1. Cosa possiamo fare?
Se non ci
sono riusciti gli scienziati, il papa e l’Onu, come possiamo noi pensare di
convincere chi ha nelle mani le sorti del mondo a cambiare le politiche
economiche in atto? Cosa possiamo fare?
Cinque anni
dal 5° Rapporto dell’IPCC sul riscaldamento del globo, quattro anni dall’Agenda
2030 dell’Onu per lo sviluppo sostenibile e dalla enciclica Ludato Si’ sono
passati come acqua sul marmo. Grida nel deserto. Nelle facoltà di economia si continuano ad insegnare le magnifiche
prestazioni del market system development. Il mondo del business concentra profitti e si
spartisce dividendi come non mai. I tecnologi procedono nella robotizzazione di
qualsivoglia mansione. I pubblici decisori spianano la strada agli
“investitori”, figura mitica cui è affidata la sorte dei popoli. Le opere pie,
il Terzo settore, le associazioni della società civile curano, mitigano,
compensano le ferite dei sempre più frequenti “fallimenti” del mercato e degli
stati utilizzando i fondi dei filantropi e delle Fondazioni bancarie. Ha detto
Bergoglio con magistrale ironia in occasione di un’udienza con il movimento
dell’Economia di Comunione: «Gli aerei inquinano l’atmosfera, ma con una
piccola parte dei soldi del biglietto piantano alberi, per compensare parte del
danno arrecato. Le società dell’azzardo finanziano campagne per curare i
giocatori patologici che esse creano. E il giorno in cui le imprese di armi
finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il
sistema avrà raggiunto il suo culmine. Questa è ipocrisia!».
Più avanti precisa: «Il capitalismo conosce la filantropia non la comunione».
(Discorso pubblicato sull’”Avvenire” domenica 5 febbraio 2017 con il
significativo titolo di prima pagina: Altra economia, ora).
Ma le cose
non vanno comunque bene. Come puntualmente documenta l’osservatorio dell’Asvis
(pericolosa associazione umanitaria e ambientalista finanziata dalle
cooperative e da aziende come l’Enel, diretta da Enrico Giovannini, già
presidente dell’Istat e ministro del governo Letta) molti dei 17 obiettivi e dei
169 target dell’Agenda 2030 si stanno allontanando, in tutto il mondo. Sul versante sociale torna ad aumentare il numero di chi soffre la
fame, di chi lavora in condizioni di schiavitù, di chi fugge da persecuzioni,
guerre e disastri ambientali. Aumentano le diseguaglianze nella distribuzione
della ricchezza a favore di un ristretto gruppo di ricchissimi.
Sul versante
dello stato dell’ambiente gli scienziati sono preoccupati, più ancora del climate change, per la irreversibile perdita di
biodiversità (numerosità delle specie viventi, animali e vegetali – la “Sesta
grande estinzione di massa”, 65 milioni di anni dopo l’ultima), per la perdita
di fertilità dei suoli (rottura dei cicli naturali dell’azoto e del fosforo),
per l’acidificazione degli oceani, per la rarefazione dell’ozono stratosferico.
In generale la contabilità fisica delle materie prime prelevate (vedi i Material Input Based Indicators, i bilanci di flusso di
materia, energia ed emissioni pubblicati da International Resource Panel, UN
Environment) indica che la quantità di materie prime estratte dalla Terra
continua a crescere paurosamente (da 22 miliardi di tonnellate nel 1970 a ben
70 miliardi di tonnellate nel 2010), nonostante la “stagnazione” economica, con
i paesi più ricchi che consumano in media dieci volte più materiali dei paesi
più poveri e il doppio della media mondiale. La nova formula dell’Economia
circolare, per quanto efficiente, può solo inseguire e procrastinare un trend
entropico di tale dimensione.
In
definitiva non vi è dubbio che le attività antropiche in atto risultano essere
mortifere. Termini come geocidio (distruzione delle strutture portanti del
pianeta), biocidio (sterminio biologico), ecocidio (distruzione dei sistemi
viventi) descrivono bene quella che già Thomas Hobbes chiamava la “guerra
perpetua” dell’uomo contro la “natura selvaggia”. Una guerra che l’umanità sta
conducendo con indubbio successo. Non tutta l’umanità, per la verità, è
ugualmente responsabile (Jason W. Moore ci invita a pensare alla nostra era geologica
come quella del “capitalocene”, piuttosto che dell’antropocene), ma tutta è
indubbiamente coinvolta.
2. Ma perché gli adulti maltrattano la Terra?
Com’è possibile che ciò stia accadendo sotto i nostri
occhi senza che nulla cambi?
