martedì 30 settembre 2025

Crisi climatica: il cibo costa sempre di più - Luca Pisapia


Caldo, incendi, siccità, inondazioni. Gli eventi meteorologici estremi causati dai cambiamenti climatici stanno facendo aumentare i prezzi dei prodotti alimentari in tutto il mondo. E questi repentini aumenti dei prezzi del cibo hanno un impatto devastante sull’accesso al cibo per la parte più povera della popolazione. Quindi anche sulla sicurezza alimentare e sulla salute pubblica. Non solo dei Paesi del Sud del mondo, come è facile aspettarsi, ma anche di quelli cosiddetti ricchi e sviluppati dove sempre più persone vivono ai margini della soglia di povertà.

E non è finita qui. Perché l’aumento dei prezzi del cibo ha effetti anche sulla stabilità politica di interi Paesi. O di intere aree geografiche. I picchi dei prezzi portano infatti a una serie di conseguenze sociali a cascata, che possono essere nutrizionali, economiche e politiche. Perché le persone hanno sempre più difficoltà a permettersi il cibo.

E così, all’aumento dei prezzi si possono collegare le carestie nel Sudest asiatico o anche rivolte per il pane in Mozambico. O il fatto che negli Stati Uniti e nel Regno Unito, nel cuore del cosiddetto primo mondo, le fasce più povere della popolazione rinunciano ogni giorno di più a frutta e verdura, con conseguenze importanti per la salute. Basti pensare che già oggi una persona su sei negli Stati Uniti e nel Regno Unito soffre di insicurezza alimentare.

 

Eventi estremi e rincari alimentari

Tutto questo lo si evince da un rapporto pubblicato a luglio sulla rivista Environmental Research Letters. Il team di scienziati e ricercatori negli ultimi due anni ha monitorato sedici eventi meteorologici estremi –ovvero «qualsiasi evento al di fuori di quanto visto in precedenza» – e li ha collegati a specifici aumenti dei prezzi del cibo in determinate aree geografiche. Dalla ricerca, basata su uno studio precedente condotto in collaborazione con la Banca Centrale Europea e pubblicato nel 2024, emerge un quadro a tinte assai fosche.

Per capirci, il report sottolinea come il caldo estremo e le condizioni del suolo secco nell’estate del 2022 hanno portato a un aumento del 80% dei prezzi delle verdure in California e Arizona. O come la siccità tra il 2022 e il 2023 ha portato a un aumento del 50% dei prezzi dell’olio d’oliva in Spagna e in Italia. Mentre l’ondata di caldo del 2024 in Costa d’Avorio e Ghana, Paesi produttori del 60% del cacao mondiale, che hanno fatto aumentare il prezzo del cacao di oltre il 300%.

La siccità in Brasile nel 2023 ha portato a un aumento del 55% dei prezzi dei chicchi di caffè Arabica. E l’ondata di caldo in Asia nel 2024 ha raddoppiato i prezzi del caffè Robusta. Lo stesso aumento di temperature che ha fatto aumentare del 50% il prezzo del riso in Giappone. E del 30% quello di frutta e verdura in Cina. Mentre in Australia le alluvioni della primavera del 2022 hanno fatto aumentare il prezzo della lattuga addirittura del 300%.

 

Prezzi del cibo: seconda causa di morte climatica

«Possiamo osservare che esiste un ampio contesto globale per quanto accaduto negli ultimi anni, che si estende dall’Asia orientale all’Europa fino al Nord America», ha spiegato Maximillian Kotz, ricercatore presso il Centro di Supercalcolo di Barcellona e autore dello studio. «Quello che abbiamo scoperto è la prova evidente che temperature anormalmente elevate determinano aumenti dei prezzi del cibo e dell’inflazione complessiva. E che pertanto in futuro, con l’intensificarsi del caldo, ci aspettiamo di vedere sempre più aumenti di questo tipo. Il nostro articolo deve essere un invito all’azione. L’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari è la seconda causa di morte dovuta agli impatti climatici, subito dopo il caldo estremo».

Raj Patel, ricercatore presso l’Università del Texas ad Austin e membro dell’International Panel of Experts on Sustainable Food Systems, ha spiegato che il principale avvertimento dello studio – ovvero che i cambiamenti climatici porteranno a ulteriori impennate dei prezzi – suggerisce che in futuro emergeranno «terribili conseguenze sociali». Patel ha fatto riferimento al numero già elevato di persone considerate insicure dal punto di vista alimentare, che si stima essere di circa 733 milioni, ovvero circa una su 11 a livello globale.

«Ovviamente, questa cifra è destinata a salire come conseguenza diretta dei cambiamenti climatici», ha concluso Patel. Anche perché le proiezioni dell’analisi condotta dai ricercatori di quindici università nell’ambito del Climate Impact Lab, un consorzio di ricerca dell’Università di Chicago, dicono che ogni grado aggiuntivo di riscaldamento globale ridurrà la capacità mondiale di produrre cibo di 120 kcal a persona al giorno. Ovvero il 4,4% dell’attuale consumo giornaliero. Se la salute e il benessere delle persone deriva da quello che mangiano, la lenta ma inesorabile scomparsa del cibo diventa quindi uno dei problemi più urgenti per questa e per le prossime generazioni.

