa che se è vero che gli insegnanti sono consegnati a un punto di
solitudine radicale che riguarda l’uno a uno del loro stare in classe – ed è
certo che questa solitudine, e questo mestiere, richiedano una responsabilità
individuale enorme che non può essere aggirata –, è altresì vero che la società
nel suo complesso deve farsi carico di mettere ogni topo Federico nelle
condizioni di non fare altro che il proprio lavoro.
La scuola, insieme alla famiglia, ha il compito di educare; nella scuola si
fa per la prima volta esperienza del sociale e si incontra qualcosa di diverso
da quanto si è vissuto nelle mura – rassicuranti o inquietanti – del familiare.
Freud in Psicologia delle masse mostra come il sentimento
sociale nasca come formazione reattiva a quel sentimento che ci vuole gli uni
contro gli altri in una lotta competitiva per il primato: data l’impossibilità
di essere di per sé il preferito – scrive Freud – che almeno nessuno degli
altri lo sia. L’alleanza nasce da qui, da questo imparare a contare come gli
altri: una legge egualitaria ci insegna che nessuno può aspirare a occupare un
posto privilegiato. Bisognerebbe tenere a mente questo punto politico
fondamentale, in questo tempo storico di rincorsa alla prestazione e
all’eccellenza: la scuola ha il dovere di interrompere la logica dello scambio,
del guadagno, dello sfruttamento che ci vuole servi dell’utile e l’un contro
l’altro armati; la scuola ha il compito di mostrarci la dimensione plurale
dell’esistenza: la sedia che occupo e il banco su cui scrivo sono oggetti di
cui devo avere cura, oggetti di tutti e dunque anche miei.
È Elvio Fachinelli – nella sua risposta a Lettera a una
professoressa di Don Milani – che ci indica cosa è in gioco in questo
appello a non cancellare il sociale; lo fa invitandoci a un esperimento, una
prova individuale: quanti compagni di scuola ricordiamo e quanti tra questi
sono quelli persi per strada? I bocciati? I renitenti? Invita poi alla prova
inversa: loro, gli altri, quelli che noi abbiamo perlopiù dimenticato, si
ricordano di noi? Scrive Fachinelli: “si vedrebbe allora che essi non ci hanno
dimenticato, non riescono a dimenticarci. Anzi, ogni giorno tocca loro
d’incontrarci di nuovo da vicino […]. Appare così in piena luce la vecchia
radice della nostra potente-impotente segregazione di ‘uomini di cultura’: nel
punto in cui gli altri, i Gianni, diventano muti, noi diventiamo ciechi”.
Cosa è in gioco dunque nell’insegnamento? Cosa in questo imperativo a non
diventare ciechi, a non rimuovere la responsabilità in e di questa
istituzione, che è condizione necessaria – per quanto non sufficiente – della
possibilità di ogni istituzione successiva?
Due sono le anime dell’istituzione scolastica oggi: da un lato il suo
funzionamento, fatto di programmi e leggi anonime, un dispositivo che chiede il
rispetto di alcuni obblighi e la trasparenza, che propone criteri che
consentano di garantire uniformità e dunque oggettività.
In questo irrigidimento della dimensione burocratico istituzionale è
lasciato fuori qualcosa che sta dalla parte dell’amore. Pensare la scuola
significa anche badare alla seconda anima, interrogarsi sugli insegnanti e
sulla loro formazione. Possono davvero bastare meccanismi di reclutamento che
mettono al centro la scienza e il sapere? Possiamo davvero pensare che un buon
insegnante sia colui che padroneggia i segreti della propria disciplina o, come
vuole la scuola di oggi, un perfetto tecnico degli invalsi? O ancora colui che
conosce qualche nozione di pedagogia appresa come contenuto tra gli altri e non
nell’esperienza dell’incontro, del fallimento, del tentativo di fare quello che
si può fare in un modo “sufficientemente buono”?
