venerdì 22 marzo 2019

Una catastrofe ambientale epocale - Paolo Cacciari




1. Cosa possiamo fare?
Se non ci sono riusciti gli scienziati, il papa e l’Onu, come possiamo noi pensare di convincere chi ha nelle mani le sorti del mondo a cambiare le politiche economiche in atto? Cosa possiamo fare?
Cinque anni dal 5° Rapporto dell’IPCC sul riscaldamento del globo, quattro anni dall’Agenda 2030 dell’Onu per lo sviluppo sostenibile e dalla enciclica Ludato Si’ sono passati come acqua sul marmo. Grida nel deserto. Nelle facoltà di economia si continuano ad insegnare le magnifiche prestazioni del market system development. Il mondo del business concentra profitti e si spartisce dividendi come non mai. I tecnologi procedono nella robotizzazione di qualsivoglia mansione. I pubblici decisori spianano la strada agli “investitori”, figura mitica cui è affidata la sorte dei popoli. Le opere pie, il Terzo settore, le associazioni della società civile curano, mitigano, compensano le ferite dei sempre più frequenti “fallimenti” del mercato e degli stati utilizzando i fondi dei filantropi e delle Fondazioni bancarie. Ha detto Bergoglio con magistrale ironia in occasione di un’udienza con il movimento dell’Economia di Comunione: «Gli aerei inquinano l’atmosfera, ma con una piccola parte dei soldi del biglietto piantano alberi, per compensare parte del danno arrecato. Le società dell’azzardo finanziano campagne per curare i giocatori patologici che esse creano. E il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine. Questa è ipocrisia!». Più avanti precisa: «Il capitalismo conosce la filantropia non la comunione». (Discorso pubblicato sull’”Avvenire” domenica 5 febbraio 2017 con il significativo titolo di prima pagina: Altra economia, ora).
Ma le cose non vanno comunque bene. Come puntualmente documenta l’osservatorio dell’Asvis (pericolosa associazione umanitaria e ambientalista finanziata dalle cooperative e da aziende come l’Enel, diretta da Enrico Giovannini, già presidente dell’Istat e ministro del governo Letta) molti dei 17 obiettivi e dei 169 target dell’Agenda 2030 si stanno allontanando, in tutto il mondo. Sul versante sociale torna ad aumentare il numero di chi soffre la fame, di chi lavora in condizioni di schiavitù, di chi fugge da persecuzioni, guerre e disastri ambientali. Aumentano le diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza a favore di un ristretto gruppo di ricchissimi.
Sul versante dello stato dell’ambiente gli scienziati sono preoccupati, più ancora del climate change, per la irreversibile perdita di biodiversità (numerosità delle specie viventi, animali e vegetali – la “Sesta grande estinzione di massa”, 65 milioni di anni dopo l’ultima), per la perdita di fertilità dei suoli (rottura dei cicli naturali dell’azoto e del fosforo), per l’acidificazione degli oceani, per la rarefazione dell’ozono stratosferico. In generale la contabilità fisica delle materie prime prelevate (vedi i Material Input Based Indicators, i bilanci di flusso di materia, energia ed emissioni pubblicati da International Resource Panel, UN Environment) indica che la quantità di materie prime estratte dalla Terra continua a crescere paurosamente (da 22 miliardi di tonnellate nel 1970 a ben 70 miliardi di tonnellate nel 2010), nonostante la “stagnazione” economica, con i paesi più ricchi che consumano in media dieci volte più materiali dei paesi più poveri e il doppio della media mondiale. La nova formula dell’Economia circolare, per quanto efficiente, può solo inseguire e procrastinare un trend entropico di tale dimensione.
In definitiva non vi è dubbio che le attività antropiche in atto risultano essere mortifere. Termini come geocidio (distruzione delle strutture portanti del pianeta), biocidio (sterminio biologico), ecocidio (distruzione dei sistemi viventi) descrivono bene quella che già Thomas Hobbes chiamava la “guerra perpetua” dell’uomo contro la “natura selvaggia”. Una guerra che l’umanità sta conducendo con indubbio successo. Non tutta l’umanità, per la verità, è ugualmente responsabile (Jason W. Moore ci invita a pensare alla nostra era geologica come quella del “capitalocene”, piuttosto che dell’antropocene), ma tutta è indubbiamente coinvolta.

2. Ma perché gli adulti maltrattano la Terra?
Com’è possibile che ciò stia accadendo sotto i nostri occhi senza che nulla cambi?
