“Questo discorso è vittimista”.
Quando si
parla di rappresentazione, stereotipi o discriminazione sistemica delle persone
sarde, arriva puntuale qualche persona che esorta a “finirla di fare la
vittima”; a “prenderla con più leggerezza”.
Qualcuno ha addirittura diagnosticato una “sindrome da vittimismo”.
La
rivendicazione delle persone sarde della propria identità secondo il principio
dell’alterità, ma anche la denuncia di discriminazioni subite, suscitano
talvolta atteggiamenti come rigetto, ridicolizzazione, fastidio. Si tende a
ridurla a un separatismo “sterile”, volto alla chiusura, al ripiegamento su di
sé, al complottismo, al vittimismo.
Da dove nasce l’accusa di vittimismo?
Chi la usa, magari anche senza rendersene conto, vuole davvero confrontarsi?
O vuole ristabilire una dinamica di potere decidendo chi può parlare e con
quale autorità?
Funziona più
o meno così:
- si trasforma una richiesta di
riconoscimento in un capriccio emotivo;
- si fa apparire chi denuncia un
torto come moralmente debole o
eccessivamente sensibile;
- adottando una prospettiva
moralistica, si sposta l’attenzione dal contenuto alla persona, rendendo
quest’ultima meno credibile perché esagera.
Non è più
una rivendicazione, ma un comportamento stigmatizzabile come una polemica
sterile. I soliti che si lamentano senza dare soluzioni.
È un
meccanismo sottile ed efficace, che consente alla cultura dominante di
mantenere il proprio privilegio. L’esperienza reale di discriminazione viene
distorta, condizionando la percezione pubblica della denuncia e di chi la
rivendica.
“È colpa dei sardi”. La vittimizzazione secondaria.
Quando chi
subisce un sopruso o dichiara di subire una violenza (non necessariamente
fisica) finisce per essere colpevolizzato si parla di vittimizzazione secondaria.
Accade ogni volta che una persona, dopo aver denunciato un torto, si sente
giudicata o ridicolizzata per averlo fatto.
Bollare una
denuncia di sopruso, una protesta, una critica ai modelli culturali dominanti
come vittimismo, permette a chi detiene il potere, alla cultura egemone, di
silenziare le istanze e di mantenere il proprio privilegio, evitando il
confronto in cui li si chiama alla responsabilità.
La
vittimizzazione secondaria comporta, per chi è oggetto di una discriminazione o
una violenza (fisica o non), ulteriori danni psicologici, emotivi o sociali a
causa delle reazioni di istituzioni, media o individui che la colpevolizzano.
Questo
meccanismo non è casuale. Michel
Foucault ci insegna che il potere, in quanto dominio, riproduce se stesso in contesti differenti,
impiegando apparati, strategie e meccanismi di controllo analoghi.
L’accusa di
vittimismo funziona proprio come un meccanismo di smantellamento simbolico delle rivendicazioni, impedendone
il riconoscimento e ostacolandone la legittimità.
La minorizzazione della Sardegna non
è un’invenzione di stampo vittimistico del popolo sardo.
La
parola “minorizzato”, traduzione dall’inglese minoritized, evidenzia il modo in
cui i gruppi egemoni possono assegnare lo status di minoranza ad altri non
dominanti, anche quando non rappresentano una minoranza numerica.
(“Scrivi e lascia vivere”, Alice Orrù, Valentina Di Michele e Andrea Fiacchi).
La cultura
sarda, quindi, rappresenta una realtà minoritaria se vista in un contesto allargato e secondo una
prospettiva esterna: da un punto di vista interno, però, si può definire minorizzata dallo stato italiano,
dalla cultura dominante. La quale stabilisce i criteri di legittimazione, di
solito il folklore, l’intrattenimento, la soddisfazione dell’interesse per il
peculiare e l’esotico. Al di fuori
di questi steccati, mette in atto ogni meccanismo utile a ricordarci che la
nostra ammissibilità, il prestigio guadagnato, il riconoscimento, dipendono
dalla nostra integrazione nel contesto italiano. Dalla fedeltà al
modello dominante che dimostriamo. La nostra cittadinanza è una e una soltanto:
si è legittimati nella misura in cui si parla l’italiano, ci si comporta
e si pensa come tali.
Un po’ di leggerezza! E fattela una risata! Siete
permalosi.
In risposta alla critica della rappresentazione stereotipata della sardità come
qualcosa che può essere scimmiottato nell’accento o esotizzato, ci si sente
dire di “prenderla con leggerezza”. Queste frasi sono ricorrenti nelle
dinamiche di oppressioni di genere, di razza, classe, abiliste, e così via.
