lunedì 2 agosto 2021

GLI ALLEVAMENTI INTENSIVI SONO DISUMANI, MA PREFERIAMO IGNORARLO E CONTINUIAMO A SFONDARCI DI CARNE - Francesca Faccini

 

La domanda di prodotti di origine animale a livello globale è costantemente in crescita. Il consumo di carne annuo pro capite tocca i 60 kg in Cina, i 115 negli Stati Uniti, gli 80 in Europa e nello specifico i 79 in Italia. Queste cifre richiedono una produzione massiccia, spesso soddisfatta dagli allevamenti intensivi, una forma di allevamento nata quasi per caso nel 1923, quando una signora del Delaware di nome Celia Steele ricevette 500 pulcini al posto dei 50 ordinati. Invece che restituire l’eccedenza, Steele decise di allestire per loro un capannone e di nutrirli di mais e integratori facendoli così sopravvivere all’inverno. A fronte di questo inaspettato successo, le bastò replicare l’operazione per diventare milionaria e dare forma a un metodo che in poco tempo diventò quello dominante nella maggior parte del mondo.

 

Per soddisfare l’ingente richiesta del mercato, da decenni scienza e tecnologia sono diventate strumenti utili al fine di modificare il normale sviluppo degli animali e incrementare la loro produttività. Gli animali vengono assoggettati a diverse forme di interventi che coinvolgono anche miglioramenti genetici a scopi commerciali, basti pensare alle galline ovaiole e ai polli, le prime allevate per deporre uova, i secondi per la produzione di carne. Sebbene la muta forzata – tecnica volta a ripristinare la capacità produttiva delle galline attraverso uno shock all’organismo ottenuto tramite la sospensione per diversi giorni di acqua, cibo e luce – sia oggi vietata, la differenza di produzione media annua di uova tra una gallina in allevamento e una in libertà fa davvero impressione: la prima cifra arriva fino a 285-300 uova, la seconda non raggiunge il centinaio. Tale diversità è facilmente spiegata dal fatto che – in una condizione che prevede la salvaguardia dei cicli naturali – nei mesi invernali la produzione di uova cala drasticamente fino ad arrestarsi a causa del rallentamento della stimolazione ormonale conseguente alla diminuzione del fotoperiodo (ore di esposizione alla luce) nonché alla bassa probabilità di sopravvivenza al freddo degli eventuali pulcini. Tale caratteristica viene annullata dal clima controllato degli allevamenti al chiuso e, presumibilmente, viene a mancare anche nei cosiddetti allevamenti all’aperto o biologici. Sebbene queste ultime due strutture garantiscano agli animali la possibilità di uscire, avendo come fine ultimo il profitto è facile pensare che gli allevatori preferiscano lasciare le galline al caldo nei capannoni così da non veder bloccato il ciclo produttivo.

 

Questioni di stazza e non di produttività sono invece quelle che riguardano i polli o meglio i broiler, un ibrido selezionato geneticamente il cui tasso di crescita è superiore del 400% rispetto al suo predecessore allevato nel 1950. Si stima che a oggi il 90% del pollo da carne in vendita su scala mondiale sia di questo tipo e la spiegazione è presto detta, se si considera il fatto che a soli 42 giorni il pulcino broiler assomiglia già a un pollo adulto. Una sproporzione, quest’ultima, che appare evidente ricordando che dopo 70 giorni un pollo “normale” (a crescita lenta) è ancora un giovane dal petto piccolo. I polli a crescita rapida raggiungono in fretta le dimensioni adatte al macello, ma di contro presentano numerose miopatie, cioè malattie del sistema muscolare. Si tratta di ipertrofia muscolare, una crescita sbilanciata del tessuto connettivo di supporto che compromette l’afflusso di sangue e determina una carenza di ossigeno. Tali condizioni portano a una scarsa qualità della carne che ha meno proteine, più collagene e più lipidi, cioè è più grassa, e si mostra con delle alterazioni quali petto legnoso, petto con striature bianche e la separazione dei fasci in fibre, altrimenti detta “carne a spaghetti”.

 

