A partire dall’analisi politica della questione “pastori sardi”, cerchiamo
di mettere in evidenza i problemi che impediscono, troppo spesso, un incontro
tra movimento antispecista e gran parte dell’area antagonista, con la
convinzione che si possano pensare rapporti più fecondi tra le diverse
lotte.
O, almeno, ci proviamo.
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Introduzione
Noi ci proviamo… non è il massimo iniziare così un articolo, ma siamo
consapevoli che stavolta sia necessario. E siamo altrettanto consapevoli che
molto probabilmente saremo attaccati da entrambi i fronti che vorremmo vedere
dialogare e lottare congiuntamente. Seppur con diversi gradi di rispettivo
coinvolgimento, apparteniamo infatti a due mondi attualmente separati ma che (a
nostro avviso) dovrebbero essere uniti: quello che definiamo qui genericamente
antagonista (composto da soggettività e istanze anticapitaliste, territoriali,
anarchiche, etc) e quello antispecista. Le nostre “bolle social” (che, volenti
o nolenti, strutturano ormai anche i dibattiti militanti) sono letteralmente
impazzite negli ultimi giorni, diventando schiave di una schizofrenia binaria:
da una parte l’indignazione antispecista per lo sfruttamento animale e l’enorme
spreco di latte da parte dei pastori sardi; dall’altra, l’indiscusso appoggio
da parte delle aree di movimento antagonista verso i pastori medesimi. Questo
articolo si propone di evidenziare le criticità di entrambe le posizioni.
Digressione: (nostra) definizione di antispecismo.
L’antispecismo è un movimento politico, basato su un impianto ideologico
che ripudia qualsiasi gerarchia e discriminazione in base a razza, genere,
stato sociale e specie. In sostanza, la sua specificità risiede nel non
accettare e non giustificare quello che per molti è perfettamente naturale: la
supremazia umana sul “non-umano”.
Pur condividendo questa base, il movimento antispecista non è unitario,
soprattutto sul piano strategico. Per semplificare diciamo che al suo interno
vi sono almeno due posizioni: una ritiene che questo movimento debba portare
avanti, in maniera specifica, gli interessi degli altri animali; l’altra invece
lega la questione animale ad altri temi politici di pari rilevanza
(anticapitalismo, antirazzismo, ecologismo, etc.). La prima persegue la
liberazione animale; la seconda la liberazione “totale” di animali umani e non.
Detto ciò, dobbiamo costatare che, presso la società civile, ma anche
(quasi sempre) presso ambienti antagonisti, l’antispecismo viene considerato,
quando va bene, come un “di più” politicamente irrilevante, un vezzo di anime
sensibili; quando va male (quasi sempre) addirittura dannoso.
Perché protestano i pastori sardi?
Innanzitutto, questa ondata di protesta non è una novità assoluta. Senza
avventurarci in (discutibili) paragoni con la vicenda “quote latte” che
interessò la Brianza alcuni anni fa, lo stesso Movimento dei Pastori Sardi è
stato protagonista di varie mobilitazioni, il cui picco fu toccato a inizio
anni Novanta, con una dura manifestazione durante la quale, fra l’altro, furono
lanciate pecore morte contro il palazzo della Regione Sardegna.
Oggi come ieri i pastori lamentano il basso prezzo a cui, in certi periodi
di calo della domanda, devono vendere il latte ai caseifici che lo trasformano
principalmente in Pecorino D.o.p.. Nei mesi scorsi si è verificata una drastica
contrazione della domanda di Pecorino dagli USA – principali acquirenti e
consumatori di un prodotto che anche in Italia ha subito da tempo un calo nelle
vendite – e una conseguente sovrapproduzione di latte. Ciò ha portato ad una
spirale di abbassamento dei prezzi, alimentata dall’accettazione da parte di
alcuni pastori di vendere il latte a prezzo più contenuto, per resistere alla
concorrenza di mercato. In sostanza si tratta di una crisi da sovrapproduzione.
Per far fronte a questa situazione, i pastori chiedono un intervento statale
che riporti il latte a un prezzo più congruo e valorizzi il loro lavoro. Le
misure proposte e negoziate con il ministero delle politiche agricole sono
state principalmente due: acquisto da parte del ministero delle eccedenze di
pecorino, e innalzamento del prezzo del latte a 1 euro al litro (dopo la
discesa a 60 centesimi delle ultime settimane).
E quindi?
E quindi, chi ha ragione? Da una parte vi sono gli antispecisti che
denunciano lo sfruttamento dei veri produttori del latte, gli animali da cui
questo prodotto viene estratto. Sinteticamente questa posizione, connotata da
varie sfumature, si divide in due filoni principali: coloro che ritengono i
pastori sfruttatori senza se e senza ma, e coloro che invece – pur restando
fermi su posizioni antispeciste e dunque attente allo sfruttamento animale –
individuano nei pastori stessi degli sfruttati. Ripetiamo: vi sono sfumature,
ma servirebbe un saggio per analizzarle; questa dicotomia è funzionale allo
spazio di un articolo. Dall’altra parte vi sono gli ambienti di movimento
antagonista (oltre alla quasi totalità della politica e della “società civile”)
che appoggiano unilateralmente le richieste dei pastori.
A nostro avviso entrambe le posizioni soffrono di alcune debolezze.
