Partiamo dai fatti. Era il 1972 e una giovane Elvira
Banotti, nota femminista di origine eritrea, nella trasmissione
di Gianni Bisiach l’Ora della Verità, interroga Indro Montanelli in relazione
al suo matrimonio con Destà, bimba etiope che all’epoca aveva 12, forse 14
anni.
«In Europa si direbbe che lei ha violentato una bambina di 12 anni, quali
differenze crede che esistano di tipo biologico o psicologico in una bambina
africana?».
«In Abissinia funziona così», risponde lui. «Aveva 12 anni, ma non mi
prendere per un bruto: a 12 anni quelle lì sono già donne. […] Avevo bisogno di
una donna a quell’età. Me la comprò il mio sottufficiale insieme a un cavallo e
un fucile, in tutto 500 lire. […]. Lei era un animalino docile; ogni 15 giorni
mi raggiungeva ovunque fossi insieme alle mogli degli altri».
Il tema è sempre stato infuocato. Come spiega questo articolo del 2015, all’epoca della
guerra italo-etiopica «quel tipo di matrimonio era addirittura un contratto
pubblico, sollecitato dal responsabile del battaglione eritreo guidato da Indro
Montanelli», il quale, «non può essere certamente accusato di violenza o di
razzismo», perché questo avvenimento rientrava perfettamente nel costume di
guerra. Lo stesso Montanelli il 12 febbraio 2000 ricorda che:
«l’avventura etiopica, un po’ perché era un’avventura, e un po’ perché,
come tutti i giovani di allora, avevo nel sangue la Patria, l’Onore e il
lavaggio della cosiddetta onta di Adua, mi arruolai volontario e venni
assegnato ai reparti indigeni formati dagli Ascari eritrei».
Il racconto continua con il ricordo delle contrattazioni: ci vollero tre
giorni per decidere con il padre a quale prezzo comprare la piccola, che fu
acquistata infine per 350 lire, un prezzo stabilito al ribasso rispetto alle
500 lire richieste dal padre di lei, mentre altri 180 Montanelli li dovette
spendere per una capanna di fango e paglia. Il racconto illumina anche il
ricordo dell’intimità con la giovane Destà. «Faticai molto a superare il suo
odore, dovuto al sego di capra di cui erano intrisi i suoi capelli, e ancor più
a stabilire con lei un rapporto consensuale perché era fin dalla nascita
infibulata; il che, oltre a opporre ai miei desideri una barriera pressoché
insormontabile (ci volle, per demolirla, il brutale intervento della madre), la
rendeva del tutto insensibile».
Gli ingredienti per una critica feroce ci sono tutti. Ecco il giovane
volontario fascista, ardente nel cuore di patriottismo e avventura, così
Montanelli definiva la violenza coloniale, comprare una moglie, prenderla «in
leasing», dice lui, come si trattasse del noleggio di un’automobile, e
adattarsi alle sue limitazioni, l’infibulazione, che gli impedisce di usarla
liberamente per sfiatare i suoi ardori di guerrigliero, e l’odore della sua
pelle, per lui respingente. Va detto a rigor del vero che in quell’intervista
del 1972 l’assertiva Banotti per un istante riesce a far vacillare l’uomo tutto
d’un pezzo che era Montanelli, incapace di convincere la femminista
dell’innocenza di tutto questo. La storia d’altro canto ha a lungo ricordato la
condotta predatoria dei militari in guerra. Come ci hanno raccontato in seguito
scrittrici come Igiaba Scego, Gabriella Ghermandi e Francesca Melandri oppure
storiche come Gabriella Campassi, il matrimonio con giovani donne, o se
vogliamo lo stupro, era una specie di «bottino di guerra», dice Igiaba Scego, una ricompensa, se così
vogliamo dire, per lo sforzo di quei militari che si prendevano il disturbo di
andare a combattere lontano da casa, in nome dell’impero. Chiara Volpato, nel suo excursus sulla
violenza italiana nelle colonie ricorda per esempio Tertulliano Gandolfi
(1910), un operaio che nelle sue memorie d’Africa, ricorda di aver visto tanti
soldati approfittare di «fanciulli e fanciulle […] Una volta vidi in pieno
giorno un sotto-ufficiale trombettiere curvo, come una bestia in calore, sopra
un bimbo di circa otto anni, malaticcio, che non aveva altro che la pelle e
ossa, che lo stuprava». Nel periodo successivo, quando le leggi razziali
impediscono di accoppiarsi con le indigene, stupri e molestie aumentano ancor
più, scrive, tanto che Ladislav Sava, un medico ungherese che si trovava ad
Addis Abeba racconta di aver personalmente assistito alla «deportazione di
donne etiopi in case convertite con la forza dai militari italiani in
postriboli». Esiste una lunga storia di violenza nella storia del colonialismo
italiano e Montanelli non fa eccezione, è normale, come ci ricordano i
giornalisti che si sono lanciati in una agguerrita difesa del Principe del
giornalismo italiano. Dentro un contesto patriarcale e coloniale, tale
matrimonio era ed è non problematico, e come tale va trattato, come
un non problema, perché mettere in discussione la fruibilità sessuale di una
bimba di 12 anni è un attentato alla legittimità di uno dei padri della cultura
italiana.