 

Ultima Generazione contro i rincari alimentari da crisi climatica

«Dall’11 ottobre boicottiamo i supermercati: tagliamo l’Iva!». Si chiama così la campagna di Ultima Generazione che cerca di offrire una risposta al problema dell’aumento dei prezzi del cibo dovuto ai cambiamenti climatici. «La crisi climatica distrugge i nostri raccolti con alluvioni e siccità. I prezzi del cibo sono alle stelle mentre gli agricoltori vengono schiacciati dalle grandi catene di supermercati, che continuano ad arricchirsi. Il governo deve intervenire tagliando l’Iva sui beni essenziali e prendendo i soldi da chi questa crisi l’ha causata».

«Chi rompe paga. La transizione non può essere finanziata con le nostre tasse ma con le ricchezze e con i privilegi di chi ha speculato per decenni sul nostro benessere e sul nostro ambiente. È responsabilità del governo reperire le risorse dove già esistono: l’agribusiness, la grande distribuzione, i grandi patrimoni, l’industria fossile e quella militare», spiegano i promotori della campagna, che ha già ottenuto 30mila adesioni e punta a raggiungere le 100mila persone entro il prossimo ottobre.

«Il boicottaggio coordinato è una tattica potente», concludono gli attivisti di Ultima Generazione. «Coinvolge migliaia di persone e mette una pressione reale sul governo e sulla grande distribuzione organizzata. Boicottare in maniera coordinata i luoghi dove compriamo i beni essenziali (i supermercati ndr.) ci permette di mandare un messaggio: non saremo noi a pagare questa crisi. Non solo. Mettendo pressione su di loro, sia economica che d’immagine, li costringiamo a spingere il governo a tagliare l’Iva sui beni essenziali».

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lunedì 29 settembre 2025

Il colosso Fox Petroli chiede 2 milioni di euro a due attivisti di Pesaro che si battono contro l’impianto Gnl - Luisiana Gaita

 

Nelle prossime ore si terrà, presso il Tribunale della città marchigiana, il primo incontro della procedura di mediazione. Se non andrà a buon fine, partirà il processo per diffamazione. . Le ong: "Davide contro Golia. È una slapp"

Davide contro Golia. La Fox Petroli spa chiede 2 milioni di euro a due attivisti di Pesaro, accusati di diffamazione e di mettere in atto una “quotidiana campagna denigratoria e persecutoria” verso la società. Tutto nell’ambito di una battaglia contro il progetto per la riqualificazione del deposito di stoccaggio di prodotti petroliferi liquidi e la realizzazione di un impianto di liquefazione di gas metano in rete, nel quartiere della Torraccia. Ma la vicenda cattura l’attenzione di diverse organizzazioni internazionali che ritengono la causa civile intentata un caso di slapp (strategic lawsuit against public participation), le cause temerarie intentate per bloccare gli attivisti e contro cui esiste una direttiva Ue che l’Italia recepirà nel 2026. E la vicenda è all’esame anche dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani. Nell’atto di citazione, di fatto, la Fox Petroli riporta le dichiarazioni contenute in un comunicato diffuso dalla stampa, ma anche quelle riportate nell’esposto inviato dai due attivisti Roberto Malini, co-presidente di EveryOne Group e Lisetta Sperindei, ex consigliera comunale e dal comitato ‘Pesaro: no Gnl’ alla Procura, ai ministeri dell’Ambiente e della Salute e ad altre istituzioni competenti locali e nazioni.

Il tentativo di mediazione – L’esposto è solo una delle azioni intraprese per fermare il progetto e chiedere l’esecuzione di nuove analisi per verificare eventuali danni ambientali. Nelle prossime ore si terrà, presso il Tribunale di Pesaro, il primo incontro della procedura di mediazione avviata dalla società Fox Petroli, strumento previsto dalla legge come tentativo obbligatorio e preliminare rispetto all’apertura di un eventuale processo. Se questo dovesse fallire, una prima udienza si terrà il prossimo 22 dicembre.

Il ricorso presentato dagli attivisti – Nella loro denuncia, presentata a maggio 2025, gli attivisti hanno segnalato “una situazione di grave rischio ambientale e sanitario” presso il sito Fox Petroli di Pesaro, area da decenni sede di attività industriali legate alla lavorazione e allo stoccaggio di idrocarburi nonostante la vicinanza a una zona ad alta densità abitativa. Nel ricorso si parla di “uno stato di degrado”, concetto ribadito anche nel comunicato stampa ed “evidenti problematiche di contaminazione, sia del suolo che delle falde acquifere”, facendo riferimento a “studi preliminari e segnalazioni della cittadinanza” che “indicano la presenza di contaminanti nel terreno e nelle acque sotterranee”. Secondo i ricorrenti il progetto di impianto di liquefazione GNL, se realizzato, “aggraverà ulteriormente” la situazione. E si chiede si “avviare un’indagine ambientale urgente per analizzare il suolo e le falde acquifere del sito”.

La reazione della Fox Petroli – “Indagini, nel frattempo, sono state disposte dalla Procura, mentre il Comitato tecnico regionale dei vigili del fuoco ha espresso parere negativo vincolante sul progetto, determinando la decadenza automatica della Valutazione di impatto ambientale positiva precedentemente rilasciata alla società” racconta a ilfattoquotidiano.it lo stesso Malini. Così, il 14 maggio scorso, gli avvocati della società Fox Petrol S.p.A. hanno presentato al Comune di Pesaro una richiesta formale di accesso agli atti amministrativi, per ottenere copia dell’esposto trasmesso alla Procura dagli attivisti. “L’esposto era stato inviato anche per conoscenza all’Ufficio Ambiente del Comune di Pesaro, ma non era destinato alla diffusione, in quanto parte integrante di un procedimento d’indagine in corso” spiega Malini. E aggiunge: “Nonostante la nostra richiesta di non trasmettere tale documento, il Comune ha accolto l’istanza della Fox”. E così è arrivata la reazione della società che prevede un investimento nell’impianto di almeno cinquanta milioni di euro. “Si getta discredito su una società per azioni, che ha un fatturato di decine di milioni di euro” scrive nell’atto di citazione. I due attivisti sono accusati di procurare allarme nella popolazione “diffondendo notizie false e diffamatorie sulla società” e sui suoi impianti, attraverso “una quotidiana campagna denigratoria e persecutoria verso Fox Petroli”. I passaggi contestati? L’azienda respinge ogni riferimento al “degrado” nel sito e possibile “contaminazione di aria, suolo e falde acquifere”, oltre che ai “potenziali rischi per la salute”. Per Fox Petroli si tratta di accuse totalmente infondate.