Ha scritto don Maurizio Patricello, parroco di Caivano nella Terra dei fuochi: «I bambini ci arrivano con grande facilità, gli adulti no, fanno difficoltà, oppongono ostacoli, ingarbugliano il discorso, fanno lo scarica barile. Il progresso deve farci vivere meglio, non peggio. Deve aiutarci ad essere più sereni, più riposati, più umani, non più preoccupati (…) La terra è di tutti, l’aria è di tutti, l’acqua è di tutti. Mangia pure la tua mela ma non sradicare l’albero; dissetati pure alla fonte ma non avvelenare il pozzo; respira a pieni polmoni l’aria cristallina e gioisci nel pensare che tuo figlio potrà fare lo stesso». Don Patricello si fa portavoce della domanda dei bambini: «Ma perché gli adulti maltrattano la Terra?». La risposta che ci fornisce a me pare, però, che sia fin troppo semplice, persino autoconsolatoria: «Perché sono stupidi. Imbrogliano, rubano, confondono. Maltrattano, umiliano inquinano l’ambiente per interessi personali o di camarilla (anche politica). E vanno avanti finché la Terra non boccheggia, non cede, non si lamenta e minaccia» (Nessuno resti a guardare, “Avvenire”, 28 febbraio 2019).
In verità c’è qualcosa di più e di ancora peggiore del malanimo di singoli cinici speculatori, delle bande di crudeli approfittatori e mafiosi, delle caste di politici corrotti e così via delinquenzando. In realtà viviamo immersi in un sistema socio-economico che avvalora l’avidità, l’arricchimento individuale, l’egoismo, il disinteresse verso l’altro da sé. Questo è il normale ambiente culturale che plasma i comportamenti e le relazioni sociali tra le persone, tra le persone e le cose e l’ambiente naturale. In tutta onestà non credo che ognuno di noi sia disinformato su dove va il mondo. Le televisioni e i giornali sono pieni di immagini di orsi polari alla deriva sui ghiacci, di incendi e alluvioni che si susseguono ad ogni cambio di stagione in California come in Australia, dei prati senza api, delle primavere senza rondini (‎vi ricordate Silent Spring della Rachel Carson?). E, se ce ne dimentichiamo, c’è sempre una piccola svedese con le trecce sulle cover dei settimanali che ce lo ricorda.
Non credo nemmeno che ognuno di noi sia così mediamente etimologicamente “deficiente” da non saper collegare le catastrofi ambientali in corso con ciò che le provoca. Produciamo, costruiamo, commerciamo, consumiamo sempre più carne da allevamenti intensivi, telefonini e computer con il coltan estratto dalle miniere congolesi, pentole antigraffio con i Pfas (gli acidi perfluoroacrilici che troviamo nel sangue dei bambini in mezzo Veneto), treni ad alta velocità, aeroporti e grandi navi che sventrano valli, pianure e lagune. Ci muoviamo, riscaldiamo e refrigeriamo le nostre case per mezzo di combustibili fossili. Ci cibiamo di pizze condite con pomodori raccolti da migranti alloggiati nelle tendopoli di San Ferdinando, Campobello di Mazara, Gran Ghetto di San Severo… Ci vestiamo con indumenti confezionati nelle sweatshop , fabbriche globali di Phnom Penh, Chongqing, Dacca… “Trattiamo” decine di migliaia di schiave sessuali che allietano qualche milione di abituali stupratori paganti (leggere: Stupro a pagamento. La verità sulla prostituzione di Rachel Moran). Tutto ciò entra nel Pil e contribuisce al benessere degli italiani e del capitalismo nel mondo.

3. Mezzi e fini
C’è una sorta di dissociazione nel modo di pensare anche tra le persone più a modo e socialmente impegnate. Una vecchia abitudine delle sinistre a concepire il benessere materiale delle persone disgiuntamente dai mezzi e dai modi con cui lo ottengono. Prima viene il reddito, la retribuzione, il denaro. Poi – forse – tutto il resto. Vecchio retaggio del “salario variabile indipendente” che avrebbe la forza di scardinare le compatibilità del sistema e aprire la strada al pieno dispiegamento delle forze produttive. É stato detto molto giustamente che uno dei limiti politici più gravi delle organizzazioni storiche del movimento operaio è stata «l’indifferenza dei lavoratori nei confronti dei valori d’uso da essi stessi prodotti». (Sergio Bologna in “Primo Maggio” del 1987, citato da Emanuele Leonardi nella introduzione a André Gorz, Ecologia e libertà). Si finisce per accettare lavori privi di senso, di dignità, persino nocivi, semplicemente per ottenere un reddito. Si è rinunciato così ad immaginare che l’esistenza potrebbe essere meglio garantita lavorando diversamente. Applicando le competenze e finalizzando il saper fare di ciascuno ad obiettivi di utilità sociale. Organizzando la cooperazione sociale in modo da soddisfare i bisogni e i desideri di ciascuno senza danneggiare nessun’altro.
