lunedì 11 marzo 2019

La nuova destra europea frena la lotta al riscaldamento globale - Marina Forti



Questo articolo nasce dal lavoro comune di un gruppo di giornali europei, Europe’s far right research network, in vista delle elezioni europee del 2019. Ne fanno parte, oltre a Internazionale, Falter (Austria), Gazeta Wyborcza (Polonia), Hvg (Ungheria), Libération (Francia) e Die Tageszeitung (Germania).

Sul finire di un inverno insolitamente tiepido su tutta l’Europa occidentale, bisogna chiedersi: l’Unione europea sarà in grado di fare la sua parte per contrastare il riscaldamento globale? Stiamo parlando dell’impegno a diminuire l’emissione di anidride carbonica e altri gas a effetto serra rilasciati dalle centrali termiche, dai motori, dalle industrie, dai sistemi di trasporti, dai cementifici di tutto il continente.
Nell’ambito degli accordi sottoscritti a Parigi nel 2015, l’Unione europea si è data l’obiettivo di diminuire del 40 per cento le sue emissioni entro il 2030. In pratica, significa accelerare la transizione alle energie rinnovabili per tagliare i consumi di combustibili fossili come petrolio, gas e carbone. Si tratta di indirizzi politici generali che riguardano i piani energetici e dei trasporti, le decisioni come quella di abbandonare il carbone o tassare i carburanti, gli incentivi per l’auto elettrica. Sono decisioni che dipendono in parte dai singoli paesi, e molto dall’Unione europea nel suo insieme. E dal Parlamento europeo, per cui voteremo a maggio.
I partiti della destra radicale sono l’incognita principale: quelli ultranazionalisti, antieuropeisti, per lo più antimmigrati, spesso antisistema che negli ultimi anni hanno guadagnato terreno in diversi paesi europei, ottenendo forti rappresentanze nei parlamenti nazionali e in alcuni casi andando anche al governo – come in Ungheria, in Austria, in Polonia e in Italia. Nell’ultima legislatura europea (2014-2019), i ventuno partiti della destra radicale avevano insieme quasi il 15 per cento dei seggi, la quota più alta degli ultimi trent’anni.

Verità convenienti
Questi partiti si sono per lo più opposti alle politiche per contrastare il cambiamento climatico: ma non tutti l’hanno fatto e soprattutto non con gli stessi argomenti. Ci sono quelli apertamente “negazionisti” o “scettici”, che negano o comunque mettono in dubbio l’impronta umana sul riscaldamento globale. Più spesso però le destre europee non citano affatto la questione del clima nei loro programmi, o l’affrontano solo in modo marginale, e senza prendere posizioni chiare – come si scopre dalla mappatura dei programmi delle estreme destre europee sul clima condotta da due ricercatori dell’istituto berlinese Adelphi (Convenient truths. Mapping climate agendas of right-wing populist parties in Europe, Berlino 2019). E ci sono perfino partiti dichiaratamente di estrema destra che sostengono la necessità di favorire la transizione energetica.
È decisamente “negazionista” il Freiheitliche partei österreichs (Partito austriaco della libertà, Fpö), dell’estrema destra nazionalista austriaca, che fa parte della coalizione di governo a Vienna: nei suoi documenti si legge che il cambiamento climatico è “propaganda”. Nel parlamento austriaco l’Fpö ha votato contro la ratifica degli accordi di Parigi sul clima. Sostiene che misure come la carbon tax (tassa sui combustibili fossili) avranno l’effetto di deindustrializzare l’Austria e tutta l’Europa. Soprattutto, sostiene che “il cambiamento del clima non deve diventare una giustificazione per concedere asilo, o l’Austria rischia di essere sommersa da milioni di rifugiati ambientali”.
Anche la tedesca Alternative für Deutschland (Alternativa per la Germania, Afd), antieuropeista e dai connotati di estrema destra, sostiene che “l’anidride carbonica non è una sostanza inquinante” e che il cambiamento climatico è un’invenzione. Si ispira alle posizioni dell’Europäisches Institut für Klima und Energie (Istituto europeo per il clima e l’energia, Eike), che attacca in modo sistematico la scienza del clima.
L’Afd e l’Fpö hanno alcuni riferimenti comuni. I rispettivi istituti di ricerca, l’austriaco Hayek institut e la tedesca Hayek Gesellschaft (entrambi intitolati all’economista Frederich von Hayek, considerato un capostipite della scuola liberista), sono affiliati all’Austrian economic centre, istituto privato che a sua volta mantiene stretti legami con alcune fondazioni della destra ultraconservatrice statunitense. Tra questi è particolarmente presente l’Heartland institute, un think-tank che negli Stati Uniti ha fatto attivamente lobby a difesa dell’industria del tabacco e, nel caso in questione, per dimostrare che non esiste un’impronta umana nel cambiamento climatico.
L’Heartland institute è finanziato tra gli altri dalle compagnie petrolifere Koch Industries ed ExxonMobil; a sua volta l’istituto da parte dell’Atlas network, una rete di fondazioni e istituti liberisti americani in cui troviamo anche il Cato institute e il Committee for a constructive tomorrow (Comitato per un domani costruttivo, Cfact, che tra i suoi finanziatori ha di nuovo la Koch Foundation, la ExxonMobile, la Chevron e la Chrysler). Citiamo queste sigle perché sia l’istituto Heartland sia l’Atlas network e gli altri sono spesso ospiti e partner di eventi organizzati dall’istituto Hayek, e viceversa. Insomma: l’estrema destra austriaca e quella tedesca hanno stretti legami con alcune tra le più note fondazioni dell’estrema destra americana, tutte finanziate dall’industria petrolifera, protagoniste di un’aggressiva azione di lobby contro le politiche sul clima.