Partiamo dagli antispecisti.
L’errore sostanziale di molti antispecisti è di voler prendere una
posizione netta contro i pastori, in quanto soggetti che sfruttano in maniera
diretta gli altri animali. I rapporti di forza all’interno di questa società infatti
sono distribuiti in maniera disuguale e i pastori, seppur sfruttatori, sono
comunque degli sfruttati. In una controversia come questa, in cui la questione
animale sparisce completamente dalla sensibilità e dall’attenzione pubblica –
tanto è forte la retorica del pastore sardo sfruttato come un Davide di fronte
a Golia – l’approccio più politicamente avanzato del movimento antispecista sta
nel richiamare l’attenzione al fatto che esista un altro Davide ancor più
subordinato del primo. Questo, lo diciamo en passant, è un punto
delicato: l’incrociodi più assi di potere, per cui su alcuni assi un soggetto è
uno sfruttato mentre su altri è ritenuto un privilegiato è un’acquisizione
dell’approccio intersezionale che gli stessi antagonisti applicano, ma (quasi)
sempre soltanto in ambito umano.
Per i più, in una situazione come quella riguardante il costo del latte,
non si pone altra questione che non sia lo sfruttamento lavorativo dei pastori
sardi. Fanno bene dunque gli antispecisti a rendere presente l’assente: a
indicare che il latte, prima di essere una merce, è vita altrui sottoposta a
sfruttamento e prodotta come “vita a buon mercato” dal sistema capitalista. Ma
fanno male quando non vedono che anche il lavoro del pastore è prodotto come
“lavoro a buon mercato” dal medesimo sistema.
L’errore è quindi di prospettiva: considerare l’uno senza considerare
l’altro.
Un errore speculare lo commettono i movimenti antagonisti che prendono in
considerazione solo lo sfruttamento dei pastori, non considerando minimamente
lo sfruttamento animale. Questo posizionamento, dichiaratamente
antropocentrico, li rende più affini (lo diciamo con estrema amarezza) a un
Salvini – che in un suo recente post non ha mancato di criticare i vegani come
nemici dei pastori, e quindi del popolo – che a un militante antispecista.
Siamo consapevoli dell’attuale distanza di gran parte del mondo antagonista
rispetto all’accoglienza di una prospettiva antispecista. La questione si pone
da anni, e non di rado alcune formulazioni teoriche hanno trovato delle
convergenze. Lo scoglio, tuttavia, si ha quando la formulazione teorica viene
calata nelle lotte effettive. Anche in questo caso sarebbe necessario un saggio
per dipanare l’argomento[1]; ci limitiamo a dire che, se da una parte
è ingenua la pretesa che ad oggi le istanze antispeciste siano accolte senza
problemi dai movimenti antagonisti, dall’altra lo è la pretesa di ridurre
l’antispecismo a presa di posizione etica, quando non a semplice “zoofilia”. In
altri termini: un conto (un conto sbagliato, secondo noi, ma quantomeno
“comprensibile”) è dire: “sono più importanti i pastori”; un altro conto è
dire: “dato che sono più importanti i pastori, anche tu compagno/a antispecista,
dovresti momentaneamente lasciar perdere la questione dello sfruttamento
animale”. Lo abbiamo letto, e oltre a trovarlo irrispettoso nei confronti degli
animali, lo troviamo nefasto in una minima ottica intersezionale.
Un altro errore che abbiamo notato in molti discorsi “pro pastori” riguarda
la rappresentazione “neocoloniale” sia della Sardegna, vista come terra poco
civilizzata, matrice di valori autentici, sia dei pastori dipinti come dei
“buoni selvaggi” che proteggono le sacre tradizioni avite: un’immagine
simbolicamente violenta e politicamente discutibile. Lo scontro tra pastori
sardi e politica, infatti, è uno scontro totalmente “contemporaneo”, legato a
problemi di mercato (gli squilibri tra domanda e offerta). Ed è uno scontro
corporativo, non di sistema: la loro richiesta è che Stato e Regione – quindi
la fiscalità generale – intervengano economicamente per comperare le eccedenze
di latte invenduto, riportando così il prezzo del latte a un livello
accettabile. Non è una lotta di classe, né una “ribellione”, ma è una semplice
richiesta – fatta in modo un po’ spettacolare – di sostegno economico che si
esaurirà una volta raggiunto il proprio obiettivo riformista.
E pensiamo anche che la diatriba sarà risolta in tempi brevi, viste le
imminenti elezioni regionali in Sardegna, di domenica 24 febbraio. Il modo in
cui è stata trattata la questione degli aiuti pubblici ai pastori giocherà un
ruolo non marginale nella distribuzione dei voti. E, fra tutti i partiti, la
Lega è quello che saprà probabilmente capitalizzare al meglio questa
situazione. Mentre scriviamo, le trattative fra governo e pastori sono in pieno
svolgimento: l’ultima proposta dei pastori sardi uniti parla di un innalzamento
del prezzo a 80 centesimi da subito (dopo la proposta fatta una settimana fa
dal ministro Centinaio di arrivare a 72 centesimi) e di un aumento a 1 euro
prima di fine stagione. Inoltre, Coldiretti ha speso parole di apprezzamento
per l’impegno profuso dalla Lega nel risolvere la vertenza: un endorsement di
un certo peso.
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