Non nego certo che i soldi contino per il nostro sostentamento. Un folgorante aforisma di Woody Allen dice: «I soldi non fanno la felicità. Figurarsi non averli!». É vero che siamo sempre più dipendenti dal denaro. Ma è proprio per questo motivo che diventiamo sempre più prigionieri di un sistema che ci è estraneo, fuori dal nostro controllo. Non sappiamo più autoprodurci un’insalata o un vestito, aggiustarci una bicicletta o costruire un giocattolo. Non abbiamo più il tempo per cucinare, per stare con i figli, per accudire i nostri vecchi. Guardiamo Master Chef, ma compriamo precotto. Regaliamo di tutto, ma paghiamo babysitter e badanti. Senza denaro non campi! Oggi più di ieri, con lo smantellamento dei servizi di welfare universale, tutto è a pagamento.
Ma conta anche come ci si procura il denaro necessario per vivere. Se per ottenerlo devi umiliarti, perdere il controllo delle tue azioni, stressarti, metterti in competizione con il tuo compagno di lavoro, ammalarti… qual è la contropartita che paghi in termini di perdita di autostima, realizzazione personale, sviluppo delle capacità affettive e creative? Se quei pochi soldi che riesci a racimolare li devi impegnare per pagare i debiti di un salario che non arriva a fine mese, allora è chiaro che l’ansia generata dalla perdita di status diventa incupimento, infelicità, cattiveria. Diventiamo così facili prede degli imprenditori d’odio che occupano gli schermi e i social.
Il degrado dell’ambiente, delle condizioni sociali e psichiche sono facce dello stesso prisma. Conseguenze della perdita di senso cui è giunta l’azione umana dentro l’ordine delle cose e i rapporti sociali capitalistici. Caludia von Werlhof ci dice che il progetto distopico del «patriarcato moderno chiamato capitalismo», con il suo delirio di onnipotenza sulle forze della natura (il post e il tras-umanesimo), ci ha portati Nell’età del boomerang (Edizioni Unicopli, 2014), il tempo in cui cominciamo a pagare i debiti contratti con la biosfera e con le masse sterminate di persone escluse, scartate, inutilizzate, superflue, “fuori mercato”.

4. La Chiesa e il dio mercato
Credo quindi che sia venuto il momento per interrogarci francamente e apertamente sulle ragioni per cui tanti ammonimenti (come quelli degli scienziati dell’Ipcc), tanti bei propositi (come quelli delle agende dell’Onu), tanti accorati appelli (come quelli di papa Bergoglio) non stiano avendo alcuna incidenza sui programmi dei governi, nel mondo scientifico accademico e nemmeno nell’opinione pubblica. Perfino nella Chiesa! L’ultima sconfortante conferma l’ho avuta leggendo “Oeconomicae et pecuniariae quaestiones. Considerazioni per un discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico-finanziario” della Congregazione per la Dottrina della Fede e del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, pubblicato nel maggio dello scorso anno. Documento controfirmato dallo stesso papa Francesco! Si tratta di una summa di politica economica che è in palese e clamorosa contraddizione con la Laudato si’, ma in linea con la tradizione più moderata della dottrina dell’Economia Civile (Zamagni, Bruni, Becchetti). Il pamphlet si sforza di giustificare le magnifiche e progressive finalità di tutti gli strumenti del mercato: denaro, profitto, impresa. Cito a salti. «In linea di principio, tutte le dotazioni ed i mezzi di cui si avvalgono i mercati per potenziare la loro capacità allocativa, purché non rivolti contro la dignità della persona e non indifferenti al bene comune, sono moralmente ammissibili». I mercati sono un «potente propulsore dell’economia» . E ancora: «Anche il denaro è di per sé uno strumento buono, come molte cose di cui l’uomo dispone: è un mezzo a disposizione della sua libertà e serve ad allargare le sue possibilità». «Così anche la finanziarizzazione del mondo imprenditoriale, consentendo alle imprese di accedere al denaro mediante l’ingresso nel mondo della libera contrattazione della borsa, è di per sé positivo». «A tal proposito, come non pensare all’insostituibile funzione sociale del credito». La Congregazione giunge alla naturalizzazione del mercato capitalistico: «Il mercato, grazie ai progressi della globalizzazione e della digitalizzazione, può essere paragonato ad un grande organismo, nelle cui vene scorrono, come linfa vitale, ingentissime quantità di capitali. Prendendo a prestito quest’analogia possiamo dunque parlare anche di una ‘sanità’ di tale organismo, quando i suoi mezzi ed apparati realizzano una buona funzionalità del sistema, in cui crescita e diffusione della ricchezza vanno di pari passo. Una sanità del sistema che dipende dalla sanità delle singole azioni che vi vengono attuate. In presenza di una simile sanità del sistema-mercato è più facile che siano rispettati e promossi anche la dignità degli uomini ed il bene comune».
