Ricordate il teorema del lampione? Un uomo, mentre rientra a casa, perde le
chiavi davanti al portone. E’ notte, è buio, le cerca invano per un po’, poi
scorge alcuni metri più avanti la luce di un lampione e vi si dirige.
Là non le troverà, ma almeno riuscirà a vedere dove mette i piedi. Viene in
mente questa storiella quando si pensa alle recenti uscite del governo, che
riprende (con diverso impegno) i vecchi progetti delle grandi opere, il Tav in
Val di Susa e il Ponte sullo Stretto.
Non affronta nessuno dei gravi problemi del territorio italiano e però sa
come muoversi. Può rivolgersi a grandi imprese di costruzione, utilizzare meccanismi
collaudati di strumentazione finanziaria (financing projet),
assoggettare un pezzo di territorio plasmato da secoli dalle popolazioni
locali, e ottenere alla fine un prodotto finito, per il quale ricevere applausi
dal grande pubblico.
Non torno sulle ragioni che si oppongono a queste opere, argomentate con
competenza da tanti esperti e studiosi. E tengo a precisare che non nutro
pregiudizi sulle grandi opere in sé.
Nel territorio impervio della Penisola è stato necessario far ricorso a
imprese di alta ingegneria per dotare il paese di una moderna
infrastrutturazione.
Anche se sappiamo che tanta ingegneria, nell’Italia repubblicana, è stata
impiegata soprattutto per le autostrade. Sicché oggi ci troviamo privi
di un sistema ferroviario per le merci lungo la Penisola, mentre le autostrade,
(e le statali, le provinciali, le comunali) sono flagellate da autotreni,
camion, furgoni.
Oggi tutto il sistema della mobilità, anche urbana, è esploso. E fa
sorridere l’enfasi sulle auto elettriche. Il problema non sono solo i motori
delle auto, ma soprattutto le auto. Ormai anche il più piccolo dei
paesi è soffocato dal traffico automobilistico.
Ma la cultura economica di chi ci governa, rimasta al ‘900, una cultura
pre-ecologica, non considera lo spazio un bene, perché non lo identifica con
una merce, e non riesce a valutare il crescente disagio di vita dei cittadini
che lo perdono.
Ma la considerazione fondamentale da fare è un’altra. Riproporre oggi il Tav
e il Ponte sullo Stretto è come portare un ferito con fratture multiple
dall’estetista, anziché in ospedale.
Investire somme ingenti ( il Ponte a totale carico dello stato) per queste
opere è una scelta delittuosa di fronte allo stato della Penisola. Debbo
ricordarlo. Sull’Italia incombe la più grave questione territoriale e
ambientale d’Europa: è il progressivo spopolamento e abbandono delle aree
centrali dello Stivale e il corrispondente intasamento delle zone a valle. Si
tratta di uno squilibrio all’interno del quale si svolgono i più vari e
distruttivi fenomeni.
Nelle zone interne, appenniniche e preappenniniche, si perdono terre
fertili, vanno in rovina patrimoni abitativi, si deteriorano i nostri boschi.
La ragione fondamentale, insieme ai mutamenti climatici, di incendi così vasti
e devastanti come quelli che hanno distrutto le selve delle Sardegna e della
Sicilia, e che ancora si accaniscono in Calabria e altrove, è l’assenza degli
uomini.
Mancano le economie agricole e forestali di un tempo, la cura dei boschi e
dei territori contermini. E gli incendi non devastano solo aziende, patrimoni
vegetali, tesori di biodiversità anche animale, ma trasformano i boschi
d’altura, che sono i serbatoi d’acqua d’Italia, in suoli carbonizzati destinati
a franare.
A valle accade che, a ogni temporale intenso, ormai sempre più frequente,
fiumi e torrenti lasciati senza cura devastino abitati, aziende, ponti e
strade. Quando piove gli spazi urbani diventano luoghi di rischio. Nel Sud ci
sono città senz’acqua potabile, alle prese con sistemi fognari vecchi e
inadeguati.
Chi, in questo periodo di grande pressione antropica, gira per le cittadine
di mare – il cuore del nostro turismo balneare – può avvertire il fetore di
fogna che si spande per le strade.
Ma dovunque, città o piccoli centri, soffocati dal traffico, si avverte uno
stato di assenza di manutenzione degli spazi pubblici, le periferie sono invase
da erbe e immondizie, gli spazi verdi non ricevono alcuna cura.
Dunque sono le grandi opere la risposta a questo precipitare? Non
facciamoci ingannare: il riscaldamento della Terra non sarà arrestato. Quali
che saranno le iniziative dei governi, noi dovremo fare i conti con mutamenti
di vasta portata per un periodo incalcolabile.
E allora le terre fertili, i boschi, le acque, gli spazi abitabili delle
colline e delle montagne diventato preziosi, un patrimonio di riserva che non
possiamo dilapidare.
E noi, che crediamo nelle piccole opere, sappiamo quali sono i soggetti in
grado di invertire la rotta di un indirizzo nefasto che assegna valore solo ai
manufatti in cemento.
Sono i comuni, l’ossatura storica del territorio italiano. Rimettiamo i
comuni al centro del suo governo. Alla luce del fallimento storico delle
Regioni, diamo risorse e competenze a questi organi, investiamo nei nostri
giovani laureati, impediamo che portino altrove il loro sapere e la loro
energia.
Articolo pubblicato su il Manifesto
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