martedì 12 marzo 2019

Lo sciopero del consumo - Gianluca Carmosino


Ha fatto molto discutere a inizio gennaio la decisione del Birmingham Civil Rights Institute di revocare l’assegnazione del premio «Fred Shuttlesworth» ad Angela Davis. La ragione della revoca? Il suo sostegno offerto alla campagna Bds (Boicottaggio disinvestimento e sanzioni) per il boicottaggio di Israele. Evidentemente uno strumento come il boicottaggio, malgrado in questo caso sia nato da un appello della fragilissima società civile palestinese nel 2005 contro l’occupazione e l’apartheid israeliani, in determinati contesti è in grado di mettere in discussione equilibri di potere e narrazioni più di altre iniziative.
Lo sanno bene, tra gli altri, quelli di Adbusters promotori del Nothing Buy Day, la Giornata del non acquisto diffusa in oltre sessanta paesi, che viene festeggiata ogni anno nello stesso giorno del Black Friday. Adbusters nasce in Canada nel 1992 come periodico di critica della pubblicità («rivista per l’ambiente mentale», recita il sottotitolo), per poi diffondersi in molti paesi con il magazine omonimo e ovunque con il sito adbusters.org. Oggi è una rete globale di artisti e artiste, scrittori e «dissidenti culturali» che ha saputo mostrare i nessi tra critica del capitalismo, anticonsumismo e comunicazione indipendente. Da Adbusters è partito l’appello con cui è nata la mobilitazione di Occupy Wall Street nel settembre 2011.
Qualche anno fa i «grandi» media furono costretti a occuparsi di un altro boicottaggio (parzialmente vinto), quello rimbalzato su facebook, grazie a un gruppo di operaie, con le pagine «Boicotta Omsa», «Mai più Omsa» e «A piedi nudi! Io non compro Omsa e Golden Lady finché non riassumono». Decine di migliaia di donne si impegnarono, e resero pubblica la loro scelta, a non acquistare i marchi controllati dalla multinazionale delle calze, invaghita dei bassi costi del lavoro in Serbia.
Del resto gli strumenti a disposizione del movimento del consumo critico, che ha ormai quarant’anni di storia alle spalle ma che in fondo ha le sue origini nelle prime proteste dei lavoratori all’inizio della «rivoluzione industriale», sono di due tipi: le campagne di boicottaggio dei marchi che fanno capo a imprese che non rispettano la dignità dei lavoratori o dell’ambiente (storiche quelle contro la Dal Monte, la Nestlè, la Nike e quella denominata Abiti puliti, ancora in corso in diciassette paesi europei, contro le delocalizzazioni nel tessile e nel calzaturiero) e il cosiddetto «buycottaggio» (da to buy, acquistare), cioè indirizzare le preferenze dei cittadini consumatori verso prodotti che garantiscono clausole sociali favorevoli ai produttori. Nascono così i circuiti del commercio equo e solidale, i Gruppi di acquisto solidali, i mercati contadini a «chilometro zero», le giornate del baratto e del Buy Nothing.
Ha scritto Gustavo Duch: «Di fronte alle economie di morte, il boicottaggio diventa un gesto d’amore per la vita».

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