Dov’è finita la critica all’economia politica e il messaggio lanciato da Bergoglio negli incontri (Roma 2014, Santa Cruz 2015, Roma 2016) con i movimenti popolari sulle tre T (Trabajo, Techo, Tierra) quando invitava i cristiani e non alla lotta per «aggredire le cause strutturali delle iniquità»?In definitiva, per la Congregazione della dottrina e della fede, così come – per la verità – per la maggior parte delle organizzazioni sindacali e politiche, non sarebbe la fisiologia del sistema di mercato a produrre i danni sociali e ambientali che abbiamo sotto gli occhi, ma solamente alcune patologie provocate dagli eccessi della finanza, dalla scarsa eticità di alcuni attori economici colpevoli di “condotte immorali”e da regolatori pubblici “collusi”. La cura da queste degenerazioni dovrebbe venire dall’introduzione di sistemi di “responsabilità sociale dell’impresa”, dalla creazione di “Comitati etici, in seno alle banche” da affiancare ai consigli di amministrazione, da controlli pubblici “super partes”. Tutto ciò: «Perché anche il mercato, per funzionare bene, ha bisogno di presupposti antropologici ed etici che da solo non è in grado di darsi né di produrre». Rimaniamo nell’illusione della possibilità di un capitalismo umanizzato, ben temperato, etico, sostenibile…

5. Market Democracy
Il solo nuovo “protagonismo sociale” ammesso dall’ordine delle cose stabilito dal mercato capitalistico è quello del consumatore. Non possiamo scegliere cosa, dove, quanto, per chi produrre, ma ci è concesso (in via teorica) scegliere cosa consumare. L’ordine democratico del totalitarismo di mercato è limitato al “voto con il portafoglio”. Quello con la scheda elettorale non conta più nulla: siamo nella Market DemocracyPossiamo condizionare le scelte di politica economica solo entrando nel sistema dalla porta sul retro. Un progressivo slittamento dalla “società dei produttori” a quella dei “consumatori”. Si sancisce così la separazione e la bipartizazione all’interno dello stesso soggetto umano tra produttore e consumatore. Una dissociazione tra homo faber e homo consumens. Il lavoro è solo un mezzo qualsiasi per ottenere il denaro necessario ad esaudire i nostri bisogni e desideri. É la logica del sistema che attanaglia persino l’imprenditore. Scrive Roberto Esposito:
«Anche il capitalista è asservito al dispositivo della valorizzazione secondo una modalità che si autoalimenta. Egli è impegnato a valorizzare il valore nello stesso modo in cui riproduce la produzione.» (R. Esposito, Le persone e le cose, Einaudi 2014).
Già Marx descriveva bene l’assoluta indifferenza del capitale verso il valore d’uso delle merci, per il loro contenuto intrinseco: pane o cannoni pari sono. Nella società capitalistica, l’impresa produttiva è – non a caso – definita dagli ordinamenti giuridici “a responsabilità limitata”. Etic free. La sua missione sociale è specifica: produrre a costi e in tempi sempre minori una quantità sempre maggiore di merci. La “domanda” diventa così l’oracolo sacro. Il consumo, nel discorso corrente, diventa il Principe del sistema. Apparentemente si tratta di un meccanismo impersonale, automatico, persino “naturale” (direbbe la Congregazione della fede), in grado di equilibrarsi spontaneamente. I manuali di economia insegnano che il mercato è in equilibrio generale quando i saggi di sostituzione nell’uso di tutte le merci scambiate uguagliano le ragioni di scambio (i prezzi e i costi) fra le merci.