Ha scritto
don Maurizio Patricello, parroco di Caivano nella Terra dei fuochi: «I bambini
ci arrivano con grande facilità, gli adulti no, fanno difficoltà, oppongono
ostacoli, ingarbugliano il discorso, fanno lo scarica barile. Il progresso deve
farci vivere meglio, non peggio. Deve aiutarci ad essere più sereni, più
riposati, più umani, non più preoccupati (…) La terra è di tutti, l’aria è di
tutti, l’acqua è di tutti. Mangia pure la tua mela ma non sradicare l’albero;
dissetati pure alla fonte ma non avvelenare il pozzo; respira a pieni polmoni
l’aria cristallina e gioisci nel pensare che tuo figlio potrà fare lo stesso».
Don Patricello si fa portavoce della domanda dei bambini: «Ma perché gli adulti
maltrattano la Terra?». La risposta che ci fornisce a me pare, però, che sia fin
troppo semplice, persino autoconsolatoria: «Perché sono stupidi. Imbrogliano, rubano, confondono. Maltrattano, umiliano inquinano
l’ambiente per interessi personali o di camarilla (anche
politica). E vanno avanti finché la Terra non boccheggia, non cede, non si
lamenta e minaccia» (Nessuno resti a guardare, “Avvenire”, 28 febbraio 2019).
In verità
c’è qualcosa di più e di ancora peggiore del malanimo di singoli cinici
speculatori, delle bande di crudeli approfittatori e mafiosi, delle caste di
politici corrotti e così via delinquenzando. In realtà viviamo immersi in un sistema socio-economico che avvalora
l’avidità, l’arricchimento individuale, l’egoismo, il disinteresse verso
l’altro da sé. Questo è il normale ambiente culturale che plasma i
comportamenti e le relazioni sociali tra le persone, tra le persone e le cose e
l’ambiente naturale. In tutta onestà non credo che ognuno di noi sia
disinformato su dove va il mondo. Le televisioni e i giornali sono pieni di
immagini di orsi polari alla deriva sui ghiacci, di incendi e alluvioni che si
susseguono ad ogni cambio di stagione in California come in Australia, dei
prati senza api, delle primavere senza rondini (vi ricordate Silent Spring
della Rachel Carson?). E, se ce ne dimentichiamo, c’è sempre una piccola
svedese con le trecce sulle cover dei settimanali che ce lo ricorda.
Non credo
nemmeno che ognuno di noi sia così mediamente etimologicamente “deficiente” da
non saper collegare le catastrofi ambientali in corso con ciò che le
provoca. Produciamo, costruiamo, commerciamo, consumiamo sempre più carne
da allevamenti intensivi, telefonini e computer con il coltan estratto dalle
miniere congolesi, pentole antigraffio con i Pfas (gli acidi
perfluoroacrilici che troviamo nel sangue dei bambini in mezzo Veneto), treni ad alta velocità, aeroporti e grandi navi che sventrano
valli, pianure e lagune. Ci muoviamo, riscaldiamo e refrigeriamo le nostre case
per mezzo di combustibili fossili. Ci cibiamo di pizze condite con pomodori
raccolti da migranti alloggiati nelle tendopoli di San Ferdinando, Campobello
di Mazara, Gran Ghetto di San Severo… Ci vestiamo con indumenti confezionati
nelle sweatshop , fabbriche globali di Phnom Penh, Chongqing, Dacca… “Trattiamo”
decine di migliaia di schiave sessuali che allietano qualche milione di
abituali stupratori paganti (leggere: Stupro a pagamento. La verità sulla
prostituzione di Rachel Moran). Tutto ciò entra nel Pil e contribuisce al
benessere degli italiani e del capitalismo nel mondo.
3. Mezzi e fini
C’è una
sorta di dissociazione nel modo di pensare anche tra le persone più a modo e
socialmente impegnate. Una vecchia abitudine delle sinistre a concepire il
benessere materiale delle persone disgiuntamente dai mezzi e dai modi con cui
lo ottengono. Prima viene il reddito, la retribuzione, il denaro. Poi – forse –
tutto il resto. Vecchio retaggio del “salario variabile indipendente” che
avrebbe la forza di scardinare le compatibilità del sistema e aprire la strada
al pieno dispiegamento delle forze produttive. É stato detto molto giustamente
che uno dei limiti politici più gravi delle organizzazioni storiche del
movimento operaio è stata «l’indifferenza dei lavoratori nei confronti dei
valori d’uso da essi stessi prodotti». (Sergio Bologna in “Primo Maggio” del
1987, citato da Emanuele Leonardi nella introduzione a André Gorz, Ecologia e libertà). Si finisce per accettare lavori
privi di senso, di dignità, persino nocivi, semplicemente per ottenere un
reddito. Si è rinunciato così ad immaginare che l’esistenza potrebbe
essere meglio garantita lavorando diversamente. Applicando le competenze e
finalizzando il saper fare di ciascuno ad obiettivi di utilità sociale.