Sono passati 47 anni da quel dibattito del 1972 e ancora oggi tutto questo
non è pacifico né pacificato. Lo dimostra il fatto che è bastata un po’ di
vernice rosa per incendiare una discussione che non accenna a scemare. Nella
stampa degli ultimi giorni, vi è stata una levata di scudi a favore di
Montanelli. Marco Travaglio ha criticato Non Una Di Meno dicendo, «avete
oltraggiato un morto che non può rispondervi». Luca Telese, facendosi scudo del suo posizionamento
(dichiarato) di sinistra e di essere stato cresciuto da una mamma femminista si
è detto costretto a «difendere Montanelli dai suoi rabbiosi detrattori» vista
«l’alluvione di commenti isterici, violenti e privi di qualsiasi prospettiva e
senso della storia che si sono abbattuti su di lui». Il perno delle difese sta
tutto in una cosa semplice, l’impossibilità, scrive Telese, di accusare
qualcuno di aver fatto ciò che all’epoca era normale.
È un’opinione legittima, ma non è questo il punto fondamentale. Il portato
storico in tutto questo è tanto importante quanto la sua attualità, perché solo
in un contesto ancora intriso di cultura patriarcale, coloniale e
proto-fascista, l’emergere di un’interpretazione femminista e anti-coloniale
della legittimità di quel bottino di guerra può essere
definita un oltraggio. È questo il dato più importante della discussione di
questi giorni, perché in tutti questi anni vi è stata non solo una continuità
di condotta in relazione alla libertà predatrice della sessualità
maschile, ma anche una continuità interpretativa. L’alzata di scudi
a difesa dell’ordine del discorso dominante nella cultura italiana, ci ricorda
che, per chi fa cultura oggi in Italia, esiste e può esistere una sola vittima
in quanto accaduto e non è Destà, ma Montanelli.
Lo spiegava Volpato, docente ordinaria di Psicologia Sociale all’Università
Bicocca di Milano, nell’articolo sopra menzionato, che la cosa più stupefacente
nella storia italiana non è l’assoluta continuità nella pratica della violenza,
nell’epoca coloniale, ma l’assoluta continuità dell’assordante silenzio che
l’accompagna, perché da allora a oggi il registro linguistico utilizzato per
occuparsi di violenza ha insistito sempre sull’empatia nei confronti del
carnefice e sulla colpevolezza della vittima. Riferendosi all’epoca coloniale,
Volpato si interroga sulle cause del disimpegno morale che scandisce il
discorso pubblico sul colonialismo italiano, e ne conclude che questo si serve
sempre di un linguaggio eufemisticoper impedire «la percezione
dell’immoralità delle azioni commesse», si serve della «minimizzazione del
ruolo dell’agente nel compimento delle violenze», per coprire stragi e
massacri, o della «rappresentazione delle vittime come esseri inferiori che
meritano ciò che viene loro inflitto»: ed ecco nuovamente comparire quei
demoni, quei diavoletti, quell’«animalino docile», per tornare a Montanelli,
che tenta di corrompere poveri uomini innocenti e illibati.
Rimando al testo di Volpato per una trattazione più attenta di ciascuna di
queste voci. Il punto, infatti, non è solo il portato storico di quanto
accaduto ma la continuità interpretativa con cui ancora guardiamo alla violenza
patriarcale e coloniale. Kate Manne aveva un nome per tutto questo, himpathy –
quel registro retorico che si fonda sull’empatia per gli autori maschili di
violenza sessuale. Lo abbiamo visto in tutto il periodo del #metoo, in cui ogni
accusa per stupro ci vedeva testimoni di un discorso pubblico interamente teso
a denigrare le vittime. Ecco ancora una volta la tentatrice, la peccatrice,
l’iper-sessuata, quell’animale sessualmente predatore che tutto farebbe per
corrompere un uomo innocente e illibato.
Questa narrazione, pensiamo solo ai titoli di certa stampa, ci porta
diretti a oggi, ricordandoci che l’opportunità di interpretare il mondo non è
mai stata nelle nostre mani. La parola subalterna, la parola delle donne non
bianche, delle persone trans, la parola delle persone con abilità altre, non è
mai diventata dominante, in Italia. Quando Telese inveisce contro la versione
rosa-pink della statua di Montanelli, ricorda sostanzialmente che
l’interpretazione della storia ancora oggi non spetta a noi. Esiste nell’Italia
contemporanea un presidio maschile e bianco in tutti i luoghi della cultura
dominante, dai giornali all’editoria, dalle televisioni alle università. Sembra
quasi una situazione di apartheid epistemico che si serve di
censure, distorsioni e trasfigurazioni per impedire di ripudiare le strutture
partiarcali e coloniali che presiedono la cultura dominante.
È dentro questo contesto culturale che giornalisti come Telese ci ricordano
che la parola subalterna non può scalfire l’ordine del discorso né
delegittimarlo. Ed è qui che si colloca la questione importante, perché se il
discorso pubblico italiano che non ha mai fatto i conti con le radici coloniali
della nostra storia, come è avvenuto, per esempio, negli Stati Uniti ai tempi
del civil rights, l’azione di Non Una di Meno Milano ha reso
manifesta in un sol gesto la violenza costitutiva della cultura italiana e ha
alzato quella cappa di omertà che regna sovrana da almeno quarant’anni. Ci sta,
a qualcuno non è piaciuto; temo dovranno farsene una ragione ugualmente.
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