Gli attivisti mantengono la loro posizione – Ma i due attivisti ribadiscono la loro posizione. “Le nostre dichiarazioni – racconta Malini – si basano su documenti ufficialirelazioni tecniche, analisi ambientali e atti pubblici, e rivendicano il diritto-dovere della società civile di esprimersi su questioni di salute pubblica, sicurezza e tutela dell’ambiente. Il sito di cui si parla è stato storicamente destinato ad attività petrolifere per oltre un secolo, ma è adiacente a un’area naturalistica tutelata, l’Oasi del fiume Foglia e a un centro urbano densamente popolato”. E ricorda la il parere negativo al nuovo progetto del Comitato tecnico regionale dei Vigili del fuoco. Tra le ragioni “l’esistenza di serbatoi interrati risalenti agli anni ’50, a fondo unico e privi di impermeabilizzazione – racconta Malini – l’elevato rischio di contaminazione per suolo e falde e l’inadeguatezza delle condizioni di sicurezza rispetto agli standard vigenti”. Per l’attivista, questi rilievi “non solo giustificano l’utilizzo del termine ‘degrado’, che è il passaggio più contestato dall’azienda nel nostro comunicato, ma lo rendono necessario in una comunicazione rivolta all’opinione pubblica, alle istituzioni e ai media”.

Il sostegno delle organizzazioni anti-slapps – Il caso ha catturato l’attenzione di diverse organizzazioni internazionali come FrontLine Defenders, realtà associata alla rete Coalition Against Slapps in Europe (Case) e Net4Defenders. “Anche con il loro supporto, abbiamo segnalato il caso allo Special rapporteur Onu sui difensori dei diritti umani e all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani” spiega Roberto Malini. Secondo la Coalition Against Slapps in Europe il caso presenta diverse caratteristiche tipiche delle Slapp, in primis la grande differenza sul piano economico tra le parti – l’azienda petrolifera da un lato e i due attivisti dall’altro – e poi “la sproporzione tra le dichiarazioni rese e la cifra richiesta” spiegano da Case, oltre che “l’indiscutibile interesse pubblico del progetto e delle possibili conseguenze che da esso potrebbero ricadere sulla comunità”. “Parte la mediazione – aggiunge Malini – ma noi no ritrattiamo su informazioni basate su documenti ufficiali e relazioni tecniche”.

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domenica 28 settembre 2025

Amazzonia, al vertice Otca niente bando ai combustibili fossili. Ma gli indigeni entrano nel negoziato - Estefano Tamburrini

 

Perù, Ecuador e Venezuela hanno impedito la svolta scatenando le reazioni delle comunità indigene, che hanno anche denunciato la "posizione blanda" del presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva.

La foresta dell’Amazzonia non sarà una “zona libera da combustibili fossili”, ma per la prima volta le comunità indigene parteciperanno attivamente alle discussioni dell’Otca, l’Organizzazione del Trattato di Cooperazione Amazzonica, e nasce l’idea di un “Fondo Boschi tropicali” da proporre alla COP30 di Belém, in Brasile.

Ma andiamo con ordine: lo stop ai combustibili fossili è il grande assente nella Dichiarazione di Bogotá, sottoscritta dai membri dell’Otca al termine del vertice dell’Amazzonia tenutosi questa settimana, da lunedì 18 a sabato 23 agosto, nella capitale colombiana, nonostante le pressioni di scienziati, società civile, comunità indigene e persino del Paese ospitante, che aveva introdotto la proposta attraverso la viceministra dell’Ordinamento ambientale del territorio colombiano, Tatiana Roa Avendaño. “L’Amazzonia è molto più di un bioma: è un regolatore climatico globale, una riserva di acqua dolce e di biodiversità senza eguali”, ha detto Roa Avendaño, denunciando che “la sua distruzione, provocata in grande misura dall’estrazione e dal processamento dei combustibili fossili, compromette la nostra sicurezza alimentare, la salute pubblica e la stabilità climatica globale” e mette “a rischio la sopravvivenza umana”.

Tuttavia, PerùEcuador e Venezuela hanno impedito l’inclusione dello storico punto negli accordi, scatenando le reazioni delle comunità indigene, che hanno anche denunciato la “posizione blanda” del presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva durante i lavori. Le comunità accusano il Paese ospitante della prossima COP30 – cui appartiene il 60% della superficie amazzonica – di espandere “la frontiera petrolifera” sulla foresta, difendendo a spada tratta lo sfruttamento dei combustibili fossili. Ma sul tema, la dichiarazione finale di 35 punti si riduce all’invito “verso una transizione energetica giusta, ordinata ed equa”, ricordando il 45° anniversario del trattato sottoscritto nel 1978 da Brasile, Bolivia, Ecuador, Guyana, Perù, Suriname e Venezuela.