Una questione di convenienza
Non tutti i partiti della destra europea però si oppongono alle politiche sul clima mettendone in dubbio la validità scientifica. Gli argomenti sono altri: per esempio che le energie rinnovabili pesano sulle bollette pagate dai cittadini. L’AfD osteggia la legge approvata in Germania per le energie rinnovabili sostenendo che sono “non competitive”, e quindi rappresentano un costo per l’economia nazionale e uno strumento per dare sussidi ad alcune lobby economiche.
Nella Repubblica Ceca, il partito Svoboda a přímá demokracie (Libertà e democrazia diretta, Spd) usa argomenti simili: ha coniato il termine “i baroni del solare”, per indicare le aziende che beneficiano delle sovvenzioni statali per le energie rinnovabili. In Francia, il Front national guidato da Marine Le Pen sostiene che la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul clima (Unfccc), da cui discende tutta la trattativa internazionale in materia, è “un complotto comunista” per limitare l’economia francese – anche se poi appoggia l’uso di energie rinnovabili generate in Francia per “diminuire la dipendenza dai paesi arabi del Golfo che insieme al petrolio ci mandano la loro ideologia”.

Altri sono contrari alla decisione europea di abbandonare il carbone in nome dei posti di lavoro: questione sensibile in Germania e soprattutto in Polonia, dove il carbone resta una parte importante dell’economia. Il partito Prawo i sprawiedliwość (Diritto e giustizia, Pis) del presidente Jarosław Kaczyński ha sempre difeso l’industria mineraria in nome del lavoro e della “indipendenza energetica” del paese (presunta, visto che la Polonia importa carbone dalla Russia), oltre che per mantenere la sua base di consenso tra i sindacati dei minatori (non stupisce che l’Heartland institute abbia cercato contatti proprio con i sindacati polacchi, come si apprende dal giornale della destra statunitense Breitbart).
L’Ungheria offre un inaspettato esempio opposto: la Magyar polgári szövetség (Alleanza civica ungherese, Fidesz, presieduta dall’attuale premier Viktor Orbán) è un partito autoritario noto per le posizioni violentemente xenofobe e antieuropee, ma sostiene che è necessario tagliare le emissioni di gas serra per limitare il cambiamento climatico.
Lo stesso vale in Lettonia per la Nacionālā apvienība (Alleanza nazionale, Na), di estrema destra e partner del governo in carica: sostiene che la transizione energetica favorirà il clima e l’innovazione tecnologica, facendone una questione di “nazionalismo energetico”. Si noti che Fidesz è al potere dal 2010 e l’Alleanza nazionale lettone dal 2011. E che entrambi i paesi, per come sono strutturate le rispettive economie, sono al di sotto della media europea per le emissioni di gas serra.

