Ha fatto
molto discutere a inizio gennaio la decisione del Birmingham Civil Rights
Institute di revocare
l’assegnazione del premio «Fred Shuttlesworth» ad Angela Davis. La
ragione della revoca? Il suo sostegno offerto alla campagna Bds (Boicottaggio disinvestimento e
sanzioni) per il boicottaggio
di Israele. Evidentemente uno strumento come il boicottaggio, malgrado in
questo caso sia nato da un appello della fragilissima società civile palestinese
nel 2005 contro l’occupazione e l’apartheid israeliani, in determinati contesti è in grado di mettere
in discussione equilibri di potere e narrazioni più di altre iniziative.
Lo sanno
bene, tra gli altri, quelli di Adbusters
promotori del Nothing Buy Day, la Giornata del non acquisto diffusa in oltre
sessanta paesi, che viene festeggiata ogni anno nello stesso giorno del Black
Friday. Adbusters nasce in Canada nel 1992 come periodico di critica della
pubblicità («rivista per l’ambiente mentale», recita il sottotitolo), per poi
diffondersi in molti paesi con il magazine omonimo e ovunque con il sito
adbusters.org. Oggi è una
rete globale di artisti e artiste, scrittori e «dissidenti culturali» che ha
saputo mostrare i nessi tra critica del capitalismo, anticonsumismo e
comunicazione indipendente. Da Adbusters è partito l’appello con cui è
nata la mobilitazione di Occupy Wall Street nel settembre 2011.
Qualche anno
fa i «grandi» media furono costretti a occuparsi di un altro boicottaggio
(parzialmente vinto), quello rimbalzato su facebook, grazie a un gruppo di
operaie, con le pagine «Boicotta
Omsa», «Mai più Omsa» e «A piedi nudi! Io non compro Omsa e Golden
Lady finché non riassumono». Decine
di migliaia di donne si impegnarono, e resero pubblica la loro scelta, a non
acquistare i marchi controllati dalla multinazionale delle calze, invaghita dei
bassi costi del lavoro in Serbia.
Del resto
gli strumenti a disposizione del movimento del consumo critico, che ha ormai
quarant’anni di storia alle spalle ma che in fondo ha le sue origini nelle
prime proteste dei lavoratori all’inizio della «rivoluzione industriale», sono
di due tipi: le campagne di
boicottaggio dei marchi che fanno capo a imprese che non rispettano
la dignità dei lavoratori o dell’ambiente (storiche quelle contro la Dal Monte,
la Nestlè, la Nike e quella denominata Abiti puliti, ancora in corso in
diciassette paesi europei, contro le delocalizzazioni nel tessile e nel
calzaturiero) e il cosiddetto «buycottaggio» (da to buy, acquistare), cioè indirizzare
le preferenze dei cittadini consumatori verso prodotti che garantiscono
clausole sociali favorevoli ai produttori. Nascono così i circuiti
del commercio equo e solidale, i Gruppi di acquisto solidali,
i mercati contadini a «chilometro zero», le giornate del
baratto e del Buy Nothing.
Ha
scritto Gustavo
Duch: «Di fronte alle economie di morte, il boicottaggio diventa un
gesto d’amore per la vita».
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