mercoledì 27 febbraio 2019

Pastori sardi non buttate il latte - intervista a Gavino Ledda


«I pastori hanno ragione ma la loro protesta è in parte sbagliata. Il latte non si butta: con tutti i poveri che ci sono…. Meglio sarebbe allora cercare di bloccare le elezioni presentandosi davanti ai seggi con le roncole: non per usarle, no, ma per farsi arrestare». È un fiume in piena Gavino Ledda, e si capisce: la protesta dei pastori sardi esasperati dal prezzo troppo basso del latte lo ha riportato alla giovinezza passata facendo il pastore, e raccontata nel famosissimo romanzo autobiografico “Padre padrone”.

Non pensa che queste elezioni possano aiutare a risolvere la crisi? 
«Non serviranno a niente, con i politici che ci ritroviamo. E non parlo solo della Sardegna: anche quelli di Montecitorio - Salvini, Di Maio, il presidente Conte che ora viene qui a cercare voti - quando parlano di pastorizia e di agricoltura non sanno quello che dicono. E non hanno neanche l’intelligenza di scegliersi consulenti che ci capiscano di agraria».

Buttare il latte è servito ad attirare l’attenzione sull’industria casearia che lo paga 60 centesimi al litro. Ma com’è nata questa situazione? 
«È un problema che è nato già negli anni Cinquanta, quando facevo il pastore io. E e a risolverlo non basteranno i soldi che si otterranno con le proteste. Il primo problema è dentro l’ovile: il pastore dovrebbe avere 100, 150 pecore. Invece oggi c’è chi ne ha tremila, ci sono capitalisti della pecora. Si sono fatti contagiare dal petrolchimico, sono diventati pastori alla Rovelli».

Cosa vuol dire? 
«Negli anni Sessanta a Ottana e a Porto Torres sono state costruite industrie chimiche, di Nino Rovelli e altri, che hanno portato all’isola pochi benefici e molti danni. Era un tentativo maldestro e malsano di eliminare le pecore e di intrappolare i pastori: un po’ quello che gli americani hanno cercato di fare con gli indiani, uccidendo i bisonti. Con la complicità di molti politici sardi, gli industriali hanno pensato di procurarsi un serbatoio di forza lavoro da spremere nelle fabbriche. E molti sardi ci sono cascati: si sono liberati dalle pecore e sono diventati servi nelle industrie. Alla fine la pecora ha vinto sulla petrolchimica, per fortuna. Ma una quantità di terreni sono stati abbandonati. Molti ex pastori hanno cercato lavoro all’estero, altri sono tornati a occuparsi di pecore nel Lazio o in Toscana».

E le aziende che producono il formaggio che colpe hanno? Il pecorino “romano”, un prodotto sardo Dop, è un successo mondiale. Sembra assurdo che chi fa il latte abbia guadagni ridotti all’osso. 
«Finora ho parlato dei mali interni all’ovile che hanno causato la crisi. Ma ci sono anche mali esterni, non meno importanti. Questo è il primo. Sull’isola ci sono tre grandi caseifici che hanno sempre fatto il bello e il cattivo tempo. Avranno pure aiutato i pastori in periodi di difficoltà, negli anni passati. Ma oggi gli rendono la vita impossibile. Va bene fare il pecorino che richiede il mercato, ma le aziende devono anche fare altri formaggi. E i pastori devono tornare a farlo come si faceva un tempo, sporcandosi le mani. Quando sono passato da Thiesi e ho visto i pastori che bloccavano la strada e che buttavano il latte nel ruscello sono rimasto sconvolto. Le proteste mi hanno colto di sorpresa perché negli ultimi mesi ho vissuto fuori, ero sul set di un film di Salvatore Mereu, “Assandira”. Quando sono tornato a casa ho continuato a concentrarmi sul personaggio che interpreto: a dimenticare di essere Gavino Ledda per diventare Costantino Saru. Ma quel giorno ho visto il latte buttato via, una cosa che non avevo mai visto nei miei ottant’anni di vita. Ho sentito belare le pecore e mi sono ricordato di essere Gavino Ledda. Ho capito che quella non era una crisi improvvisa, ma una situazione che peggiora da anni. E che finora si è cercato di risolvere mettendo toppe che sono servite solo a bucare i pantaloni».

La Regione potrebbe fare di più? 
«La Regione fa solo danni. Da quindici anni interviene dando soldi, 20 euro l’anno per pecora, con i fondi della comunità europea, e questo spinge i pastori ad accumulare animali, quando dovrebbero occuparsene con cura, come ho fatto io nei miei quindici anni di vita da pastore. Molti pastori oggi sono scansafatiche, scaricano il latte nei caseifici e vanno al bar a bersi quello che hanno guadagnato. La Regione invece dovrebbe studiare come inventare la pastorizia del Tremila. E come conciliarla la cultura del Tremila con la soluzione vera, che sta nel ritorno alla tradizione, all’ovile omerico».

Omerico, addirittura? 
«Al massimo possiamo arrivare a Leonardo da Vinci... È l’ovile che ho conosciuto io, ed è quello che garantisce la qualità del latte sardo: un ettaro di terra ogni cinque pecore, la rotazione delle coltivazioni e del pascolo. Pastorizia e agricoltura devono andare di pari passo. In questo modo avremo famiglie autosufficienti, che non producono solo latte e non hanno bisogno di spendere per mangimi canadesi, e pecore trattate con amore. Perchè lasciatelo dire a me che sono stato pastore ma sono anche un poeta: se mungi la pecora malvolentieri, il latte viene cattivo».

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