E l’Italia?
In Italia, la Lega di Salvini parla nel suo programma di transizione energetica e di economia sostenibile, ma finora ha contrastato le misure concrete sul cambiamento climatico. Al parlamento europeo nella scorsa legislatura ha votato contro tutte le proposte di politica energetica e sul clima, salvo una direttiva sul risparmio energetico nell’edilizia. Nel parlamento italiano la Lega si è astenuta dal ratificare gli accordi di Parigi: “Non perché non concorda con questi obiettivi, ma perché l’accordo raggiunto è un compromesso al ribasso … che permette alle aziende cinesi e dei paesi in via di sviluppo di fare concorrenza sleale alle imprese italiane in regola con produzioni rispettose dell’ambiente”, spiegava il deputato della Lega Gianluca Pini (nell’ottobre 2016).
Il fatto è che dichiarazioni di aperto rifiuto della scienza del clima in Italia sono per lo più marginali. Nell’aprile del 2009 il senato aveva approvato la mozione di un folto gruppo di esponenti di Forza Italia-Partito della libertà, che affermava l’incertezza scientifica e chiedeva di revocare gli accordi europei allora in vigore sul clima: ma accadeva dieci anni fa e la cosa è rimasta senza seguito. L’opposizione alle energie rinnovabili nel nostro paese non ha avuto bisogno di negare la scienza: “Il diktat di fermare a ogni costo le rinnovabili in Italia, cosa che è di fatto accaduta, è venuto dal settore del gas e sembra che sia ancora in vigore”, osserva Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace Italia.
Sta di fatto che la questione del clima non è una priorità per la Lega: salvo quando il vicepremier Matteo Salvini scriveva su Twitter (24 marzo 2018), che “non si può usare un argomento serio come il clima per legittimare l’immigrazione illegale”, in sintonia con il negazionismo dell’Fpö.
Tra i negazionisti a oltranza e i “protettori del clima” ci sono diverse sfumature. Uno dei più forti partiti della destra antieuropea oggi rappresentati al parlamento di Bruxelles, il danese Dansk folkeparti (Partito popolare, Df), nel suo programma non parla del cambiamento climatico, ma nei suoi comunicati nega che si possa attribuire con certezza alle attività umane. L’olandese Partij voor de vrijheid, (Partito della libertà, Pvv), noto per le posizioni fortemente antimusulmane e xenofobe del suo leader Geert Wilders, sostiene che non ci sono prove che il cambiamento del clima sia provocato dalle attività umane.
Il belga Vlaams belang (Interesse fiammingo, Vb), ultranazionalista e spesso apertamente razzista e antisemita, del clima non parla affatto. La greca Alba dorata, famosa per i suoi raid violenti contro gli immigrati stranieri, non parla di clima ma vuole aprire pozzi petroliferi in Grecia in nome del “nazionalismo energetico”. Forse, più che alle dichiarazioni di principio, bisogna guardare come hanno votato i ventuno partiti della destra radicale rappresentati nel parlamento europeo durante l’ultima legislatura.
Per lo più si sono opposti alle misure di politica energetica che potrebbero favorire la transizione alle energie rinnovabili. Hanno votato contro la ratifica degli accordi di Parigi sul clima (anche se non in modo compatto: otto si sono espressi a favore). Tutti hanno votato contro la direttiva sull’efficienza energetica, con la sola eccezione dell’ungherese Fidesz. Al dunque, la destra non è amica del clima.
Questo articolo nasce dal lavoro comune di un gruppo di giornali europei, Europe’s far right research network, in vista delle elezioni europee del 2019. Ne fanno parte, oltre a Internazionale, Falter (Austria), Gazeta Wyborcza (Polonia), Hvg (Ungheria), Libération (Francia) e Die Tageszeitung (Germania).

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