In verità, meno astrattamente, il sistema di mercato porta a produrre quelle merci per le quali vi sono consumatori solvibili, buyers con un potere d’acquisto sufficiente a remunerare i costi di produzione delle merci e i relativi utili. L’importante è che la domanda solvibile cresca in continuazione. Cosa e quanto produrre deve apparire come dipendente solo dalle “preferenze” del consumatore solvibile. Si é così potuta affermare l’ideologia illusoria del consumatore sovrano che sceglie ciò che vuole, comprese le sue preferenze etiche e politiche, comprando una o l’altra merce, uno o l’altro servizio. In realtà – come sostiene Zygmunt Bauman in Homo consumes, Erickson 2007 – il consumo più che un atto di libertà, di autoaffermazione e di piacere, è un atto obbligatorio e di sottomissione all’ordine sociale. È così per alcune ragioni persino ovvie. I consumatori non sono tutti uguali e non hanno lo stesso peso sul mercato. C’è chi è più solvibile di altri e chi non riesce nemmeno ad entrare nel mercato. Un terzo della popolazione mondiale ne è escluso e costituisce l’immenso esercito di riserva che serve a tenere dentro i ristretti limiti della sussistenza il secondo terzo della popolazione mondiale che lavora per fornire a buon mercato beni e servizi al rimanente terzo. Così, in quest’ultimo segmento privilegiato dell’umanità (il terzo del mondo che appartiene ai paesi più “sviluppati”) c’è chi riesce ad accumulare plusvalenze e chi invece deve indebitarsi per far fronte alle proprie esigenze vitali. Il gioco del libero mercato, quindi, non appiana le differenze, ma aumenta le iniquità. Le disuguaglianze sono il motore del mercato.
Come è facile immaginare, il relativo “potere dei consumatori” è molto diversificato, dipende dal loro diverso potere d’acquisto. Chi ha più denaro da spendere è in grado di influenzare e indirizzare l’offerta più di quanto non lo riesca a fare chi non ha i denari necessari per soddisfare i propri bisogni elementari. I più poveri saranno sempre costretti a indirizzare le loro scelte di consumo sulle merci più economiche che, con tutta probabilità, saranno anche le più scadenti, le meno sane, con una maggiore impronta ecologica e un maggiore carico di sfruttamento lungo la catena produttiva.

6. L’illusione della green economy
Se un maggiore volume di merci prodotte e vendute non assicura – al contrario! – una diminuzione delle sofferenze e delle ineguaglianze, è altrettanto vero che un maggiore giro d’affari misurato in valore di scambio – calcolato su ogni scala – non migliora affatto gli impatti ambientali dei sistemi produttivi industrializzati. Questa è la seconda grande promessa mancata della serie di “rivoluzioni industriali” succedutesi senza soluzioni di continuità nel contesto dei sistemi economici dominati dal paradigma capitalistico. Il miracolo del decupling (come abbiamo visto analizzando i bilanci dei flussi di materia e di energia impegnate nei cicli produttivi e di consumo) non si è ancora verificato. Non c’è stato alcun “disaccoppiamento” tra crescita del valore monetario delle merci e diminuzione degli impatti ambientali dovuto dall’introduzione di tecnologie green, dalla miniaturizzazione dei macchinari, dalla efficientizzazione energetica, dalle nanotecnologie, dal recupero e riciclaggio e così via. I risparmi di materia, di energia e di lavoro che le nuove tecnologie effettivamente consentono non vengono utilizzati dalla megamacchina produttiva per ridurre il dispendio di risorse naturali e umane, ma per accrescere la profittabilità dei capitali investiti. In quest’ottica le ragioni della conservazione dell’ambiente non sono un fine in sé, ma solo una “opportunità” per “rilanciare l’economia”, una occasione per sviluppare nuovi business e fare profitti veicolando un immaginario accattivante. Da qui la proliferazione di certificati, marchi, bollini green, bio, etici.
Le enormi spese bruciate in pubblicità (stimate a livello mondiale tra i 500 e i 600 MLD di $ all’anno. 276 MLD di $ solo negli Stati Uniti nel 2005) stanno a dimostrare una certa difficoltà a collocare le mercanzie prodotte. Grazie ai progressi tecnologici oggi è più facile (ed economico) produrre che vendere. Così il “profitto più evoluto”, che si genera lungo la catena della produzione del valore, è collocato nel marketing, nel branding, nel packaging, nella ideazione del prodotto. La concorrenza tra le imprese nei mercati più redditizi si combatte sempre di più sull’immagine simbolica del marchio, sul suo “capitale di reputazione”. Oggi anche i fondi di investimento speculativi cercano di accreditarsi come “sostenibili”. Per le grandi società sono entrate in funzione le norme della Direttiva europea sul bilancio di sostenibilità (DNF, Dichiarazione di carattere non finanziaria). Un report sugli aspetti ambientali e sociali delle imprese.