Organizzando la cooperazione sociale in modo da soddisfare i bisogni e i
desideri di ciascuno senza danneggiare nessun’altro.
Non nego
certo che i soldi contino per il nostro sostentamento. Un folgorante aforisma
di Woody Allen dice: «I soldi non fanno la felicità. Figurarsi non averli!». É
vero che siamo sempre più dipendenti dal denaro. Ma è proprio per questo motivo
che diventiamo sempre più prigionieri di un sistema che ci è estraneo,
fuori dal nostro controllo. Non sappiamo più autoprodurci un’insalata o un
vestito, aggiustarci una bicicletta o costruire un giocattolo. Non abbiamo più
il tempo per cucinare, per stare con i figli, per accudire i nostri vecchi.
Guardiamo Master Chef, ma compriamo precotto. Regaliamo di tutto, ma paghiamo
babysitter e badanti. Senza denaro non campi! Oggi più di ieri, con
lo smantellamento dei servizi di welfare universale, tutto è a pagamento.
Ma conta
anche come ci si procura il denaro necessario per vivere. Se per ottenerlo devi
umiliarti, perdere il controllo delle tue azioni, stressarti, metterti in competizione con il tuo compagno di lavoro,
ammalarti… qual è la contropartita che paghi in termini di perdita di
autostima, realizzazione personale, sviluppo delle capacità affettive e
creative? Se quei pochi soldi che riesci a racimolare li devi impegnare per
pagare i debiti di un salario che non arriva a fine mese, allora è chiaro che l’ansia
generata dalla perdita di status diventa incupimento, infelicità, cattiveria.
Diventiamo così facili prede degli imprenditori d’odio che occupano gli schermi
e i social.
Il degrado dell’ambiente, delle condizioni sociali e
psichiche sono facce dello stesso prisma. Conseguenze della perdita di senso cui è giunta
l’azione umana dentro l’ordine delle cose e i rapporti sociali capitalistici.
Caludia von Werlhof ci dice che il progetto distopico del «patriarcato moderno
chiamato capitalismo», con il suo delirio di onnipotenza sulle forze della
natura (il post e il tras-umanesimo), ci ha portati Nell’età del boomerang
(Edizioni Unicopli, 2014), il tempo in cui cominciamo a pagare i debiti
contratti con la biosfera e con le masse sterminate di persone escluse,
scartate, inutilizzate, superflue, “fuori mercato”.
4. La Chiesa e il dio mercato
Credo quindi che sia venuto il momento per
interrogarci francamente e apertamente sulle ragioni per cui tanti ammonimenti (come quelli degli scienziati dell’Ipcc), tanti bei
propositi (come quelli delle agende dell’Onu), tanti
accorati appelli (come quelli di papa Bergoglio) non stiano avendo alcuna
incidenza sui programmi dei governi, nel mondo scientifico accademico e nemmeno
nell’opinione pubblica. Perfino nella Chiesa! L’ultima
sconfortante conferma l’ho avuta leggendo “Oeconomicae et pecuniariae
quaestiones. Considerazioni per un discernimento etico circa alcuni aspetti
dell’attuale sistema economico-finanziario” della Congregazione per la Dottrina
della Fede e del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale,
pubblicato nel maggio dello scorso anno. Documento controfirmato dallo stesso
papa Francesco! Si tratta di una summa di politica economica che è in palese e
clamorosa contraddizione con la Laudato si’, ma in linea con la tradizione più
moderata della dottrina dell’Economia Civile (Zamagni, Bruni, Becchetti). Il
pamphlet si sforza di giustificare le magnifiche e progressive finalità di
tutti gli strumenti del mercato: denaro, profitto, impresa. Cito a salti. «In
linea di principio, tutte le dotazioni ed i mezzi di cui si avvalgono i mercati
per potenziare la loro capacità allocativa, purché non rivolti contro la
dignità della persona e non indifferenti al bene comune, sono moralmente
ammissibili». I mercati sono un «potente propulsore dell’economia» . E ancora:
«Anche il denaro è di per sé uno strumento buono, come molte cose di cui l’uomo
dispone: è un mezzo a disposizione della sua libertà e serve ad allargare le
sue possibilità». «Così anche la finanziarizzazione del mondo imprenditoriale,
consentendo alle imprese di accedere al denaro mediante l’ingresso nel mondo
della libera contrattazione della borsa, è di per sé positivo». «A tal
proposito, come non pensare all’insostituibile funzione sociale del credito».