Il modello di allevamento intensivo non richiede solo un aumento di produzione e capi di bestiame sempre più grossi, ma necessita di corpi animali in grado di sopravvivere a condizioni igieniche scarse, limitazioni di spazio ed esposizioni costanti a diverse malattie. Per questo motivo si fa largamente uso di antibiotici a uso preventivo. Seppur il Consiglio Europeo abbia votato per vietarli entro il 2022, in Italia il 70% degli antibiotici venduti è destinato ai cosiddetti “animali da reddito”. I trattamenti profilattici di massa nei mangimi o nell’acqua stanno incentivando l’antibioticoresistenza, ovvero l’inefficacia di molti antimicrobici per contrastare le malattie umane. La capacità dei batteri di resistere ai farmaci e mutare fino a sopravvivere è un pericolo reale per la salute delle persone dato che tali batteri possono trasmettersi all’uomo attraverso il cibo o l’ambiente rischiando l’insorgere di infezioni antibiotico resistenti. Ad avallare il pensiero che un vero cambio di rotta sia ancora lontano è sufficiente ricordare che a ottobre di quest’anno il Parlamento Europeo ha votato per la riforma della Politica Agricola Comune – il piano europeo di finanziamenti e regole rispetto all’agricoltura e all’allevamento – confermando i sussidi per gli allevamenti intensivi e le aziende agricole monoculture, in aperto contrasto con la strategia per la biodiversità, la strategia “Farm to Fork” e gli obiettivi del Green Deal Europeo. La tabella di marcia per rendere sostenibile l’economia dell’UE prevederebbe infatti la promozione di un’agricoltura biologica e su piccola scala, la riduzione dell’utilizzo di pesticidi nei campi e degli antibiotici negli allevamenti.

 

Se gli animali subiscono mutazioni, cure preventive e alterazioni dei cicli ormonali, le lavoratrici e i lavoratori dei distretti della carne non se la passano molto meglio. Quello negli allevamenti e nei macelli è un lavoro fisicamente e psicologicamente stancante, ripetitivo, che costringe a rimanere in un ambiente rumoroso, maleodorante e che impone ritmi alienanti. La maggior parte della manodopera occupata nel settore è costituita da migranti provenienti da Paesi extra UE (come Albania, Ghana, Costa d’Avorio e Cina) e costretta ad accettare determinate situazioni per paura di perdere il permesso di soggiorno, come è emerso dalla protesta avvenuta nel Modenese nel 2017 che ha visto quelli che vengono definiti gli “schiavi della carne” partecipare a uno sciopero di più di 3 mesi. Le testimonianze raccontano di turni di 10, 12, talvolta 14 ore e di truffe a danni di persone che spesso non conoscono l’italiano ma che sono disposte a firmare tutto per timore di perdere il posto di lavoro. Come riportato dal rapporto 2020 Effat (European Federation of Food Agriculture and Tourism Trade Unions), in Italia, così come in diversi altri Paesi, molte lavoratrici e tanti lavoratori del settore della carne sono assunti attraverso intermediari, imprese subappaltatrici e cooperative con contratti che offrono minori garanzie e stipendi più bassi. Tale sistema di appalti fa sì che al posto del contratto collettivo nazionale del settore alimentare possa essere applicato un contratto di logistica o multiservizi, o addirittura un contratto da operaia/o agricola/o. Secondo le stime delle organizzazioni sindacali e di precedenti ricerche, su circa 58mila addetti nel settore della macellazione e della trasformazione della carne in Italia, il numero delle lavoratrici e dei lavoratori ad appalto ammonta a più di 10mila.

 

Appare dunque evidente come in questo sistema di produzione che utilizza la tecnologia e la scienza – considerate come istituzioni che stabiliscono l’orizzonte del possibile – per soddisfare la richiesta di mercato tutti siano “trattati da bestie”. Come spesso accade, infatti, un modello disposto a perpetrare ingiustizie sugli animali non pone attenzione neanche alle condizioni umane. Sarebbe miope pensare che il problema riguardi esclusivamente la questione animalista: il punto è proprio la disponibilità della società attuale di presentare lo sfruttamento come metodo economico-produttivo accettabile e la tendenza a normalizzare alcune disuguaglianze solo perché lontane dai nostri occhi.

L’altra e l’altro – siano essi polli, galline, donne o uomini – appaiono privati del loro valore di esseri viventi e dunque vengono letteralmente consumati in base alla loro utilità in termini di forza lavoro a basso costo o efficacia come prodotti alimentari. L’attuale sistema di produzione e consumo definisce i corpi animali così come quelli dei migranti, delle lavoratrici e dei lavoratori, corpi che contano poco e fa sì che vengano sistematicamente esposti a tormenti e disparità. Allo stesso tempo più questi corpi subiscono trattamenti del genere meno vengono considerati. Limitando o annullando la nostra attenzione e la nostra responsabilità nei loro confronti ci facciamo complici di tutto questo e neghiamo loro di fatto diritti che sarebbero basilari, non riconoscendone la vulnerabilità. In un’intervista di alcuni anni fa Judith Butler affermava: “Solo la preoccupazione per la comune vulnerabilità umana può impegnare i singoli a proteggere gli altri dalla sofferenza”, una dichiarazione quest’ultima valida anche in un’ottica non antropocentrica. In questo scenario, la precarietà e l’abuso sono normalizzati. Dobbiamo essere consapevoli che il corpo degli animali, così come quello delle persone, è un corpo politico, su cui viene esercitato un potere capace di intendere il presente e il futuro solo in termini di reddito e di produzione.

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