Attenzione: questo articolo può urtare la sensibilità
di chi legge.
Qualche mese fa ho letto una storia che continuo a sognare tutte le notti.
Su cento mucche portate al mattatoio due sono incinte e sono uccise in stato di
gravidanza avanzata. La trasformazione immediata della mucca in capitale
(carne, pelle, ossa, sangue) è più vantaggiosa del costo che comporterebbe
aspettare che la mucca metta la mondo il vitellino e lo alimenti.
Nel momento del suo sacrificio il vitello è vivo nel suo ventre e spesso muore
solo quando la mucca è smembrata. L’articolo scientifico faceva notare che è
impossibile impedire le sofferenze del vitellino. Mentre la mucca, se è
sacrificata con un rituale non halal, riceve una scossa elettrica destinata a
stordirla durante il dissanguamento e l’uccisione (si badi bene, non parliamo
di una morte indolore), il vitello rimane pienamente consapevole della morte e
assiste quindi all’omicidio industriale della madre. La sua breve nascita è,
per così dire, provocata dalla morte della genitrice. Il figlio veglia su di
lei, contempla la sua morte ed è ucciso solo in seguito. La mucca è trasformata
in carne e prodotti derivati, il vitello invece è gettato nella spazzatura.
Nel mio cervello mentre dormo la storia si trasforma in incubo: in un
mattatoio, in locali che ricordano il cortile della scuola dove ho studiato,
viene sacrificata una mucca. E quando la carcassa è aperta, i macellai
ritrovano un vitello vivo che li osserva mentre lavorano. Sono testimone della
scena e voglio correre, per raccogliere il piccolo e non farlo cadere. Ma ne
sono incapace. Da sveglio questa immagine mi è tornata in mente diverse volte.
Questa mucca, mi dico quando mi alzo, potrebbe essere mia madre e questo
vitello potrei essere io.
Nascite
Dopo tutto l’essere umano e il bovino sono dei mammiferi placentati dotati di un sistema cognitivo complesso: sentiamo, vediamo, annusiamo, amiamo. Ho passato lunghi periodi della mia infanzia in un villaggio della Cantabria circondato da mucche che chiamavamo con il loro nome. Ho visto nascere diversi vitelli, caduti per terra dalla vagina della mucca come un pacco o uscire a poco a poco dal corpo della madre accovacciata, come degli speleologi che scoprono con meraviglia un altro mondo alla fine del tunnel.
Dopo tutto l’essere umano e il bovino sono dei mammiferi placentati dotati di un sistema cognitivo complesso: sentiamo, vediamo, annusiamo, amiamo. Ho passato lunghi periodi della mia infanzia in un villaggio della Cantabria circondato da mucche che chiamavamo con il loro nome. Ho visto nascere diversi vitelli, caduti per terra dalla vagina della mucca come un pacco o uscire a poco a poco dal corpo della madre accovacciata, come degli speleologi che scoprono con meraviglia un altro mondo alla fine del tunnel.
Ho visto la placenta attaccata al corpo della vacca come un impermeabile
rosa e umido dal quale il vitello esce per nascere. E ho visto vitelli rimanere
impigliati nella placenta come drag queen che inciampano sui loro boa rosa,
sulle loro zampe troppo lunghe e fragili come dei tacchi ai quali non sono
ancora abituati. Ogni sera quando mia zia mungeva una mucca le tenevo la coda.
Ognuna aveva il suo carattere, alcune erano gentili, altre aspettavano di
averti a distanza ravvicinata per colpirti con il collo. Talvolta mia zia
girava un capezzolo durante la mungitura e io aprivo la bocca per ricevere da
lontano uno schizzo di latte caldo che colava sulla mia lingua. Le gocce
schizzavano sul mio viso. Per giorni rimaneva sulla mia pelle l’odore acre del
latte mescolato al fieno del pascolo e ai peli di mucca.
Mi piaceva pulirgli gli occhi dalle mosche. Ero impressionato dalle loro
ciglia ricciolute e dalla loro lingua lunga come una mano che accarezza
un’altra mano. Ogni notte mia nonna e io scendevamo il viale della torre con
una caraffa piena di latte ancora caldo. Quando arrivavamo a casa, mia nonna
raccoglieva la crema rimasta sulla superficie del latte, la piegava come se
arrotolasse un guanto di lattice bianco e ne faceva un piccolo panetto di burro
a forma di mezzaluna.
Mi chiedo come e perché continuo a mangiare carne. Dopo essere stato
vegetariano per anni, ho ricominciato a mangiare carne di mammifero nel 2014
quando sono passato a una dose superiore di testosterone. Con una precisione
incredibile, quasi matematica, 18 ore dopo un’iniezione di 250 milligrammi di
testosterone cipionato il mio corpo vegetariano diventava un lupo per i mei
simili quadrupedi.
Io, che avevo sempre detestato la consistenza dei muscoli sotto i denti, mi
risvegliavo ossessionato dall’idea di divorare una bistecca. Il metabolismo del
testosterone nel corpo produce un litro di sangue in più con i suoi globuli
rossi e richiede quindi un supplemento di proteine. Ma in realtà non ho scuse,
perché esistono delle proteine vegetali.
Mangiare carne esige da me di ignorare tutto quello che so. Il black out
della mia memoria. L’oblio di quello che ho provato e imparato, in cambio di
una piccola comodità per il carnivoro al testosterone. La facilità di un gesto
commerciale. Questa distanza, questo antagonismo tra il sapere e l’agire, tra
la memoria e la proiezione del futuro, tra il sentimento e il desiderio, è la
condizione stessa della necropolitica. Non possiamo dire di non sapere. In
realtà sappiamo, conosciamo la realtà dei mattatoi. Conosciamo la realtà delle
frontiere. Vediamo ogni giorno quello che succede nel Mediterraneo. Vediamo
davanti a noi il verificarsi di questa ecatombe ecologica e politica. E
scegliamo di continuare a mangiare, di continuare a votare. Non ci sono scuse,
non ci può essere alcuna scusa.
Impariamo dal condor e dall’avvoltoio, da questi uccelli che culturalmente
abbiamo tanto disprezzato, probabilmente a causa del sentimento di colpevolezza
di fronte alla nostra capacità di sterminare e di distruggere. Impariamo a
collocarci al vertice della catena alimentare, non più come grandi predatori ma
come spazzini ecologici. Impariamo dalla pianta la sua capacità a rompere le
molecole di clorofilla con i raggi luminosi e a trasformare la materia
inorganica in organica. Impariamo dalle colonie di alberi che condividono e
distribuiscono l’acqua attraverso le loro radici. Impariamo dal verme che si
nutre di terra. Impariamo dalla macchina e dal suo modo di alimentare i suoi
circuiti attraverso l’energia solare. Cerchiamo di essere condor, avvoltoio,
pianta, albero, verme, macchina.
(Traduzione Andrea De Ritis
Questo articolo è uscito sul quotidiano francese Libération)
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