La Congregazione giunge alla naturalizzazione del mercato
capitalistico: «Il mercato, grazie ai progressi della
globalizzazione e della digitalizzazione, può essere paragonato ad un grande
organismo, nelle cui vene scorrono, come linfa vitale, ingentissime quantità di
capitali. Prendendo a prestito quest’analogia possiamo dunque parlare anche di
una ‘sanità’ di tale organismo, quando i suoi mezzi ed apparati realizzano una
buona funzionalità del sistema, in cui crescita e diffusione della ricchezza vanno
di pari passo. Una sanità del sistema che dipende dalla sanità delle singole
azioni che vi vengono attuate. In presenza di una simile sanità del
sistema-mercato è più facile che siano rispettati e promossi anche la dignità
degli uomini ed il bene comune».
Dov’è finita la critica all’economia politica e il
messaggio lanciato da Bergoglio negli incontri (Roma 2014, Santa Cruz 2015,
Roma 2016) con i movimenti popolari sulle tre T (Trabajo, Techo, Tierra) quando
invitava i cristiani e non alla lotta per «aggredire le cause strutturali delle
iniquità»?In
definitiva, per la Congregazione della dottrina e della fede, così come – per
la verità – per la maggior parte delle organizzazioni sindacali e politiche,
non sarebbe la fisiologia del sistema di mercato a produrre i danni sociali e
ambientali che abbiamo sotto gli occhi, ma solamente alcune patologie provocate
dagli eccessi della finanza, dalla scarsa eticità di alcuni attori economici
colpevoli di “condotte immorali”e da regolatori pubblici “collusi”. La cura da
queste degenerazioni dovrebbe venire dall’introduzione di sistemi di
“responsabilità sociale dell’impresa”, dalla creazione di “Comitati etici, in
seno alle banche” da affiancare ai consigli di amministrazione, da controlli
pubblici “super partes”. Tutto ciò: «Perché anche il mercato, per funzionare
bene, ha bisogno di presupposti antropologici ed etici che da solo non è in
grado di darsi né di produrre». Rimaniamo nell’illusione della
possibilità di un capitalismo umanizzato, ben temperato, etico, sostenibile…
5. Market Democracy
Il solo
nuovo “protagonismo sociale” ammesso dall’ordine delle cose stabilito dal
mercato capitalistico è quello del consumatore. Non possiamo scegliere cosa,
dove, quanto, per chi produrre, ma ci è concesso (in via teorica) scegliere
cosa consumare. L’ordine democratico del totalitarismo di mercato è limitato al
“voto con il portafoglio”. Quello con la scheda elettorale non conta più nulla:
siamo nella Market Democracy. Possiamo condizionare le scelte di politica economica solo
entrando nel sistema dalla porta sul retro. Un progressivo slittamento dalla
“società dei produttori” a quella dei “consumatori”. Si sancisce
così la separazione e la bipartizazione all’interno dello stesso soggetto umano
tra produttore e consumatore. Una dissociazione tra homo faber e homo
consumens. Il lavoro è solo un mezzo qualsiasi per ottenere il denaro
necessario ad esaudire i nostri bisogni e desideri. É la logica del sistema che
attanaglia persino l’imprenditore. Scrive Roberto Esposito:
«Anche
il capitalista è asservito al dispositivo della valorizzazione secondo una
modalità che si autoalimenta. Egli è impegnato a valorizzare il valore nello
stesso modo in cui riproduce la produzione.» (R. Esposito, Le persone e le
cose, Einaudi 2014).
Già Marx
descriveva bene l’assoluta indifferenza del capitale verso il valore d’uso
delle merci, per il loro contenuto intrinseco: pane o
cannoni pari sono. Nella società capitalistica, l’impresa produttiva
è – non a caso – definita dagli ordinamenti giuridici “a responsabilità
limitata”. Etic free. La sua missione sociale
è specifica: produrre a costi e in tempi sempre minori una quantità sempre
maggiore di merci. La “domanda” diventa così l’oracolo sacro. Il consumo, nel
discorso corrente, diventa il Principe del sistema. Apparentemente si tratta di
un meccanismo impersonale, automatico, persino “naturale” (direbbe la
Congregazione della fede), in grado di equilibrarsi spontaneamente. I manuali
di economia insegnano che il mercato è in equilibrio generale quando i saggi di
sostituzione nell’uso di tutte le merci scambiate uguagliano le ragioni di
scambio (i prezzi e i costi) fra le merci.
In verità,
meno astrattamente, il sistema di mercato porta a produrre quelle merci per le
quali vi sono consumatori solvibili, buyers con un potere d’acquisto
sufficiente a remunerare i costi di produzione delle merci e i relativi utili.