In queste domande che mostrano un’insufficienza radicale, e che danno a
vedere che c’è qualcosa che chiama in causa “la vita”, qualcosa che è difficile
persino da nominare; in queste domande che mostrano che la somma delle
competenze e dei saperi non potrà mai fare l’insegnante, c’è tutto lo scandalo
della scuola, uno scandalo che si configura come una scommessa necessaria.
Nell’insegnamento si gioca una vocazione, uno stile, un desiderio. È possibile
formare in questo senso?
Abbiamo imparato tutti la saggezza di Socrate, e ripetiamo tutti con molto
orgoglio, e spesso a giustificare lacune e mancanze, quel sapere di non sapere.
Ma Socrate non ci dice soltanto che mai potremo padroneggiare una materia che
tanto più penetreremo tanto più svelerà i suoi misteri, ci dice anche, e
soprattutto, che la formazione dell’insegnante – perché è questo il punto che
stiamo qui interrogando e mettendo al centro – chiede un rapporto con il vuoto,
con l’esperienza del limite, con la caduta, con le domande infinite e – basta
pensare al Simposio – con l’amore: “arriverà un momento in cui quei ragazzini
non ti guarderanno più, la loro testa si girerà altrove, e tu stesso sentirai
la tua voce farsi vuota. Allora, credo, in quel momento quel che ti salverà
sarà proprio l’accettare di startene lì a mani nude, disarmato, stonato,
guardare tutti negli occhi e dire: no, non va bene, non ci siamo. Io, non ci
sono. Abbiate pazienza, ragazzi: ripartiamo. Proviamo a ripartire insieme.
Ripartiamo da questo inciampo”, scrive Marco Martinelli nel suo Aristofane
a Scampia. Il coraggio di cui si parla è quello di confidare sull’onestà di
quello che si fa e di quello che si è, l’onesta di quello che ti attraversa.
Nella lotta tra la vita e la morte, nella lotta tra la prigione che ci
vuole tutti uguali e l’aperto che ci prova a insegnare a prendere sul serio la
nostra assoluta singolarità, è bene slacciare le catene dei lettini
contenitivi, come ci ha insegnato Franco Basaglia, ma lo possiamo fare soltanto
garantendo all’altro una cura, un rigore, un impegno, che eccede il semplice
adempiere al proprio dovere. Lo scandalo è questa parola d’amore, questa
implicazione che riguarda la vita dell’insegnante, questo discorso che parla di
formazione e che insieme pone competenze e contenuti come necessariamente
insufficienti.
Insegnare è un mestiere impossibile: senza un programma – e che non può
essere ridotto al programma! – e senza garanzie. Gli insegnanti si fanno carico
dell’ambivalenza di cui sono saturi gli adolescenti, ambivalenza destinata
spesso ad altre figure di riferimento; si trovano, nella loro solitudine,
sovrainvestiti. Scrive Freud: “li corteggiavamo o voltavamo loro le spalle, […]
In fondo li amavamo molto se appena ce ne davano un motivo”. È necessario
aiutare gli insegnanti alla cura di questo “motivo” e riannodare il soggetto in
crescita all’altro di riferimento.
Quello dell’insegnante è un mestiere in perdita, sempre che possa davvero
dirsi in perdita un mestiere nel quale è dato di poter incontrare una vita che
tocca per la prima volta il proprio desiderio. Il debito si salda in avanti; la
scommessa è una scommessa al futuro: riguarda le generazioni, il mondo,
l’eredità. Vi è una componente di dono e gratuità in campo nell’educare, di cui
non può certo farsi carico l’insegnante soltanto, ma la società nel suo
complesso. Puntare sulla scuola significa costruire un discorso sociale capace
di sostenerla, un patto di alleanza tra agenzie educative che ricordi a noi
adulti quello che lì si impara, e cioè che il pubblico è di tutti.
L’istituzione scolastica ha un ruolo di prevenzione primaria, gli insegnanti
devono potersi dedicare al loro compito e tenere viva la loro vocazione:
eludere questo nodo fondamentale, condizione di possibilità del sociale,
significa mancare inevitabilmente qualsiasi possibilità di cambiamento.
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