Con una sentenza definitiva emessa lo scorso maggio, il Consiglio di Stato ha posto la parola fine al ricorso della Regione Sardegna contro il cosiddetto “DPCM Draghi” del 2022. Ovvero il decreto del Presidente del Consiglio, in sé un atto amministrativo, che aveva come scopo quello di individuare le infrastrutture necessarie per la sicurezza energetica e per il superamento del carbone sull’isola. La Regione Sardegna aveva presentato un ricorso contro il decreto, lamentando l’assenza di un vero confronto con il territorio e chiedendo maggiori garanzie su perequazione tariffaria e centralità nelle scelte energetiche. Tuttavia, i giudici hanno stabilito che non serve alcun accordo con le Regioni per decidere su opere di questo tipo, persino quando hanno impatti diretti sul territorio e sulle comunità locali. Un pronunciamento atteso oramai da tempo, che sblocca formalmente l’iter per un nuovo DPCM, ma che di fatto conferma una linea politica ed energetica che ha ben poco a che vedere con la decarbonizzazione.
La nuova bozza in circolazione non mostra alcun cambio di rotta: sparisce
solo una delle tre navi rigassificatrici previste (quella di Portovesme),
mentre restano intatti gli altri impianti: una FSRU a Porto Torres, un’altra a
Oristano e la cosiddetta “mini dorsale”, una rete di metanodotti che
collegherebbe Oristano con il Sulcis. A gestire tutto sarà Snam, con pieni
poteri su progettazione, realizzazione e gestione delle opere.
Durante l’assemblea degli azionisti dello
scorsomaggio, Snam ha dichiarato apertamente di non essere
promotrice della metanizzazione in Sardegna, ma una semplice esecutrice su
richiesta di governo, Regione e industrie. Una presa di distanza che suona
tanto come una clausola di non responsabilità. Un atteggiamento che appare
ancora più problematico se si considera che l’azienda trae profitti garantiti
grazie al meccanismo del “ricavo remunerato” sugli investimenti nelle
infrastrutture, che gli assicurerà guadagni anche se l’infrastruttura dovesse
rivelarsi inutile. Il ricavo remunerato è il guadagno che
un operatore come Snam ottiene dalle sue attività regolamentate, come il
trasporto, lo stoccaggio e la rigassificazione del gas. Questo ricavo viene
stabilito dall’ autorità di regolazione, che in Italia è denominata ARERA, e
serve a coprire i costi operativi degli investimenti e a garantire un
rendimento. Non a caso, Snam ha chiaramente ammesso di non aver mai
prodotto una propria stima sulla domanda di gas in Sardegna. Si è limitata a
citare vecchi e oramai obsoleti studi di RSE, che già nel 2022 prediligevano
l’elettrificazione dell’isola piuttosto che il gas. Snam si defila, ma in ogni
caso incassa e nessuno ci sa dire a cosa servirà quel gas.
Il tassello
mancante per ricostruire la fotografia attuale è Fiume Santo. Al centro del
piano gas nel nord Sardegna c’è infatti l’omonima centrale a Porto Torres,
impianto a carbone oggi attivo solo al 50% della propria capacità, di proprietà
di EP Produzione, società del gruppo EPH controllato dall’oligarca ceco Daniel
Křetínský. Già nel 2021 EP aveva proposto la riconversione a gas della
centrale, poi messa in stand-by con lo scoppio della crisi
energetica e i costi elevatissimi del gas. Oggi il progetto è tornato in pista
ed è stata riaperta la valutazione d’impatto ambientale. Qui emerge la grande
contraddizione: si parla di rigassificatori e gasdotti prima ancora di sapere se
e quando la centrale verrà riconvertita. Se Fiume Santo non diventerà una
centrale a gas, l’intera infrastruttura a nord dell’isola rischia di restare
un’opera vuota e doppiamente insensata.
Le motivazioni avanzate per giustificare la costruzione di queste
infrastrutture, ovvero la sicurezza energetica, l’indipendenza dal gas estero e
il rilancio dell’industria sarda, non reggono. La centrale di Fiume Santo, per
esempio, non è nemmeno considerata strategica dal piano europeo RepowerEU per
la sicurezza energetica, mentre l’Italia dispone già di una sovrabbondante
capacità installata a gas e continua paradossalmente a investirci nonostante la
domanda nazionale sia in costante calo.
In questo
contesto, approvare nuove infrastrutture fossili in Sardegna significa
incatenare l’isola a una dipendenza strutturale dal gas, proprio mentre il
mercato globale, si fa sempre più instabile. Altro che indipendenza e
autonomia, si rischia di consegnare la Sardegna a una vulnerabilità energetica
ancora maggiore, basata su importazioni di GNL la cui filiera è inquinante,
costosa e incerta. I costi non saranno solo economici, ma anche sociali e
ambientali.
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