Il segno più
sottile del potere è la capacità di condizionare il nostro modo di vedere il
mondo: quando, cioè, riesce a convincerci che la reazione davanti alla riproposizione
di un immaginario e di uno sguardo coloniali sulla Sardegna, per esempio non è valida. È un’esagerazione.
E per farlo fa leva su ulteriori stereotipi. Come quello della permalosità, declinato in varie accezioni.
Così si
alimenta un sistema di privilegi e oppressioni che non ha più bisogno di
discriminare apertamente. Non solo chi è escluso dal potere non protesta per la
sua condizione, ma ne diventa complice involontario.
“Tante critiche e zero soluzioni”
La nostra
rabbia verso chi ci accusa, ridicolizza, discrimina è umanamente da validare.
Abbiamo tutto il diritto di mettere in discussione i modi in cui veniamo
rappresentati negli spazi reali e simbolici che occupiamo con i nostri corpi e
le nostre lingue di persone sarde del 2025, con le nostre soggettività e
appartenenze. Fosse anche solo per problematizzare.
La nostra rabbia è politica. Il nostro sguardo è politico. Ancora di più
lo sono la nostra voce, il nostro corpo, le nostre lingue indigene.
Trovare le
soluzioni è una funzione della collettività. L’idea che i gruppi sociali o
culturali minorizzati non debbano essere ridotti alla sola condizione di
vittime è condivisibile, ma questa considerazione non può prescindere dalla
comprensione profonda del sistema privilegi/oppressioni entro cui
contestualizzare le rivendicazioni.
La
svalutazione delle istanze di carattere emancipativo sarde è indice
dell’assenza di un atteggiamento critico.
Manca
l’apertura alla messa in discussione dei processi di costruzione dello stato
nazione per le conseguenze che ha prodotto; non c’è la volontà di riconoscere
la problematicità della narrazione dominante.
E in
generale c’è una resistenza piuttosto scomposta alla critica di costrutti culturali come quelli di nazione,
globalizzazione, capitalismo, binarismo di genere, i quali vengono assunti e
dati per universali e univoci, senza lasciare spazio a forme alternative dello
stare insieme, dell’esistere, dell’espressione di sé.
Quando ci accusiamo a vicenda
Non tutte le persone che reagiscono con rigetto, ridicolizzazione, fastidio e
aggressività alle rivendicazioni dei sardi, lo fanno con coscienza: gli stereotipi, l’autopregiudizio, i
meccanismi di dominazione sono un paradigma. Ovvero
l’impostazione culturale che
molte persone sarde (figuriamoci quelle non sarde) assimilano sin dalla
nascita, attraverso la lingua, la socializzazione, l’educazione familiare, la
scuola e i media. Si potrebbe dire
che è una visione del mondo; il modo in cui si legge la realtà.
Riconoscerla come un sistema che lede i diritti delle persone sarde e la loro
dignità, non può che minare le
fondamenta di quel paradigma.
Soffermarsi
a riflettere sulla minirizzazione della cultura e delle lingue di Sardegna
implica intraprendere un’analisi critica di tutto quello che si è appreso,
interiorizzato, vissuto. Significa sfidare il proprio sistema di convinzioni
attraverso un percorso di decostruzione profonda che riguarda la propria
identità e il proprio senso d’appartenenza. Non è né facile né scontato.
Ciò in alcun modo giustifica offese o violenza verbale!
Pur essendo inquadrabile come una reazione
di difesa e come tale va compresa e validata, usare termini come ad
esempio “sardignoli”, “autocolonizzati” per definire chi non è ancora giunto
alle nostre stesse conclusioni, porta a rafforzare la contrapposizione
noi/loro, a fare propria e replicare la costituzione di un altro da cui distinguersi e difendersi.
Alcune di
quelle persone potrebbero non essere del tutto ostili: semplicemente
necessitano di più tempo, di più strumenti. Tenerne conto può favorire la
costruzione di una rete di alleanze preziose.
Abbiamo il potere di scegliere con chi
dialogare, riconoscendo che non tutte le persone saranno pronte o
disponibili a mettersi in discussione.
È
importante distinguere tra chi
aggredisce o insulta (questi atteggiamenti vanno isolati.
L’aggressività verbale e l’ostilità sistematica non richiedono confronto, ma
protezione dei nostri confini) e
chi dissente in modo critico ma non del tutto ostile. Con queste
persone possiamo provare a costruire ponti, senza rinunciare ai nostri valori e
senza replicare le dinamiche oppressive che rifiutiamo.
La nostra risposta deve essere proporzionata e strategica: isoliamo la
violenza, dialoghiamo con la dissidenza in buona fede, sempre difendendo e
preservando la nostra dignità, e quella delle comunità che rappresentiamo.
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