L’idea di ridurre l’impronta ecologia delle attività produttive creando un sistema di incentivi a favore delle imprese che investono in tecnologie meno impattanti fu messa a punto al tempo del Protocollo di Kyoto (1997), sullo schema del “cup and trading”. Le autorità pubbliche fissano quote massime di inquinanti per ogni singola o gruppo di imprese e autorizzano il loro commercio in appositi mercati: Emission Trading. La speranza era quella di ridurre gradualmente le emissioni di anidride carbonica senza dover introdurre drastiche “carbon tax”. I risultati delle strategie di mercato sono quelli che conosciamo. La teoria messa a punto da sir William S. Jevons nel 1865 rimane valida. A causa del paradossale effetto Rebulding «La resa maggiore delle caldaie a vapore fa aumentare la loro utilità, quindi la loro diffusione e i consumi totali di carbone». Sostituite le caldaie a vapore con automobili, frigoriferi, centrali energetiche, macinini del caffè… e – sull’altro capo del ciclo – sostituite il carbone con il petrolio, il nucleare, il gas naturale, l’energia rinnovabile… e il risultato non cambierà. Come ci ha insegnato Giorgio Nebbia, ogni centesimo che passa da una tasca all’altra si porta inevitabilmente dietro un pezzo di materia. Se non è il carbone sono le “terre rare”. Se non è l’uranio è il litio. Se non sono le sementi è il genoma. Terra e lavoro continueranno ad essere i generatori di qualsiasi processo economico.
Solo una cultura del limite e una accettazione del sufficiente e del bastevole potrà farci rientrare dentro i confini della sostenibilità. Non basta una green economy, serve una green society. Ma siamo, appunto, fuori dai paradigmi economici, sociali e antropologici del capitalismo. Alain Caillé, nella Critica della ragione utilitaria ha scritto:
«Gli uomini sono uomini prima di essere lavoratori e le società sono umane prima di essere macchine per produrre».
Dovremmo quindi cercare di costruire una umanità cosciente e responsabile delle proprie azioni nell’arco di tutte le sue funzioni vitali, esigenze, pulsioni. Un percorso di recupero delle libertà d’iniziativa di ogni individuo. Un processo – certo non facile – di liberazione dai condizionamenti e dalla eterodirezione, dalla sovraimposizione di un sistema tarato, perverso, autolesionista che ci rende complici e ci degrada.

7. Prepariamoci
Liberarsi dall’Idra dalle mille teste non è certo facile. Troppe volte il capitalismo è stato dato per morto. Con fine ironia Giorgio Ruffolo scrisse che Il capitalismo ha i secoli contati (Einaudi 2008). Tutto è relativo, anche il tempo. Quanto dura l’affondamento del Titanic? Il tempo di un film o quello di un amore? Quanto potrà ancora durare un sistema economico basato sull’estrattivismo? Il tempo della trasformazione di tutte le risorse in merci o quello della capacità di sopportazione umana? Ha scritto l’economista Lorenzo Fioramonti, ora sottosegretario pentastellato alla Pubblica Istruzione: «Il cambiamento può avvenire rapidamente e in modo imprevedibile: per questo è così importante avere sacche di sperimentazione che possano indicare la via da seguire quando il sistema dominante crolla sotto il peso delle sue stesse inefficienze.» (L. Fioramonti, Presi per il Pil, 2017). Prepariamoci, dunque.
Riassettare il sistema è possibile solo se si cambiano i criteri operativi alla radice. La sostenibilità sociale ed economica di cui parlano gli scienziati, le agenzie dell’Onu e Bergoglio è raggiungibile solo all’interno di un sistema di relazioni umane improntato sul riconoscimento dei limiti naturali e sulla equa condivisione dei beni comuni della Terra tra tutti gli esseri viventi, presenti e futuri. Nulla di meno che un criterio di vita e politico etico ed ecologico, congiunto, inseparabile. Un’idea di società ecologica ed equa, un orizzonte di senso, una “ecologia integrale”, come la chiama Bergoglio. Ma per esserlo davvero deve trattarsi di un processo di trasformazione non solo post-capitalista e anticlassista, ma anche antirazzista, antispecista, non antropocentrico, non androcentrico. Un processo di conversione e di rigenerazione ecologica, tanto economico, tecnologico e sociale, quanto spirituale. Una presa in cura responsabile e amorevole della Terra. Per riuscirci dobbiamo navigare a vista. Simone Weil (La persona e il sacro) ha scritto:
«Al di sopra delle istituzioni destinate a proteggere il diritto, le persone, le libertà democratiche, occorre inventarne altre destinate a discernere e abolire tutto ciò che nella vita contemporanea schiaccia le anime sotto l’ingiustizia, la menzogna e la bruttezza. Occorre inventarle, perché esse sono sconosciute, ed è impossibile dubitare che siano indispensabili».