Qualche risultato è stato ottenuto con l’apertura al confronto con le comunità indigene, attraverso l’istituzione del Mapi, il Meccanismo amazzonico dei popoli indigeni – sono 511, di cui 66 in isolamento volontario – che dà “voce e voto” alle comunità nella “definizione delle politiche sui loro territori e sul futuro del bioma amazzonico”. “Non è una responsabilità piccola”, ha commentato Sonia Guajajara, presidente del Fondo per lo sviluppo dei popoli indigeni dell’America Latina e i Caraibi, ribadendo l’urgenza di trasformare “la relazione fra esseri umani e natura”. È stato rilanciato anche il Fondo Boschi tropicali, che sarà discusso alla COP30 affinché i Paesi ricchi “paghino il loro debito per l’industrializzazione”. La proposta era già stata presentata alla COP28 di Dubai e rinnovata nella Settimana dell’Azione climatica, il mese scorso a Londra, contando sul sostegno di Regno UnitoNorvegia, Emirati Arabi e altri Stati, oltre a enti privati – PimcoBank of America e Barclays – e dell’United Nations Development Program.

Sempre su iniziativa del governo brasiliano sarà istituito il Centro di cooperazione di polizia internazionale dell’Amazzonia a Manaus per “lo scambio agile di informazioni” e lo “sviluppo di azioni integrate” contro reati ambientali, narcotraffico e contrabbando.
“Un singolo Stato non può più affrontare da solo questo flagello”, ha ammesso il ministro della Giustizia brasiliano Ricardo Lewandowski, denunciando una ventina di organizzazioni criminali transnazionali nel polmone verde, dove il tasso di mortalità raggiunge 30,9 persone ogni 100mila abitanti. L’emergenza c’è e non fa più sconti: stando ai dati pubblicati dall’Ideam, l’Istituto colombiano di idrologia, meteorologia e studi ambientali, nel 2024 il Rio delle Amazzoni ha raggiunto il livello più basso degli ultimi 122 anni, con un calo dell’82% della fluvialità nella stazione idrologica di Nazareth (Colombia). Nello stesso anno si sono verificati quasi 54mila incendi, di cui il 95% provocati dall’intervento umano: +80% rispetto all’anno precedente, portando le emissioni di carbonio accumulate a 183 megatonnellate. Quanto alla deforestazione: il 20% della superficie della foresta è già colpito, secondo la Banca Mondiale, e la percentuale rischia di essere raddoppiata nel 2040, sfiorando i 4,3 milioni di ettari.

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sabato 27 settembre 2025

Canapa, coltivatori indagati per droga: piantagioni sequestrate ed estirpate. L’interrogazione M5s e il caso Sardegna - Paolo Dimalio

 

 

Un coltivatore di canapa industriale arrestato in Puglia, scagionato dopo tre giorni in carcere. Mentre in Sardegna i sequestri agli agricoltori non si sono mai fermati. Eppure il ministro dell’agricoltura Francesco Lollobrigida aveva rassicurato gli imprenditori, sulla canapa minacciata dal decreto Sicurezza: “La coltivazione e la commercializzazione della pianta, nella sua interezza comprensiva delle infiorescenze, è lecita e resta consentita per le finalità previste dalla legge”. L’ex cognato d’Italia lo ha sottolineato il 9 luglio alla Camera dei deputati, annunciando una circolare per mettere al sicuro i coltivatori.

Ma del documento ancora non c’è traccia mentre gli agricoltori sono nel mirino, soprattutto in Sardegna. Tanto da suggerire un’interrogazione parlamentare per il ministro dell’Agricoltura. Il documento è stato depositato al Senato il 18 settembre, firmato della senatrice del Movimento 5 stelle Sabrina Licheri. “Si stanno registrando sul territorio numerosi sequestri operati dalle Forze di Polizia – si legge nell’interrogazione – spesso di intere piantagioni di canapa accompagnate dalla loro distruzione prima ancora di verificarne l’effetto drogante o meno delle piante, con il risultato di mettere in ginocchio un intero settore produttivo che conta centinaia di aziende e migliaia di posti di lavoro”. È accaduto anche in Liguria a settembre. I Carabinieri hanno sequestrato ad un coltivatore 56 arbusti di canapa industriale e quasi cinque chili di infiorescenze. Ma la procura ha ordinato la restituzione 10 giorni dopo, perché “non hanno alcuna efficacia drogante”. Peccato che gli arbusti, tornati al proprietario, siano da cestinare.

In Sardegna il pugno duro è prassi contro i coltivatori di Canapa. Lo hanno assaggiato gli imprenditori Franco Ledda e Fabio Sulas, indagati per detenzione di stupefacenti. Rischiano dai 6 ai 20 anni di galera. Ledda, classe 1993, possiede l’azienda agricola Leafuture: il 28 agosto la Guardia di Finanza ha annotato il sequestro 275 chili di infiorescenze e “1757 arbusti privi di infiorescenze”. La procura di Sassari ha avallato, impedendo almeno l’eradicazione delle piante. Ledda contesta la quantità delle infiorescenze: solo 20 o 25 secondo la perizia dell’agronomo di parte, “il resto sono scarti di lavorazione”.