L’importante è che la domanda solvibile cresca in continuazione. Cosa e quanto
produrre deve apparire come dipendente solo dalle “preferenze” del consumatore
solvibile. Si é così potuta affermare l’ideologia illusoria del consumatore
sovrano che sceglie ciò che vuole, comprese le sue preferenze etiche e
politiche, comprando una o l’altra merce, uno o l’altro servizio. In realtà –
come sostiene Zygmunt Bauman in Homo consumes,
Erickson 2007 – il consumo più che un atto di libertà, di autoaffermazione e di
piacere, è un atto obbligatorio e di sottomissione all’ordine sociale. È così
per alcune ragioni persino ovvie. I consumatori non sono tutti uguali e non
hanno lo stesso peso sul mercato. C’è chi è più solvibile di altri e chi non
riesce nemmeno ad entrare nel mercato. Un terzo della popolazione mondiale ne è
escluso e costituisce l’immenso esercito di riserva che serve a tenere dentro i
ristretti limiti della sussistenza il secondo terzo della popolazione mondiale
che lavora per fornire a buon mercato beni e servizi al rimanente terzo. Così,
in quest’ultimo segmento privilegiato dell’umanità (il terzo del mondo che
appartiene ai paesi più “sviluppati”) c’è chi riesce ad accumulare plusvalenze
e chi invece deve indebitarsi per far fronte alle proprie esigenze
vitali. Il gioco del libero mercato, quindi, non appiana
le differenze, ma aumenta le iniquità. Le disuguaglianze sono il motore del
mercato.
Come è facile immaginare, il relativo “potere dei
consumatori” è molto diversificato, dipende dal loro diverso potere d’acquisto. Chi ha più denaro da spendere è in
grado di influenzare e indirizzare l’offerta più di quanto non lo riesca a fare
chi non ha i denari necessari per soddisfare i propri bisogni elementari. I più poveri saranno sempre costretti a indirizzare le loro scelte
di consumo sulle merci più economiche che, con tutta probabilità, saranno anche
le più scadenti, le meno sane, con una maggiore impronta ecologica e un
maggiore carico di sfruttamento lungo la catena produttiva.
6. L’illusione della green economy
Se un
maggiore volume di merci prodotte e vendute non assicura – al contrario! – una
diminuzione delle sofferenze e delle ineguaglianze, è altrettanto vero che un
maggiore giro d’affari misurato in valore di scambio – calcolato su ogni scala
– non migliora affatto gli impatti ambientali dei sistemi produttivi
industrializzati. Questa è la seconda grande promessa mancata della serie di
“rivoluzioni industriali” succedutesi senza soluzioni di continuità nel
contesto dei sistemi economici dominati dal paradigma capitalistico. Il
miracolo del decupling (come abbiamo visto analizzando i bilanci dei flussi di
materia e di energia impegnate nei cicli produttivi e di consumo) non si è
ancora verificato. Non c’è stato alcun
“disaccoppiamento” tra crescita del valore monetario delle merci e diminuzione
degli impatti ambientali dovuto dall’introduzione di tecnologie green, dalla
miniaturizzazione dei macchinari, dalla efficientizzazione energetica, dalle
nanotecnologie, dal recupero e riciclaggio e così via. I
risparmi di materia, di energia e di lavoro che le nuove tecnologie
effettivamente consentono non vengono utilizzati dalla megamacchina produttiva per
ridurre il dispendio di risorse naturali e umane, ma per accrescere la
profittabilità dei capitali investiti. In quest’ottica le ragioni della
conservazione dell’ambiente non sono un fine in sé, ma solo una “opportunità”
per “rilanciare l’economia”, una occasione per sviluppare nuovi business e fare
profitti veicolando un immaginario accattivante. Da qui la proliferazione di
certificati, marchi, bollini green, bio, etici.
Le enormi spese bruciate in pubblicità (stimate a
livello mondiale tra i 500 e i 600 MLD di $ all’anno. 276 MLD di $ solo negli
Stati Uniti nel 2005) stanno a dimostrare una certa difficoltà a collocare le
mercanzie prodotte. Grazie ai
progressi tecnologici oggi è più facile (ed economico) produrre che vendere.
Così il “profitto più evoluto”, che si genera lungo la catena della produzione
del valore, è collocato nel marketing, nel branding, nel packaging, nella
ideazione del prodotto. La concorrenza tra le imprese nei mercati più redditizi
si combatte sempre di più sull’immagine simbolica del marchio, sul suo
“capitale di reputazione”. Oggi anche i fondi di investimento speculativi
cercano di accreditarsi come “sostenibili”. Per le grandi società sono entrate
in funzione le norme della Direttiva europea sul bilancio di sostenibilità (DNF,
Dichiarazione di carattere non finanziaria). Un report sugli aspetti ambientali
e sociali delle imprese.
