È nato
in Libia da una madre che ha cercato di togliersi la vita dopo il parto.
Salvata da un miracolo di passaggio l’ha in seguito chiamato Bilal perché è
nato al settimo mese. Salvato
dalle acque, del mare Mediterraneo porta solo l’allusione. Bilal è un nome
arabo che significa ‘acqua e freschezza’. Sua madre vive adesso a Niamey,
assieme ad altre centinaia di rifugiati che le prigioni libiche detenevano
torturando. A quattordici anni era fuggita dall’Etiopia, con
un’amica di sedici, dopo aver perso tutto in patria. Già nel vicino Sudan
avevano subito ricatti e violenze senza fine da parte di ‘passeurs’
criminali. Nel viaggio verso la
Libia l’amica muore e lei, raggiunto il Paese, scopre di essere incinta. La
creatura di sabbia nasce al settimo mese e lei cerca di togliersi la vita. La
salva Bilal, nome che significa ‘acqua e freschezza’. Per ora la sua casa è a
Niamey. Una casa di sabbia, precaria come la sua vita, grazie al
servizio delle Nazioni Unite per i Rifugiati, che ha come simbolo due mani a
forma di casa. Bilal, con sua madre, abita proprio sotto quelle due mani di
acqua fresca.
Dovete capire
che nessuno mette i figli su una barca
a meno che l’acqua non sia più sicura
della terra
(Versi
tratti da HOME di Warsan Shire, poetessa
britannica, nata in Kenya ma di origine somala)
Nel
Sudan un gruppo di ribelli brucia il villaggio dove abitava coi suoi genitori.
Riescono a raggiungere la Libia e solo dopo alcuni mesi di trattative si
imbarcano per l’Italia. Mentre già
intravvedono la costa il gommone cola a picco e lui saluta i suoi genitori per
l’ultima volta. Salvato, contro la sua volontà, è affidato alle guardie
costiere libiche che lo torturano in uno dei numerosi campi di detenzione. Ha
sedici anni e vorrebbe almeno la foto dei suoi genitori. Non gli serve
vivere, continua a ripetere, guarda la sabbia e pensa al mare dove vorrebbe
tornare per rimanere con loro.
Nessuno lascia casa sua
se non quando essa diventa una voce
sudaticcia
che ti mormora all’orecchio vattene
scappatene da me adesso
non so cosa io sia diventata
ma so che qualsiasi altro posto è più
sicuro di qui…
(Da HOME)
Il Niger da Paese di passaggio a Paese d’asilo.
Entrambi di sabbia, come la casa e la vita di centinaia di sopravvissuti ai
‘lager’ libici finanziati dall’Europa. Ospitati in 22 case gestite da una ONG
italiana per conto delle Nazioni Unite, passano il tempo a rimettere insieme i
granelli di sabbia che le ferite hanno buttato lontano. Quando possono, si ricordano che da
qualche parte c’è una vita che li aspetta. Sono stati portati in aereo a
Niamey dopo mesi o anni di indagini e ricerche tra le migliaia di migranti e
rifugiati presi come ostaggio nella Libia ricca di petrolio e di gas per
l‘Occidente. Si proteggono, fino dove è possibile, i pozzi e i terminali di
petrolio e nel frattempo si lascia sparire chi è giunto in Libia per imparare a
vivere. In cambio si addestrano le guardie costiere libiche per arrestare i
naufraghi.
E a nessuno verrebbe di lasciare la
propria casa
a meno che non sia stata lei a inseguirti
fino all’ultima sponda
a meno che casa tua non ti abbia detto
affretta il passo
lasciati i panni dietro
striscia nel deserto
sguazza gli oceani
annega
salvati
fatti fame
chiedi l’elemosina
dimentica la tua dignità
la tua sopravvivenza è più importante
Il recente rapporto di Human Rights Watch lo attesta
una volta di più. Si stima che in Libia si trovino circa 700 mila migranti e
richiedenti asilo. Tra questi oltre 60 mila sono bambini, come Bilal, che
portano acqua fresca al deserto. Coloro che sono ‘catturati’ nel mare e riportati
in Libia sono imprigionati e sottoposti a condizioni di vita disumane. Battuti,
violentati, ricattati e messi ai lavori forzati per mesi. C’è chi sparisce per
sempre senza lasciare traccia, neppure il nome per il vento.
Nessuno lascia casa sua a meno che non sia
proprio lei a scacciarlo…
Per i Bilal di Niamey, a 40 Km dalla città, hanno
iniziato la costruzione della ‘città della pace’ accanto al villaggio di Hamdallaye, nome che
significa ‘Lode di Dio’. Un Dio, c’è da giurarlo, di sabbia.
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