La distanza tra questa esigenza e i documenti che abbiamo a disposizione è davvero abissale.

8. Denunce parziali
Se le denunce degli scienziati dell’Ipcc, i programmi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, le encicliche di papa Francesco non producono cambiamenti sociali e politici concretamente significativi c’è onestamente da chiedersi se non vi siano in origine anche delle debolezze intrinseche e delle incoerenze tali da rendere i messaggi lanciati così poco incisivi. A mio modo di vedere sì. E la causa è la loro parzialità.
L’allarme mediatico in corso concentrato quasi esclusivamente sui gas climalteranti lascia intendere che sia possibile rientrare nei limiti di carico del Pianeta attraverso l’introduzione di tecnologie più efficienti e sviluppando lo sfruttamento su larga scala delle energie rinnovabili. Ci si affida così a megaprogetti di impianti eolici, geotermici e solari a concentrazione come il Desertec in Libia e ora a TuNur in Tunisia che coprono intere porzioni del Sahara e trasportano in Europa tramite condotte sottomarine l’energia che serve. Spostare l’attenzione sui ritrovati tecnologici (la geoingegneria) ha il vantaggio di non mettere mai in discussione l’uso dell’energia che viene prodotta, dei materiali estratti e, soprattutto, gli stili di vita nei paesi con più alti consumi.
Nel caso dell’Agenda 2030 delle NU, così ricca e completa di indicatori universali di benessere in ogni campo della vita umana e non, l’incongruenza che la rende così poco credibile deriva dalla evanescenza del suo ultimo (il 17°) Target: Rafforzare i mezzi di attuazione e rinnovare il partenariato mondiale per lo sviluppo sostenibile. L’Obiettivo si limita a confermare le vecchie pratiche dell’“aiuto allo sviluppo” dei paesi arretrati nel quadro del “sistema di scambio universale” sotto il controllo dell’OMC. L’obiettivo da raggiungere suona come una minaccia neocoloniale: «incrementare considerevolmente le esportazioni dei paesi emergenti» al fine di «raddoppiare entro il 2020 la quota delle loro esportazioni globali». Come? Incoraggiando e promuovendo « partnership efficaci nel settore pubblico, tra pubblico e privato e nella società civile basandosi sull’esperienza delle partnership e sulla loro capacità di trovare risorse». Meno che zero.

9. La reticenza di Bergoglio
Ma anche l’enciclica Laudato si’ non sembra arrivare al cuore profondo del problema teorico della guarigione ecologica dell’animo umano investendo la dimensione antropologica, filosofica e psicologica. E qui servirebbe non tanto un papa ecologo, quanto un papa che sappia tradurre i principi dell’ecologia in deep teology.
Bergoglio nella Laudato Si’ fa risalire la crisi ecologica del pianeta, alla rottura del rapporto armonioso tra uomo e natura, alla rottura della comunione tra ogni forma di vita. Gli esseri umani non si sentono parte della comunità biotica. Bergoglio giunge a dire che la causa è un «eccesso di antropocentrismo»[§116], un «antropocentrismo deviato» [§119]. Un eccesso, una deviazione, ma non l’antropocentrismo in sé stesso! Bergoglio quindi non sposa – anzi tiene a criticare – il pensiero dell’ecologia profonda (sostenuta da Arnè Naess, dalla Deep Ecology, dagli ecofilosofi, dagli antropologi e antispecisti anarchici). Ribadisce che «il pensiero cristiano rivendica per l’essere umano un peculiare valore al di sopra [sottolineatura mia] delle altre creature» [§119], critica la «divinizzazione della terra» [§9] e «non cede il passo al biocentrismo» [§119]. Bergoglio non se la sente di recidere il nodo della traduzione giudaica dei passi carichi di tragedie del libro della Genesi che recitano così: «Facciamo l’uomo a norma della nostra immagine, come nostra somiglianza, affinché possa dominare sui pesci del mare e sui volatili del cielo, sul bestiame e sulle fiere della terra e su tutti i rettili che strisciano sulla terra» [Genesi 1,26]. E ancora: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra» [Genesi 1,28].