L’idea di
ridurre l’impronta ecologia delle attività produttive creando un sistema di
incentivi a favore delle imprese che investono in tecnologie meno impattanti fu
messa a punto al tempo del Protocollo di Kyoto (1997), sullo schema del “cup and trading”. Le autorità pubbliche fissano quote
massime di inquinanti per ogni singola o gruppo di imprese e autorizzano il
loro commercio in appositi mercati: Emission Trading. La speranza era quella di
ridurre gradualmente le emissioni di anidride carbonica senza dover introdurre
drastiche “carbon tax”. I risultati delle strategie di mercato sono quelli che
conosciamo. La teoria messa a punto da sir William S. Jevons nel 1865 rimane
valida. A causa del paradossale effetto Rebulding «La resa
maggiore delle caldaie a vapore fa aumentare la loro utilità, quindi la loro
diffusione e i consumi totali di carbone». Sostituite le
caldaie a vapore con automobili, frigoriferi, centrali energetiche, macinini
del caffè… e – sull’altro capo del ciclo – sostituite il carbone con il
petrolio, il nucleare, il gas naturale, l’energia rinnovabile… e il risultato
non cambierà. Come ci ha insegnato Giorgio Nebbia, ogni centesimo che passa da
una tasca all’altra si porta inevitabilmente dietro un pezzo di materia. Se non
è il carbone sono le “terre rare”. Se non è l’uranio è il litio. Se non sono le
sementi è il genoma. Terra e lavoro continueranno ad essere i generatori di
qualsiasi processo economico.
Solo una cultura del limite e una accettazione del
sufficiente e del bastevole potrà farci rientrare dentro i confini della
sostenibilità. Non
basta una green economy, serve una green society. Ma siamo, appunto, fuori dai
paradigmi economici, sociali e antropologici del capitalismo. Alain Caillé,
nella Critica della ragione utilitaria ha scritto:
«Gli
uomini sono uomini prima di essere lavoratori e le società sono umane prima di
essere macchine per produrre».
Dovremmo
quindi cercare di costruire una umanità cosciente e responsabile delle proprie
azioni nell’arco di tutte le sue funzioni vitali, esigenze, pulsioni. Un
percorso di recupero delle libertà d’iniziativa di ogni individuo. Un processo
– certo non facile – di liberazione dai condizionamenti e dalla eterodirezione,
dalla sovraimposizione di un sistema tarato, perverso, autolesionista che ci
rende complici e ci degrada.
7. Prepariamoci
Liberarsi
dall’Idra dalle mille teste non è certo facile. Troppe
volte il capitalismo è stato dato per morto. Con fine ironia Giorgio
Ruffolo scrisse che Il capitalismo ha i secoli contati (Einaudi 2008). Tutto è
relativo, anche il tempo. Quanto dura l’affondamento del Titanic? Il tempo di
un film o quello di un amore? Quanto potrà ancora durare un
sistema economico basato sull’estrattivismo? Il
tempo della trasformazione di tutte le risorse in merci o quello della capacità
di sopportazione umana? Ha scritto l’economista Lorenzo Fioramonti, ora
sottosegretario pentastellato alla Pubblica Istruzione: «Il cambiamento può
avvenire rapidamente e in modo imprevedibile: per questo è così importante
avere sacche di sperimentazione che possano indicare la via da seguire quando
il sistema dominante crolla sotto il peso delle sue stesse inefficienze.» (L.
Fioramonti, Presi per il Pil, 2017).
Prepariamoci, dunque.
Riassettare il sistema è possibile solo se si cambiano
i criteri operativi alla radice. La sostenibilità sociale ed economica di cui parlano
gli scienziati, le agenzie dell’Onu e Bergoglio è raggiungibile solo
all’interno di un sistema di relazioni umane improntato sul riconoscimento dei
limiti naturali e sulla equa condivisione dei beni comuni della Terra tra tutti
gli esseri viventi, presenti e futuri. Nulla di meno che un criterio di vita e
politico etico ed ecologico, congiunto, inseparabile. Un’idea di società
ecologica ed equa, un orizzonte di senso, una “ecologia integrale”, come la
chiama Bergoglio. Ma per esserlo davvero deve trattarsi di un processo di
trasformazione non solo post-capitalista e anticlassista, ma anche
antirazzista, antispecista, non antropocentrico, non androcentrico. Un processo
di conversione e di rigenerazione ecologica, tanto economico, tecnologico e
sociale, quanto spirituale. Una presa in cura responsabile e amorevole della Terra.
Per riuscirci dobbiamo navigare a vista. Simone Weil (La persona e il sacro) ha scritto:
«Al di
sopra delle istituzioni destinate a proteggere il diritto, le persone, le
libertà democratiche, occorre inventarne altre destinate a discernere e abolire
tutto ciò che nella vita contemporanea schiaccia le anime sotto l’ingiustizia,
la menzogna e la bruttezza. Occorre inventarle, perché esse sono sconosciute,
ed è impossibile dubitare che siano indispensabili».