Ad Oristano stessa musica: tra il 3 e il 5 settembre settembre la Finanza ha tagliato e sequestrato 2490 arbusti di canapa all’imprenditore Fabio Sulas, 58 anni, proprietario dell’azienda agricola Quattro Mori. Stavolta la procura ha approvato l’eradicazione. Il sospetto è che le piante servissero a produrre infiorescenze vietate dal decreto Sicurezza. In ogni caso sono stati prelevati 53 campioni per verificare la quantità di Thc e dirimere il dubbio: cannabis stupefacente o canapa industriale? Nell’incertezza, gli inquirenti hanno sfalciato tutti gli arbusti di Fabio Sulas e portato via 40 chili di “residui di essiccazione di sostanze vegetali”, incluse infiorescenze. In un solo campione prelevato dal fiore il principio attivo stupefacente ha toccato lo 0,9 per cento. “Non abbastanza per concretizzare l’effetto psicotropo, la giurisprudenza in tal caso è dubbia”, secondo lo studio legale Miglio-Simonetti ingaggiato da Sulas. I legali sottolineano il taglio dell’intera piantagione: le analisi della procura, depositate ieri al tribunale del Riesame, certificano un livello di principio attivo sotto lo 0,6% in tutti in tutti i campioni della piantagione.

Con un valore del Thc inferiore alla soglia di punibilità, quanto reggerà in tribunale l’accusa per droga? Perciò la procura ligure ha già scagionato l’imprenditore della canapa il 18 settembre. Senza dimostrare gli effetti psicotropi, le infiorescenze non si potrebbero vietare. Lo ha scritto la Cassazione nella sentenza del 31i maggio 2019. Lo ha ribadito il massimario della Suprema Corte nella relazione pubblicata il 23 giugno. Ma il governo ha tirato dritto con l’articolo 18 del decreto Sicurezza: il fiore è bandito a prescindere, perfino appena sbocciato sull’arbusto.

In Sardegna sono andati oltre: un’intera piantagione eradicata prima della maturazione. Basta il sospetto che serva a produrre cannabis light. Nel verbale di sequestro Fabio Sulas ha annotato di aver inviato la dichiarazione di semina con le finalità del raccolto: produzione tessile. “Ma il solo dubbio che la canapa sarà utilizzata per le infiorescenze può innescare sequestri e accuse per droga”, dicono Miglio e Simonetti. Secondo gli avvocati è sufficiente conservare i fiori dell’anno passato per mandare intere piantagioni al macero. Il caso Sulas insegna. “Il governo diceva che i coltivatori non sono nel mirino e invece sì, soprattutto in Sardegna”, rincarano i legali.

Dal 2017 hanno seguito centinaia di casi nell’Isola: “Quello che accade qui anticipa i problemi degli agricoltori nel resto d’Italia, sempre più spesso si chiede di dimostrare la finalità della coltivazione di canapa, pena un’accusa per detenzione di stupefacenti”. Perché la Sardegna è un “laboratorio” e un caso speciale? “Gli inquirenti sono sensibili alle coltivazioni di marijuana, tantissime nell’isola, ma è grave confondere e utilizzare lo stesso approccio investigativo verso una pianta legale come la canapa industriale”.

La senatrice Sabrina Licheri (M5s) è d’accordo. In principio la sua interrogazione per Lollobrigida chiedeva lumi solo sulle coltivazioni in Sardegna. Poi il quadro è mutato: “Ho dato un carattere più nazionale ma se il ministro mi risponderà o se decidessi di fare un intervento di fine seduta, evidenzierò il caso della Sardegna. dove il problema è perfino acuito”. Non solo nell’Isola. Un coltivatore di canapa in Puglia è finito in carcere venerdì scorso e scagionato lunedì. Ieri La Stampa titolava: “Primi sequestri di cannabis light nel torinese: decine di negozianti indagati”. Fino a 10 giorni fa alcuni avvocati specializzati indicavano il calo dei sequestri dopo il decreto Sicurezza. Qualcosa è cambiato.

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venerdì 26 settembre 2025

Iperturismo, il lato oscuro di un’industria globale da 11 trilioni di dollari - Alberto Burba

 

Il 27 settembre è la Giornata mondiale del turismo. Ma dietro ai lustrini si nascondono sfruttamento, precarizzazione e distruzione dei territori.

Industria da 11 trilioni di dollari, 357 milioni di posti di lavoro e 1,4 miliardi di viaggiatori: il turismo è una miniera d’oro globale. Ma dietro le celebrazioni Onu e gli slogan sulla sostenibilità si nasconde un flagello, l’iperturismo. I dati sono impressionati: ad Andorra ci sono 52 turisti per abitante, nell’isola greca di Zakynthos 150 e nel centro storico di Venezia 520. Le conseguenze? Crisi ambientale (Maya Bay in Thailandia), erosione culturale (Dubrovnik svenduta a Instagram), speculazione immobiliare (Napoli espugnata da Airbnb). Governi e multinazionali concentrano i profitti, mentre i territori vengono devastati, come in Albania dove la cementificazione selvaggia distrugge le coste.

Ascolta l’articolo, narrato da Giulio Bellotto:

Dà lavoro a 357 milioni di persone. Genera un volume d’affari pari al 10% del Prodotto interno lordo mondiale. Sposta 1,4 miliardi di anime ogni anno. Ha un tasso di crescita tra il 3 e il 6 percento. E in cinque anni si è ripresa con grande agilità dalla crisi del Covid.

È l’industria del turismo, una miniera d’oro che ogni anno sforna 11 trilioni di dollari. Venerata ai quattro angoli del pianeta, nel 1979 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha pensato bene di dedicarle un giorno tutto suo: il World Tourism Day, la giornata mondiale del turismo, che si festeggia ogni 27 settembre. Ma dietro ai lustrini dei summit internazionali e alla retorica sulla «sostenibilità» si nasconde il rovescio della medaglia, che alimenta sfruttamento, precarizzazione, concentrazione dei profitti in mano a pochi e distruzione dei territori.

