Venerdì 15 marzo milioni e milioni di studenti e
studentesse, in decine di migliaia di scuole di tutto il mondo, faranno
sciopero e riempiranno le strade di cortei. Ad essi si uniranno anche molte
altre cittadine e cittadini che ne condividono rabbia e obiettivi. La rabbia è di chi si vede rubato
il futuro dall’inerzia e dalla complicità delle classi dirigenti di tutti i
paesi del mondo, e soprattutto dai «signori della Terra»: quelli che gestiscono
economia e finanza a spese del nostro pianeta e di chi lo abita. L’obiettivo è
quello di far mettere la lotta contro i cambiamenti climatici al centro
dell’agenda di tutti i centri di potere, dai governi nazionali alle istituzioni
internazionali, dalle municipalità alle associazioni imprenditoriali, dai
sindacati alle cosiddette “forze politiche”.
È questo
obiettivo quello che, per ora, ha spinto migliaia di giovani a disertare le
lezioni per rispondere all’appello lanciato da Greta
Thunberg, la studentessa svedese che, decidendo di andare in piazza
invece che a scuola ogni venerdì (o giovedì come in Belgio), ha cominciato a
smuovere molte coscienze: per spingerle a salvaguardare condizioni di esistenza
e convivenza decenti non più solo, come si ripete nelle giaculatorie ufficiali,
per «le future generazioni». No. Già per la generazione che si affaccia alla
vita ora e che ha capito che con la nostra insipienza e la nostra inerzia
le stiamo preparando un vero inferno.
Da cui molti sono già stati inghiottiti: non si capirebbero altrimenti origini
e dimensioni delle migrazioni in corso,
che è ormai l’unico problema che preoccupa governi e forze politiche di mezzo
mondo, senza capire che si tratta di un effetto, non di una causa.
Mai uno
scontro generazionale si è prospettato più radicale. Se questo movimento di giovani
continuerà a crescere in dimensioni, radicalità e capacità di articolarsi in
programmi e iniziative, come è giusto e probabile che sia, sarà esso, e non le
forze politiche “di opposizione”, che continuano a rimestare sigle, personaggi
e programmi, a invertire e rovesciare le tendenze in atto che stanno
precipitando il mondo in un abisso di nazionalismi, razzismi, cinismo,
ignoranza e rassegnazione. Una deriva che non può essere contrastata
solo a livello nazionale, e nemmeno solo a livello europeo ma che ha bisogno
del mondo intero come palcoscenico: quello che il movimento messo in moto da
Greta Thunberg sta conquistando.
Per ora
questa “insorgenza” non ha ancora un programma che non sia la mera denuncia.
Denuncia che ha riscontri precisi in coloro, soprattutto scienziati, ma anche
“militanti” ambientalisti (non tutti; e nemmeno la maggioranza) che si
adoperano da decenni per far capire la gravità del problema a governi, media,
imprenditori, manager e, soprattutto, a una parte di “opinione pubblica”,
quella raggiungibile attraverso canali associativi, perché la maggioranza dei
cittadini, grazie a un vero e proprio tradimento degli addetti
all’informazione, è stata spinta a ignorarla, sottovalutarla, dimenticarla.
Ma se cause
e dinamiche dei cambiamenti climatici sono chiare e accessibili a chiunque se
ne voglia informare, le risposte da dare sono ancora avvolte nella nebbia.
Perché non c’è solo da abbandonare il più
presto possibile tutti i combustibili fossili e passare alle fonti rinnovabili. Quel cambio di rotta – lo ha
spiegato Naomi Klein nel suo libro Una rivoluzione ci salverà – richiede una dislocazione radicale del
potere dai centri di comando attuali alle comunità, in tutti i principali
settori della produzione e della gestione del territorio. Forme di autogoverno
ancora in gran parte da costruire o ricostituire, una democratizzazione
di tutte le istituzioni, non solo pubbliche, ma anche private: imprese,
corporation, finanza; per lo meno quelle al di sopra di una certa soglia
dimensionale. Per questo è inutile aspettare la green economy e prospettare la
conversione ecologica come un business. Se lo fosse, o lo potesse essere,
sarebbe già avvenuta.
Il problema è il “come?”. Come tradurre in programmi,
progetti, realizzazioni e gestioni democratiche le indicazioni che derivano
dalla dimostrata insostenibilità del modo attuale di condurre gli affari sia
economici che di governo? Qui,
con la lodevole eccezione di pochi tecnici che vi si cimentano e di moltissime
associazioni e comitati che hanno sviluppato esperienze esemplari, soprattutto
in campo agricolo e alimentare, gran pare del lavoro è ancora tutto da fare. Ma
da oggi si può cercare di farlo, in modo concreto, qui e ora, in un confronto
serrato con le giovani generazioni che hanno compreso l’importanza del
problema.
Questo dà la
misura della distanza della “politica”, sia di governo che di opposizione, dai
problemi che la nascita di questo movimento mette all’ordine del giorno. Cosa
ha a che fare questa insorgenza con lo schieramento compatto di partiti,
giornalisti, industriali, sindacati, ministri e portaborse che invece di
interessarsi di Greta Thunberg si sono messi al seguito delle sette madamine di Torino per
spiegarci che dal tunnel del Tav Torino-Lione (che forse entrerà in funzione
tra quindici anni, o forse mai) dipende il futuro della nazione, dello
“sviluppo”, dell’ambiente, del benessere? C’è forse qualcosa che possa mostrare
meglio di questa caduta in un delirio collettivo la distanza che separa
l’agenda delle nuove generazioni, e la sua impellenza, dall’ottusità di quelle
vecchie? Quelle che stanno trascinando tutti e tutto verso il baratro
ambientale, facendolo comunque precedere o accompagnare da un baratro non meno
devastante di identitarismo e di razzismo, anche se malamente mascherato
da qui
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