La distanza
tra questa esigenza e i documenti che abbiamo a disposizione è davvero
abissale.
8. Denunce parziali
Se le
denunce degli scienziati dell’Ipcc, i programmi di sviluppo sostenibile delle
Nazioni Unite, le encicliche di papa Francesco non producono cambiamenti
sociali e politici concretamente significativi c’è onestamente da chiedersi se
non vi siano in origine anche delle debolezze intrinseche e delle incoerenze
tali da rendere i messaggi lanciati così poco incisivi. A mio modo di vedere
sì. E la causa è la loro parzialità.
L’allarme
mediatico in corso concentrato quasi esclusivamente sui gas climalteranti
lascia intendere che sia possibile rientrare nei limiti di carico del Pianeta
attraverso l’introduzione di tecnologie più efficienti e sviluppando lo
sfruttamento su larga scala delle energie rinnovabili. Ci si affida così a megaprogetti di impianti eolici, geotermici e
solari a concentrazione come il Desertec in Libia e ora a TuNur
in Tunisia che coprono intere porzioni del Sahara e trasportano in Europa
tramite condotte sottomarine l’energia che serve. Spostare l’attenzione sui
ritrovati tecnologici (la geoingegneria) ha il vantaggio di non mettere mai in
discussione l’uso dell’energia che viene prodotta, dei materiali estratti e,
soprattutto, gli stili di vita nei paesi con più alti consumi.
Nel caso
dell’Agenda 2030 delle NU, così ricca e completa di indicatori universali di
benessere in ogni campo della vita umana e non, l’incongruenza che la rende
così poco credibile deriva dalla evanescenza del suo ultimo (il 17°) Target:
Rafforzare i mezzi di attuazione e rinnovare il partenariato mondiale per lo
sviluppo sostenibile. L’Obiettivo si limita a confermare le vecchie pratiche
dell’“aiuto allo sviluppo” dei paesi arretrati nel quadro del “sistema di
scambio universale” sotto il controllo dell’OMC. L’obiettivo da raggiungere
suona come una minaccia neocoloniale:
«incrementare considerevolmente le esportazioni dei paesi emergenti» al fine di
«raddoppiare entro il 2020 la quota delle loro esportazioni globali». Come?
Incoraggiando e promuovendo « partnership efficaci nel settore pubblico, tra
pubblico e privato e nella società civile basandosi sull’esperienza delle
partnership e sulla loro capacità di trovare risorse». Meno che zero.
9. La reticenza di Bergoglio
Ma anche
l’enciclica Laudato si’ non sembra arrivare al cuore profondo del problema
teorico della guarigione ecologica dell’animo umano investendo la dimensione
antropologica, filosofica e psicologica. E qui servirebbe non tanto un papa
ecologo, quanto un papa che sappia tradurre i principi dell’ecologia in deep teology.
Bergoglio
nella Laudato Si’ fa risalire la crisi ecologica del pianeta, alla rottura del
rapporto armonioso tra uomo e natura, alla rottura della comunione tra ogni
forma di vita. Gli esseri umani non si sentono parte della comunità biotica.
Bergoglio giunge a dire che la causa è un «eccesso di antropocentrismo»[§116],
un «antropocentrismo deviato» [§119]. Un eccesso, una deviazione, ma non
l’antropocentrismo in sé stesso! Bergoglio quindi non sposa – anzi tiene a
criticare – il pensiero dell’ecologia profonda (sostenuta da Arnè Naess, dalla
Deep Ecology, dagli ecofilosofi, dagli antropologi e antispecisti anarchici).
Ribadisce che «il pensiero cristiano rivendica per l’essere umano un peculiare
valore al di sopra [sottolineatura mia] delle altre creature» [§119], critica
la «divinizzazione della terra» [§9] e «non cede il passo al biocentrismo»
[§119]. Bergoglio non se la sente di recidere il nodo della traduzione giudaica
dei passi carichi di tragedie del libro della Genesi che
recitano così: «Facciamo l’uomo a norma della nostra immagine, come nostra
somiglianza, affinché possa dominare sui pesci del mare e sui volatili del
cielo, sul bestiame e sulle fiere della terra e su tutti i rettili che
strisciano sulla terra» [Genesi 1,26]. E ancora: «Siate fecondi e
moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare,
sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra»
[Genesi 1,28].