Quest’anno le celebrazioni si svolgono in Malesia e il tema dell’evento è: «Turismo e trasformazione sostenibile». Nei suoi propositi, la giornata deve essere un’occasione per ribadire l’importanza di un turismo inclusivo, equo, verde, che richiede investimenti in vari settori. «Ciò significa» ha detto il segretario delle Nazioni Unite António Guterres, «investire nell’istruzione e nelle competenze, in particolare per le donne, i giovani e le comunità emarginate; sostenere le micro, piccole e medie imprese che sono la spina dorsale delle economie locali. Proteggere il nostro pianeta, conservando la biodiversità, salvaguardando gli ecosistemi e riducendo le emissioni in tutto il settore turistico».

La spiaggia Navagio a Zakynthos, in Grecia, nell’agosto 2013. Foto Oliwier EOB. Wikimedia Commons. Licenza CC BY-SA 3.0.

Eccellenti propositi, fondamentali per creare armonia ed equilibrio in un settore che genera denaro pari al PIL annuale di Germania, Francia e Italia messe assieme (i già citati 11 trilioni di dollari). I Paesi più interessati dal settore sono Francia, Spagna e Stati Uniti. Insieme ospitano ogni anno più o meno 270 milioni di persone. Parigi nel 2024 ha ricevuto 49 milioni di turisti, Barcellona 15, New York City 65.

A Zakynthos 150 turisti per ciascun residente

Ma, fatta eccezione per quei luoghi dove sono in corso conflitti o gravi crisi economiche, ogni paese ha la sua buona dose di visitatori da compiacere, in ogni angolo del pianeta. In alcuni Stati la proporzione turista/residente supera i 10. Ciò vuol dire che per ogni residente arrivano 10 turisti. Il picco lo tocca Andorra, con 52 turisti per abitante. In realtà, la medaglia d’oro andrebbe a Città del Vaticano, che con i suoi 800 residenti riceve ogni anno 6 milioni di turisti. Il che fa un rapporto di 7500 visitatori per abitante. Ma questo è un caso particolare che non andrebbe preso in considerazione vista la peculiarità della Città Santa.

Il dato più impressionante invece lo fornisce l’Albania. Primo Stato di medie dimensioni ad avere un rapporto superiore a quattro. Un boom degli ultimi anni per via dei prezzi accessibili, dei recenti investimenti immobiliari in stile Far West e delle numerose spiagge un tempo sconosciute. Austria e Grecia si confermano poi come due destinazioni europee al top.

Una curiosità: se consideriamo realtà molto piccole, l’isola greca di Zakynthos (Zante) sbaraglia tutti con un rapporto di 150 turisti per residente. Ma anche Venezia non se la passa troppo bene. Con 25 milioni di visitatori annui e 250mila abitanti, il rapporto turista/residente arriva a 100. Se poi calcoliamo solo il centro storico, con i suoi 48mila residenti, il rapporto schizza a 520. Non ci sarà da stupirsi se un giorno le palafitte non reggeranno più il peso delle orde barbariche.

E il Belpaese, come si piazza? Il conto è semplice: 59 milioni di abitanti e 59 milioni di turisti previsti per il 2025. Il rapporto turista/residente è quindi pari a uno. Un dato rilevante, non a caso l’Italia al quinto posto nella classifica mondiale resta tra le destinazioni preferite con alti indici di gradimento. I dati del Ministero del Turismo per l’inizio estate 2025 non lasciano dubbi sull’importanza del settore: 17 milioni di arrivi a giugno, 59 milioni di presenze previste e una permanenza media per visitatore di circa 3,5 notti.

Cifre così commentate dal ministro del Turismo Daniela Santanchè: «L’Italia si conferma non solo un simbolo di bellezza e cultura, ma anche una potente industria turistica in costante crescita, pronta a conquistare nuovi mercati e a rafforzare la sua posizione di leader nel settore. Ci prepariamo quindi al meglio per il più grande evento al mondo sul turismo, il Global Summit del WTTC, che si terrà a Roma dal 28 al 30 settembre».

Rapporto turista/residente nel 2024. Fonte: Visualcapitalist. Grafico di Alberto Burba.

Il fascino delle mete instagrammabili

Ma la miniera turistica non fornisce sempre pepite d’oro. Purtroppo dietro a queste cifre miracolose e ai buoni propositi di politici e diplomatici si cela un male che negli ultimi anni è diventato un flagello: l’overtourism. Un fenomeno conosciuto alle nostre latitudini con il termine di iperturismo o sovraturismo, che ha trovato una sua precisa definizione. L’Organizzazione mondiale del turismo lo definisce come un «impatto su una destinazione, o parti di essa, che influenza eccessivamente e in modo negativo la qualità della vita percepita dei cittadini e/o la qualità delle esperienze dei visitatori».

Insomma, troppa gente che si riversa in località che non hanno le strutture per ospitare grandi quantità di persone. Il cocktail malefico si perfeziona poi se aggiungiamo turisti che non rispettano l’ambiente e le tradizioni locali. Come le orde di chiassosi sbandati storditi dall’alcol nelle vie di Barcellona, le coppiette che incidono il loro nome sul travertino del Colosseo, gli avventurieri al safari per vedere (e spesso intralciare) le grandi migrazioni nei parchi Masai Mara e Serengeti, tra Kenya e Tanzania.

