lunedì 23 agosto 2021

L’Italia che va in fumo - Piero Bevilacqua


Ricordate il teorema del lampione? Un uomo, mentre rientra a casa, perde le chiavi davanti al portone. E’ notte, è buio, le cerca invano per un po’, poi scorge alcuni metri più avanti la luce di un lampione e vi si dirige.

Là non le troverà, ma almeno riuscirà a vedere dove mette i piedi. Viene in mente questa storiella quando si pensa alle recenti uscite del governo, che riprende (con diverso impegno) i vecchi progetti delle grandi opere, il Tav in Val di Susa e il Ponte sullo Stretto.

Non affronta nessuno dei gravi problemi del territorio italiano e però sa come muoversi. Può rivolgersi a grandi imprese di costruzione, utilizzare meccanismi collaudati di strumentazione finanziaria (financing projet), assoggettare un pezzo di territorio plasmato da secoli dalle popolazioni locali, e ottenere alla fine un prodotto finito, per il quale ricevere applausi dal grande pubblico.

Non torno sulle ragioni che si oppongono a queste opere, argomentate con competenza da tanti esperti e studiosi. E tengo a precisare che non nutro pregiudizi sulle grandi opere in sé.

Nel territorio impervio della Penisola è stato necessario far ricorso a imprese di alta ingegneria per dotare il paese di una moderna infrastrutturazione.

Anche se sappiamo che tanta ingegneria, nell’Italia repubblicana, è stata impiegata soprattutto per le autostrade. Sicché oggi ci troviamo privi di un sistema ferroviario per le merci lungo la Penisola, mentre le autostrade, (e le statali, le provinciali, le comunali) sono flagellate da autotreni, camion, furgoni.

Oggi tutto il sistema della mobilità, anche urbana, è esploso. E fa sorridere l’enfasi sulle auto elettriche. Il problema non sono solo i motori delle auto, ma soprattutto le auto. Ormai anche il più piccolo dei paesi è soffocato dal traffico automobilistico.

Ma la cultura economica di chi ci governa, rimasta al ‘900, una cultura pre-ecologica, non considera lo spazio un bene, perché non lo identifica con una merce, e non riesce a valutare il crescente disagio di vita dei cittadini che lo perdono.

Ma la considerazione fondamentale da fare è un’altra. Riproporre oggi il Tav e il Ponte sullo Stretto è come portare un ferito con fratture multiple dall’estetista, anziché in ospedale.

Investire somme ingenti ( il Ponte a totale carico dello stato) per queste opere è una scelta delittuosa di fronte allo stato della Penisola. Debbo ricordarlo. Sull’Italia incombe la più grave questione territoriale e ambientale d’Europa: è il progressivo spopolamento e abbandono delle aree centrali dello Stivale e il corrispondente intasamento delle zone a valle. Si tratta di uno squilibrio all’interno del quale si svolgono i più vari e distruttivi fenomeni.

 

Nelle zone interne, appenniniche e preappenniniche, si perdono terre fertili, vanno in rovina patrimoni abitativi, si deteriorano i nostri boschi. La ragione fondamentale, insieme ai mutamenti climatici, di incendi così vasti e devastanti come quelli che hanno distrutto le selve delle Sardegna e della Sicilia, e che ancora si accaniscono in Calabria e altrove, è l’assenza degli uomini.

Mancano le economie agricole e forestali di un tempo, la cura dei boschi e dei territori contermini. E gli incendi non devastano solo aziende, patrimoni vegetali, tesori di biodiversità anche animale, ma trasformano i boschi d’altura, che sono i serbatoi d’acqua d’Italia, in suoli carbonizzati destinati a franare.

 

A valle accade che, a ogni temporale intenso, ormai sempre più frequente, fiumi e torrenti lasciati senza cura devastino abitati, aziende, ponti e strade. Quando piove gli spazi urbani diventano luoghi di rischio. Nel Sud ci sono città senz’acqua potabile, alle prese con sistemi fognari vecchi e inadeguati.

Chi, in questo periodo di grande pressione antropica, gira per le cittadine di mare – il cuore del nostro turismo balneare – può avvertire il fetore di fogna che si spande per le strade.

Ma dovunque, città o piccoli centri, soffocati dal traffico, si avverte uno stato di assenza di manutenzione degli spazi pubblici, le periferie sono invase da erbe e immondizie, gli spazi verdi non ricevono alcuna cura.

Dunque sono le grandi opere la risposta a questo precipitare? Non facciamoci ingannare: il riscaldamento della Terra non sarà arrestato. Quali che saranno le iniziative dei governi, noi dovremo fare i conti con mutamenti di vasta portata per un periodo incalcolabile.

E allora le terre fertili, i boschi, le acque, gli spazi abitabili delle colline e delle montagne diventato preziosi, un patrimonio di riserva che non possiamo dilapidare.

E noi, che crediamo nelle piccole opere, sappiamo quali sono i soggetti in grado di invertire la rotta di un indirizzo nefasto che assegna valore solo ai manufatti in cemento.

Sono i comuni, l’ossatura storica del territorio italiano. Rimettiamo i comuni al centro del suo governo. Alla luce del fallimento storico delle Regioni, diamo risorse e competenze a questi organi, investiamo nei nostri giovani laureati, impediamo che portino altrove il loro sapere e la loro energia.

 

Articolo pubblicato su il Manifesto

 

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