Scrive
Gianfranco Ravasi (Sole 24 ore del 3 aprile 2016): «In realtà i due verbi
ebraici usati contengono un significato più sfumato e persino suggestivo:
kabash – ‘soggiogare’ originariamente rimanda all’insediamento in un territorio
che deve essere esplorato e conquistato, mentre radah – ‘dominare’ è verbo del
pastore che guida il sue gregge». Ma nemmeno la teologia di papa Francesco
decide finalmente di scegliere che verbo usare! L’uomo (e nella storia sappiamo
bene che si tratta proprio di maschio, adulto, possidente…) rimane così ben
saldo al suo posto di comando, al vertice della piramide, destinatario ultimo
dell’universo di cui può disporre per volontà divina, l’incarnazione del potere
di Dio… seppur investito da qualche dovere di custodia del creato. Un
antropocentrismo un po’ mitigato che impedisce a Bergoglio di fare i conti fino in fondo con l’idea stessa di dominio e di
dominazione, di gerarchia e di potere, di violenza strutturale insita nei
sistemi umani gerarchizzati. (Detto tra parentesi: mi rendo
conto del paradosso di pretendere una critica al potere centralizzato dal capo
della più potente organizzazione mondiale maschile e patriarcale, piramidale e
fortemente burocratizzata! Ho letto un articolo di Antonietta Potente, una
teologa e missionaria che non riscontra nella Laudato si’ una novità teologica:
«Comincio
a dubitare che chi ha fatto i danni possa ripararli, per cui il creato salverà
noi e non viceversa. Il Creato significa il suo creatore» L’Altrapagina,
settembre 2015).
La reticenza di Bergoglio a scegliere un umanesimo non
antropocentrico rende il suo pensiero sulla “ecologia integrale”
contraddittorio e inefficace al fine di scalfire la base culturale stessa su
cui si erige il potere della tecnocrazia contemporanea. Le sue parole rimangono
petizioni morali, non mordono l’essenza della cultura occidentale che
giustifica violenza, predazione, dominio.
Mi viene in
aiuto Federico Squarcini (L’uomo perde i sensi, La
Lettura, del 6 gennaio 2018) quando ci ricorda che nelle tradizioni religiose
possiamo trovare sia le tracce di un uomo de-ecologizzato, separato dalla
natura (cita il Codice induista di Manu, due secoli prima di Cristo) che «non è
più in grado di controllare l’impatto sul mondo e perciò diventa distruttivo
(…) e si autodistrugge», sia all’opposto molta altra spiritualità ecologica (per
esempio lo Yogasutra, l’ecobuddismo fino a Pacha Mama).
A mio modo
di vedere, se non si arriva alla critica profonda del
pensiero antropocentrico è difficile uscire dalla logica di dominio che ha
portato l’umanità a dichiarare guerra alla natura. Poiché, scriveva
la teologa Rosemary Radford Ruether: «La guarigione ecologica è un processo
teologico e psichico-spirituale (…) Dobbiamo trasformare la nostra psiche
interiore e il modo in cui simboleggiamo le relazioni che intercorrono tra
uomini e donne, tra gli esseri umani e la terra, tra gli esseri umani e il
divino, tra il divino e la terra» (Gaia e Dio. Una teologia eco
femminista per la guarigione della terra, 1995). Ritengo – con tutta
la modestia del caso – che se Bergoglio non compirà questi salti, il suo
pensiero ecologico non riuscirà a fornire delle risposte credibili alle domande
dei credenti sempre più angosciati per il degrado del creato, ad aprire una
breccia nelle menti delle persone e quindi a “scandalizzare” la scena politica.
Salvini potrà beatamente continuare a snocciolare rosari e gli economisti della
Congregazione della fede potranno continuare a benedire la profittabilità delle
imprese.
L’aiuto che
potrebbe venire dalla teologia alla “conversione ecologica” (che è assieme: dei
mezzi e dello spirito) dovrebbe rischiare la sacralizzazione del creato. Riscoprire fino in fondo (non solo a metà) il pensiero di
Francesco d’Assisi lì dove ci dà una lezione di vera “economia
circolare” quando ci dice di amare i lupi e gli uccellini ma anche di laudare
“nostra morte corporale”. Se non si arriva a questo grado di consapevolezza, di
riconoscimento e venerazione dei cicli naturali della vita nella loro
integrità, finitezza e capacità di rigenerazione (Gaia: pianeta vivente,
macrorganismo capace di autoregolazione) non ci sarà mai rispetto, assunzione
di responsabilità, compiutezza gioiosa della vita. Non ho mai capito perché
nell’enciclica la parte finale del Cantico delle creature di Francesco d’Assisi
non è riportata.
(…) Laudato
si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra,
la quale ne
sustenta e governa,
et produce
diversi fructi con coloriti flori et herba
(…) Laudato
si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale,
da la quale
nullu homo vivente po’ skappare:
guai a
cquelli ke morrano ne le peccata mortali:
beati quilli
ke che se trovarà ne le tue sanctissime voluntati,
ka la morte
secunda no ‘l farrà male.
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