Che fattori hanno contribuito a questa turistificazione di massa? La risposta la lasciamo a chi ormai sa tutto. Secondo Gemini, l’Intelligenza artificiale di Google, le cause sono «la crescita della classe media globale, la democratizzazione dei viaggi grazie a voli low-cost e piattaforme online e la viralità dei social media che indirizzano i flussi verso mete “instagrammabili”. A questo si aggiunge la diffusione dell’economia della condivisione, come Airbnb, che ha ridotto la disponibilità di alloggi per i residenti e una generale mancanza di pianificazione e regolamentazione delle destinazioni turistiche».

Ma dietro i numeri record si nascondono conseguenze pesanti. Krisis ha cercato di capire  quali sono, chi colpiscono e quali rimedi possono attenuarle.

Danni alla barriera corallina di Maya Bay

L’iperturismo può essere causa di inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo dovuto all’aumento dei trasporti e dei rifiuti causati dalla presenza di un numero di persone superiore alla norma. A ciò si aggiunge l’esaurimento delle risorse, in particolare di quelle idriche, dell’energia e il degrado del suolo per erosione e deforestazione. Un esempio? Maya Bay, una baia thailandese presa d’assalto per vedere la location di un film con Leonardo Di Caprio. Devastata da migliaia di barche di turisti, da rifiuti e da residui di sostanze chimiche contenute nelle creme solari che hanno danneggiato l’ecosistema portando alla perdita dell’80% della barriera corallina.

I Paesi più visitati dai turisti nel 2024. Fonte UN Tourism. Grafico di Alberto Burba.

Un rimedio? Nel 2018, la baia è stata chiusa per consentirne il recupero, che ha comportato il reimpianto di coralli e il miglioramento della qualità dell’acqua. La baia è stata riaperta nel 2022 con norme severe per prevenire danni futuri, come la limitazione dei visitatori e il divieto di accesso alle imbarcazioni. I risultati si sono visti subito, oltre 5mila colonie coralline sono state curate e i biologi locali hanno documentato il ritorno di alcune specie marine.

Il punto non è quindi chiudere per sempre al turismo, ma trovare soluzioni che rispettino l’ambiente. Come dice Paula Kahumbu, CEO di WildlifeDirect: «Dobbiamo smetterla di trattare la fauna selvatica come un’esperienza da quattro soldi. I visitatori del Ruanda pagano 1.500 dollari al giorno per vedere i gorilla di montagna, e questo non li scoraggia. Alcuni viaggiatori spendono altrettanto per una sola notte a New York o Los Angeles. Se puoi spendere 300 dollari per una cena, puoi spendere 100 dollari per proteggere un elefante».

Un altro esempio di risorse ambientali a rischio viene dal Montenegro. All’inizio di quest’anno la spiaggia Velika plaža, la più lunga e selvaggia della regione, è finita nelle mire di Mohamed Alabbar, un ricchissimo investitore degli Emirati Arabi Uniti. Con un progetto da 35 miliardi di euro, il magnate vorrebbe trasformare la spiaggia in un enorme resort di lusso. Uno scempio annunciato che la società civile locale sta cercando di bloccare con manifestazioni e sensibilizzazione locale.

A Dubrovnik un milione e mezzo di turisti l’anno

Il turismo di massa rischia di erodere l’identità locale e il patrimonio culturale. Può portare ad atti di vandalismo o all’uso improprio dei siti storici. Sostituisce le attività commerciali locali e trasforma le tradizioni culturali in spettacoli turistici. La città di Dubrovnik, in Croazia, racconta bene il paradosso. Altrimenti detta la Perla dell’Adriatico, la cittadina dalmata conta 40mila abitanti e ospita 1.5 milioni di turisti all’anno. É diventata meta ambita in particolare dopo la serie televisiva «Game of Thrones», in parte lì ambientata. Le sue mura a picco sul mare sono così diventate un ingorgo di visitatori di corsa per fotografare e postare su Instagram. Un cul-de-sac che esasperava gli abitanti.

Per invertire la tendenza del sovraffollamento turistico, il sindaco Mato Frankovic sta adottando una serie di misure volte a ridurre gli eccessi più gravi. Il primo cittadino, intervistato dal quotidiano The Irish Independent, ha annunciato alcune misure drastiche. Tra queste l’accesso alle mura della città, che dal 2026 sarà consentito solo previa prenotazione. Poi la limitazione a un massimo di due navi da crociera al giorno che dovranno sostare per un minimo di otto ore, questo per meglio distribuire il flusso dei passeggeri.

Lo Stradun di Dubrovnik preso d’assalto dai turisti nel lontano agosto 2013. Foto Jean-Christophe Benoist. Wikimedia Commons. Licenza CC BY 3.0.

 «Nel 2017 – dice il sindaco – solitamente le navi da crociera rimanevano solo quattro ore. Le persone correvano in città, scattavano una foto e se ne andavano». Oggi la sosta tipica è di 11 ore, consente una serie di escursioni e riduce il sovraffollamento. L’amministrazione comunale ha previsto poi l’acquisto di appartamenti da affittare a famiglie locali a canoni contenuti e sta valutando l’inasprimento delle multe per i casi di ubriachezza molesta e di violazione dei monumenti.

Napoli espugnata da Airbnb

Il turismo genera sì entrate, ma non sempre a beneficiarne sono i locali o le persone meno abbienti. Anzi. Può alimentare l’inflazione, aumentare i prezzi delle abitazioni e distorcere i mercati del lavoro locali. In molte città, le industrie tradizionali sono in declino, mentre predominano gli affitti a breve termine e i lavori nel settore dei servizi, spesso in mano a grandi catene dell’industria alberghiera o a società slegate dal contesto locale.

