La notizia, così come è data, è una di quelle che allargano il cuore,
almeno di coloro che negli immigrati non vedono nemici da cui difendersi,
ma umani in difficoltà meritevoli di solidarietà : tre di loro hanno iniziato
una nuova vita, assunti da un imprenditore in un paesino della Calabria,
all’interno della Sila: fanno i macellai.
Si tratta di tre giovani africani,
arrivati da paesi dannati per violenza e povertà (Nigeria, Sierra Leone, Guinea
Bissau) con viaggi divenuti drammaticamente usuali, segnati dal deserto e poi
da anni di una prigionia fatta da torture irriferibili quale unica cifra della
relazione con i potenti e i prepotenti del luogo, e infine un tutt’altro che
scontato salvataggio in mare. L’assunzione ( a tempo indeterminato !!!) è un
epilogo insperato, del quale il datore di lavoro e i suoi concittadini rivendicano
orgogliosi l’iniziativa generosa e i tre immigrati considerano una opportunità,
che riverbera sull’Italia e gli italiani sentimenti di apprezzamento e
gratitudine.
Lieto fine quindi? Forse, ma anche
qualche riflessione un po’ più molesta, stimolata dall’associazione con realtà
analoghe, più in grande stile, ma di segno davvero simile, considerato che il
lavoro di cui si parla contempla il portare a termine “quasi tutto il ciclo
della produzione”: in altri termini, la macellazione degli animali.
L’associazione è con la notizia di un paio di anni fa, proveniente dal Canada,
dove il ministro federale dell’occupazione pensò di assumere rifugiati
siriani nei macelli della federazione, in risposta alla non
disponibilità dei cittadini canadesi, pur afflitti da una crescente
disoccupazione, ad accettare un lavoro basato sull’uccidere animali e lavorare
le loro carni. Per quanto riguarda l’assunzione dei tre ragazzi, ci si chiede
come mai, in una terra come la Calabria, gravata da indici di disoccupazione
alle stelle, quei posti non risultassero già occupati da cittadini
italiani.
Spesso il lavoro non lo si può scegliere
e, quando si è in reale difficoltà, tanti sono i compromessi che si è disposti
ad accettare: ma ciononostante, e pure in periodi di crisi conclamata, quello
del macellaio conserva evidentemente la forza respingente che ha sempre portato
con sé, fin dall’antichità: lavoro fondamentale visto il grande apprezzamento
della carne, come alimento; e lavoro “onesto”, visto che non trasgredisce norma
alcuna. Malgrado tutto ciò, lavoro connotato da un disprezzo non espresso a
parole, ma nei fatti, tanto forte da assumere una chiara valenza sociale,
che lo vede riservato da sempre agli schiavi o, in mancanza, agli
strati più miseri della popolazione. Non molto è cambiato nella sostanza nel
corso di secoli e millenni: ancora oggi in India a svolgerlo rimangono i paria,
sopravvissuti nei fatti alla propria eliminazione legale quale casta reietta;
negli Stati Uniti lo fanno spesso gli immigrati clandestini, provenienti dal
Messico, senza diritti e senza riconoscimenti, e di conseguenza facilmente
ricattabili. In Canada il ricorso agli immigrati esce dalle pieghe del
sottobosco illegale ed assume i risvolti di una proposta strutturata, colorata
dalle sfumature dell’accoglienza. In Australia si ricorda l’iniziativa di
instradare i carcerati al lavoro di macellaio, in preparazione a quello futuro,
da esercitare nel mondo libero una volta scontata la pena[1].
Una tale omogeneità di atteggiamenti,
sparsa per i continenti, non può certo essere casuale: di fatto quella nei
macelli è rimasta attività negletta, a causa delle pesanti
condizioni in cui viene effettuata e dei salari tutt’altro che appetibili, ma
anche per la connotazione tossica che mantiene, e ancora di più per quello che
a volte è lo sconquasso psichico che il lavorarci dentro comporta: si tratta di
stare a contatto con la morte violenta di esseri senzienti per la durata della
giornata lavorativa, pungolarli ad avanzare nel terrore verso la propria morte,
indifferenti alle loro urla disperate che pure invadono le orecchie, agire su
di loro con una brutalità, che è parte integrante, imprescindibile, del lavoro
stesso: sangue, vomito e feci intorno.
Lo svolgimento della vita di umani e
nonumani nei macelli è denunciata nella sua insopportabile
durezza da almeno un secolo, da quando il libro The jungle[2] (Upton
Sinclair, 1906) ne portò allo scoperto tutto l’orrore: significativo che le
reazioni sdegnate che ne seguirono furono innescate molto più dallo
scandalo per le terribili condizioni igieniche, foriere di possibili
conseguenze per gli umani, che dall’indignazione per il trattamento
degli animali.
Ancora oggi, pur sulla scorta di
un’accresciuta sensibilità nei confronti degli animali, a smuovere le coscienze
nei confronti della realtà dei mattatoi non sempre è la loro difesa: non è
raro, infatti, che le inchieste siano seguite solo da una
sorta di denuncia sindacale, per la violazione dei diritti dei lavoratori: come
se fossero solo questi i diritti violati. Denuncia sindacale che comunque resta
imperfetta, incapace com’è di mettere a fuoco, tra i tanti rischi e i fattori
patogeni di cui i lavoratori sono vittima, il peso psichico, le ricadute
sull’emotività, l’incidenza negativa su aspetti della
personalità, tutti elementi che talora si strutturano in vere e
proprie patologie psichiche, che restano ancora escluse dal
focus della salute sul lavoro.