Scrive Gianfranco Ravasi (Sole 24 ore del 3 aprile 2016): «In realtà i due verbi ebraici usati contengono un significato più sfumato e persino suggestivo: kabash – ‘soggiogare’ originariamente rimanda all’insediamento in un territorio che deve essere esplorato e conquistato, mentre radah – ‘dominare’ è verbo del pastore che guida il sue gregge». Ma nemmeno la teologia di papa Francesco decide finalmente di scegliere che verbo usare! L’uomo (e nella storia sappiamo bene che si tratta proprio di maschio, adulto, possidente…) rimane così ben saldo al suo posto di comando, al vertice della piramide, destinatario ultimo dell’universo di cui può disporre per volontà divina, l’incarnazione del potere di Dio… seppur investito da qualche dovere di custodia del creato. Un antropocentrismo un po’ mitigato che impedisce a Bergoglio di fare i conti fino in fondo con l’idea stessa di dominio e di dominazione, di gerarchia e di potere, di violenza strutturale insita nei sistemi umani gerarchizzati. (Detto tra parentesi: mi rendo conto del paradosso di pretendere una critica al potere centralizzato dal capo della più potente organizzazione mondiale maschile e patriarcale, piramidale e fortemente burocratizzata! Ho letto un articolo di Antonietta Potente, una teologa e missionaria che non riscontra nella Laudato si’ una novità teologica:
«Comincio a dubitare che chi ha fatto i danni possa ripararli, per cui il creato salverà noi e non viceversa. Il Creato significa il suo creatore» L’Altrapagina, settembre 2015).
La reticenza di Bergoglio a scegliere un umanesimo non antropocentrico rende il suo pensiero sulla “ecologia integrale” contraddittorio e inefficace al fine di scalfire la base culturale stessa su cui si erige il potere della tecnocrazia contemporanea. Le sue parole rimangono petizioni morali, non mordono l’essenza della cultura occidentale che giustifica violenza, predazione, dominio.
Mi viene in aiuto Federico Squarcini (L’uomo perde i sensi, La Lettura, del 6 gennaio 2018) quando ci ricorda che nelle tradizioni religiose possiamo trovare sia le tracce di un uomo de-ecologizzato, separato dalla natura (cita il Codice induista di Manu, due secoli prima di Cristo) che «non è più in grado di controllare l’impatto sul mondo e perciò diventa distruttivo (…) e si autodistrugge», sia all’opposto molta altra spiritualità ecologica (per esempio lo Yogasutra, l’ecobuddismo fino a Pacha Mama).
A mio modo di vedere, se non si arriva alla critica profonda del pensiero antropocentrico è difficile uscire dalla logica di dominio che ha portato l’umanità a dichiarare guerra alla natura. Poiché, scriveva la teologa Rosemary Radford Ruether: «La guarigione ecologica è un processo teologico e psichico-spirituale (…) Dobbiamo trasformare la nostra psiche interiore e il modo in cui simboleggiamo le relazioni che intercorrono tra uomini e donne, tra gli esseri umani e la terra, tra gli esseri umani e il divino, tra il divino e la terra» (Gaia e Dio. Una teologia eco femminista per la guarigione della terra, 1995). Ritengo – con tutta la modestia del caso – che se Bergoglio non compirà questi salti, il suo pensiero ecologico non riuscirà a fornire delle risposte credibili alle domande dei credenti sempre più angosciati per il degrado del creato, ad aprire una breccia nelle menti delle persone e quindi a “scandalizzare” la scena politica. Salvini potrà beatamente continuare a snocciolare rosari e gli economisti della Congregazione della fede potranno continuare a benedire la profittabilità delle imprese.
L’aiuto che potrebbe venire dalla teologia alla “conversione ecologica” (che è assieme: dei mezzi e dello spirito) dovrebbe rischiare la sacralizzazione del creato. Riscoprire fino in fondo (non solo a metà) il pensiero di Francesco d’Assisi lì dove ci dà una lezione di vera “economia circolare” quando ci dice di amare i lupi e gli uccellini ma anche di laudare “nostra morte corporale”. Se non si arriva a questo grado di consapevolezza, di riconoscimento e venerazione dei cicli naturali della vita nella loro integrità, finitezza e capacità di rigenerazione (Gaia: pianeta vivente, macrorganismo capace di autoregolazione) non ci sarà mai rispetto, assunzione di responsabilità, compiutezza gioiosa della vita. Non ho mai capito perché nell’enciclica la parte finale del Cantico delle creature di Francesco d’Assisi non è riportata.

(…) Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra,
la quale ne sustenta e governa,
et produce diversi fructi con coloriti flori et herba
(…) Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale,
da la quale nullu homo vivente po’ skappare:
guai a cquelli ke morrano ne le peccata mortali:
beati quilli ke che se trovarà ne le tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no ‘l farrà male.

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