Un esempio di questa distorsione è la città di Napoli. Un recente reportage del quotidiano Politico ha messo a nudo le contraddizioni della più fantasiosa metropoli d’Italia. E con lei un po’ tutte le nostre magnifiche città. Per descrivere le distorsioni del turismo moderno, Politico parte dalla storia della statua di Pulcinella dello scultore Lello Esposito installata nel centro storico una decina di anni fa e diventata un must per ogni turista, tanto che una visita alla città di San Gennaro non è completa se non hai fatto almeno un «passaggio», una toccatina portafortuna al naso della maschera locale.

Quel rito, proposto e riproposto da influencer e promoter di un turismo tocca e fuga, è diventato in un battibaleno una tradizione. Il rischio è che non si dica più «vedi Napoli e poi muori», ma «sfiora il naso di Pulcinella e poi schiatta». «Il risultato» scrive Politico, « è una tradizione “locale” paradossale senza alcun locale, nonché un ottimo esempio di ciò che il sovraffollamento turistico sta causando alle città italiane (…) I visitatori sono attratti da Napoli e dall’Italia per ciò che considerano autenticità: la vivace vita di strada, i murales colorati, la cultura gastronomica e il calore della gente del posto. Ma con l’aumento dei prezzi che rende impossibile ai residenti rimanere, proprio quell’autenticità sta svanendo».

Eh già, i prezzi… Con l’arrivo di visitatori dal portafoglio rigonfio, i proprietari di appartamenti e le aziende alberghiere hanno fiutato l’affare e i prezzi sono lievitati. Il punto è che chi ne guadagna non sono i napoletani delle classi meno agiate, ma spesso sono privati o investitori del nord che hanno investito su Napoli sfruttandone le peculiarità, sfrattando i più poveri per dare spazio a chi paga meglio. Politico riporta un dato interessante. Nel 2023 quasi due terzi degli host Airbnb possedevano più di una proprietà e i primi cinque host controllavano circa 500 annunci. Ciò significa che i proprietari più grandi sono aziende, non persone. E anche quando i proprietari sono individui, spesso provengono da città più ricche come Roma o Milano.

Paesi con il maggiore declino percentuale di arrivi nel 2024. Fonte UN Tourism. Grafico di Alberto Burba.

Per risolvere la questione, occorrerebbe intervenire dall’alto. «C’è bisogno di una legge nazionale che stabilisca dei limiti», ha osservato Gennaro Acampora, membro del Consiglio Comunale di Napoli. E ha suggerito piani urbanistici che fissino una percentuale massima di affitti a breve termine per evitare lo sfollamento dei residenti. Attenzione quindi, quando si parla di sovraffollamento turistico, non bisogna dare la colpa ai viaggiatori. È necessaria invece una gestione politica. In un’intervista rilasciata alla Cnbc, Randy Durband, amministratore delegato del Global Sustainable Tourism Council, ha detto: «Lavoro nel settore dei viaggi e del turismo da 40 anni, collaborando con comitati e associazioni di categoria in Europa, Nord America e Asia (…) I governi di tutto il mondo tradizionalmente non ritenevano di avere un ruolo nella gestione del settore».

Concetti santi, presi in considerazione anche dall’amministrazione di Barcellona. Il sindaco Jaume Collboni ha fatto sapere che entro la fine del 2028 la città catalana taglierà gradualmente le licenze esistenti per gli oltre 10mila appartamenti a destinazione turistica di breve periodo. Lo scopo è alleviare la crisi abitativa e riportare gli immobili sul mercato residenziale a lungo termine, aumentando così la disponibilità di alloggi e riducendo i prezzi degli affitti. Il piano è sostenuto anche dalla Corte costituzionale spagnola, che a marzo ha respinto il ricorso presentato da alcuni proprietari.

In Albania 440mila abitazioni abusive

Lo sviluppo del turismo di massa comporta un’estensione delle zone cementificate e delle infrastrutture legate all’ospitalità, ai trasporti, alla ristorazione, alle telecomunicazioni, ai servizi di smaltimento dei rifiuti. Ciò a discapito di terreni agricoli, aree verdi, zone protette. Lo sanno bene in Albania. Chi ha avuto la fortuna di visitare il Paese 15/20 anni fa ricorderà una terra incontaminata. Spiagge libere dove i locali si portavano una tendina, il pranzo al sacco e ci passavano il fine settimana, andandosene senza lasciare traccia.

Ora il panorama è tutt’altro. Infrastrutture cresciute a dismisura per ospitare il boom di turisti degli ultimi anni. Secondo il britannico Institute of Economic Affairs, dagli anni Novanta a oggi sarebbero 440mila le abitazioni abusive. Strutture che in parte potrebbero andare ad alimentare il settore. A ciò si aggiunge una sciaguarata legge voluta dal governo per sfruttare il business miliardario.

All’inizio dell’anno, il Parlamento albanese, con 71 voti a favore e solo uno contrario, ha approvato l’estensione di due anni di una legge che prevede l’esenzione dall’imposta sul reddito alle società che fanno investimenti strategici e costruiscono hotel di lusso. Un lasciapassare alla cementificazione del territorio. Poi, un giorno, i turisti se ne andranno e quel cemento resterà lì. A memoria di un’epoca scellerata di quando la miniera turistica forniva pepite d’oro.

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