A questa omissione dovrebbe ormai essere
posto rimedio data l’esistenza di studi che hanno inquadrato con un
nome e dato diritto di riconoscimento al forte disagio, che può derivare
dall’essere perpetratore in prima persona di una violenza reiterata, legale o
meno che sia: si tratta di un disordine psichico, il “trauma del perpetratore”
(PITS, Perpetration-Induced Traumatic Stress), conseguente alla partecipazione
diretta ad uccisioni di massa, che si manifesta con sintomi quali depressione,
dissociazione, paranoia, ansietà, panico, abuso di sostanze, incubi violenti.
Se primi oggetti di studio sono state le situazioni caratterizzate da vittime
umane, le stesse dinamiche sono ormai riconosciute anche nei contesti in cui le
vittime sono animali; tipico il caso, per esempio, di veterinari indotti a
procurare la morte di molti soggetti sani, per esempio in risposta ad una
“superproduzione”, un eccesso di individui, scomodi al “sistema”. In altri
termini, uccidere a ripetizione può traumatizzare chi lo fa: anche se si tratta
di Animali.
Approfondire la situazione nei macelli,
luoghi gravati da “ambiguità morale” secondo le parole della sociologa
australiana Nik Taylor, fino a riconoscerne la potenziale essenza patogena per
i lavoratori, potrebbe avere conseguenze davvero grandi.
La vita dannata al loro interno è
testimoniata, oltre che dai filmati clandestini, dalla letteratura, per sua
stessa natura in grado di vivificarne la rappresentazione con la costruzione di
personaggi che ne portano in sé la drammatica complessità. E’ il caso della brasiliana
Ana Paula Maia con il suo “Di uomini e di bestie”[3],
libro in cui il mattatoio emerge come luogo oscuro e maleodorante e i
lavoratori come bastardi “nessunizzati”, calati in una catena di morte che
uccide decine o centinaia di animali al giorno, per pochi centesimi
ognuno volendo fare i conti. Per loro ogni giorno è dramma; qualcuno è parte
così incistata nel meccanismo violento delle uccisioni da prolungare
artatamente la sofferenza delle vittime per gustare il piacere perverso che ne
deriva; qualcuno è emotivamente anestetizzato, incapace di modulare
le proprie reazioni a seconda che abbatta un bue nel mattatoio o
invece un motore in un’officina; qualcuno restituisce
alla volontà divina la responsabilità del lavoro sporco che gli tocca fare a
beneficio di altri, che non ci stanno a svolgerlo. Chi possiede una
capacità empatica che dilata nel suo petto la sofferenza di ogni animale come
fosse propria, incanala la sua protesta nel ruolo di giustiziere e
ripropone contro un compagno di lavoro sadico lo stesso gesto con cui stordisce
ogni animale: spaccandogli la testa, senza esitazione e senza rimorsi, perché
lui si che se lo è meritato, non come i buoi dagli occhi neri e profondi che
cercano inutilmente il suo aiuto dall’ingiustizia o le pecore, che si
inginocchiano e piangono quando muoiono. Lì dentro uomini e animali respirano
lo stesso odore della morte, gli uni e gli altri vittime: ma solo gli animali
davvero innocenti, perchè “gli uomini delle bestie” sono al tempo stesso anche
carnefici, per sempre contaminati dal sangue.
Per tornare alla notizia di apertura:
per quanto non siano disponibili dati statistici sulla provenienza dei
lavoratori nei macelli italiani, gli stranieri sono di certo molti, in alcuni
casi, come pare nel macello di via Treves a Torino, addirittura la totalità
degli assunti. Se il lavoro di macellare gli animali sta
progressivamente diventando appannaggio di immigrati, bisogna
aggiungere un’ulteriore riflessione: chi arriva da terre di guerra, sangue,
morte e sopraffazione, immesso in un luogo di
altro sangue, altre morti e altre sopraffazioni, è
condannato a rivivere in forma diversa le tragedie da cui ha tentato
di fuggire: passare dal ruolo di vittima a quello di carnefice non esenta dalla
immersione in un inferno di sofferenza, quando forse nelle speranze e nei
progetti vi erano pace e solidarietà.
E’ il tempo di vedere i mattatoi per
quello che sono, luoghi di violenza, fucine di brutalità, destabilizzanti per loro
stessa natura. La risposta, se vogliamo restare umani, non è riservarli a chi
sta peggio: è tempo di chiuderli, perché, diceva Guido Ceronetti, “per quanta
giustizia possa esserci in una città, basterà la presenza del mattatoio a farne
una figlia della maledizione”.
[1] Programma
“Sentenced to a Job” del Governo del Territorio del Nord del continente
australiano.
[2] Upton Sinclair: “The jungle”, Net, Milano 2003.
[3] Ana Paula Maia:
“Di uomini e di bestie” , La nuova frontiera 2016
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