giovedì 20 novembre 2025

Elogio del tempo lungo, ovvero la lezione dello sport - Patrizio Pacifico

 

Viviamo in un’epoca che ha smarrito la lentezza. Una società che misura tutto in secondi, che pretende risultati prima ancora di iniziare, che confonde la velocità con la competenza e l’urgenza con il valore. Un’epoca in cui ogni gesto deve produrre un ritorno immediato, un effetto visibile, una gratificazione istantanea. Anche lo sport, che per secoli è stato scuola di tempo, di limite e di pazienza, ne è stato travolto. Lo sport del sacrificio – quello che non promette successo ma forma caratteri – è diventato un linguaggio minoritario, quasi incomprensibile. Eppure, mai come oggi ne avremmo bisogno. Ci sono sport che non illudono, che non fanno sconti. Il canottaggio, il pugilato, il ciclismo, la pallanuoto. Sport dove la vittoria è un evento raro, e la sconfitta una compagna quotidiana. Sport che non si praticano per apparire, ma per imparare a resistere. Dove la gloria dura un istante e la fatica occupa tutto il resto. Lì, tra il silenzio dell’acqua, il rumore di un sacco, il respiro che brucia in una salita, sopravvive un’idea antica: che il valore non stia nel traguardo, ma nel percorso. Che la conquista non sia il premio, ma la possibilità stessa di tentare. Che la dignità non nasca dal talento, ma dal lavoro.

Viviamo in un tempo che teme la fatica come se fosse un errore di progettazione. Il corpo deve essere efficiente, mai stanco. La mente produttiva, mai annoiata. L’attesa è uno scandalo, la costanza una virtù inutile. Ma lo sport, quello vero, si fonda proprio su ciò che la nostra epoca rifiuta: la ripetizione, la disciplina, la lentezza, la noia, la sconfitta. È un paradosso: nella società dell’accelerazione, lo sport è rimasto l’unico luogo dove il tempo torna umano. Dove il progresso si misura in giorni, mesi, anni. Dove ogni gesto è un tentativo di domare il proprio limite, non di eliminarlo. Non è colpa dei giovani se faticano a comprendere questo linguaggio. Li abbiamo educati all’istantaneità, alla logica del risultato, all’idea che ogni desiderio debba avere una soddisfazione immediata. Ma lo sport di sacrificio non si presta a questo schema. È una grammatica dura, fatta di verbi lenti: attendere, ripetere, sopportare, migliorare. È la pedagogia del tempo lungo. E come ogni pedagogia, chiede fiducia. Fiducia nel processo, nel corpo, nel domani. In un mondo che non crede più nel domani, lo sport rimane uno degli ultimi atti di fede laica. Il canottiere che rema nel buio, il ciclista che sale da solo, il pugile che si allena in silenzio, il pallanuotista che ripete lo stesso gesto mille volte: tutti compiono lo stesso rito. Non cercano la vittoria, ma la misura. Cercano il punto esatto in cui la volontà incontra il limite. È lì, in quell’incontro, che nasce l’etica dello sport. Non l’eroismo del vincitore, ma la dignità di chi insiste. Non la retorica del sacrificio, ma la consapevolezza che nulla di vero si costruisce senza sforzo. La fatica non è punizione: è il linguaggio con cui il corpo insegna alla mente la misura delle cose.

Il successo, nel mondo contemporaneo, è spettacolo; la perseveranza, invece, è silenzio. Eppure è nel silenzio che si forma la coscienza. Lo sport non è solo competizione, ma educazione. Non all’obbedienza, ma al rigore. Non alla violenza, ma alla responsabilità. È l’unico spazio in cui il corpo torna ad avere un valore politico, perché insegna la conseguenza. Ogni errore ha un peso, ogni progresso ha un costo, ogni scelta comporta una rinuncia. È una scuola di realtà in un mondo che vive di apparenze.

Il sacrificio sportivo, oggi, è una forma di resistenzaNon è nostalgia, è ribellione. È l’atto di chi decide di dedicare tempo a qualcosa che non produce profitto, visibilità o consenso. È una dichiarazione contro la cultura del risultato, contro l’idea che solo ciò che serve valga. È la difesa di un modo di esistere che non si misura in performance, ma in profondità. Lo sport di fatica è politico proprio perché non ha scorciatoie. È un’educazione alla complessità, un addestramento alla libertà. Perché solo chi ha conosciuto la disciplina può comprendere il senso della libertà.

Ogni atleta lo sa: l’avversario non è un nemico, ma una condizione. Senza avversario, non esiste crescita. Senza fatica, non esiste misura. Lo sport insegna a convivere con il limite, non a cancellarlo. E in questo è più democratico di qualsiasi ideologia: perché restituisce a ciascuno la stessa regola, lo stesso campo, la stessa possibilità di sbagliare. Lì, nell’equilibrio tra forza e fragilità, si costruisce l’etica del corpo e quella della cittadinanza. Chi impara a perdere impara anche a comprendere. Chi impara a sopportare impara anche a rispettare. Chi accetta il tempo lungo dello sport accetta la lentezza della democrazia. Forse è proprio questo che rende lo sport di sacrificio tanto distante dal nostro presente: è un esercizio di attesa. E l’attesa, oggi, è rivoluzionaria. Viviamo nell’immediatezza del gesto, dell’opinione, dell’emozione. Ma senza lentezza non esiste profondità. Senza fatica non esiste libertà. Senza tempo non esiste senso.

Non basta correre. Bisogna sapere dove si va. Non basta vincere. Bisogna capire cosa si è vinto. Non basta allenarsi. Bisogna imparare a resistere. Lo sport non è la negazione della fatica: è la sua educazione. La vittoria non è il traguardo: è la conseguenza. Il sacrificio non è il prezzo: è il significato. E forse, in un mondo che ha smarrito il tempo, l’unica vera rivoluzione è imparare di nuovo ad aspettare.

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