La domanda di prodotti di origine animale a livello globale è costantemente
in crescita. Il consumo di carne
annuo pro capite tocca i 60 kg in Cina, i 115 negli Stati Uniti, gli 80 in
Europa e nello specifico i 79 in Italia. Queste cifre richiedono una produzione
massiccia, spesso soddisfatta dagli
allevamenti intensivi, una forma di allevamento nata
quasi per caso nel 1923, quando una signora del Delaware di nome Celia Steele
ricevette 500 pulcini al posto dei 50 ordinati. Invece che restituire
l’eccedenza, Steele decise di allestire per loro un capannone e di nutrirli di
mais e integratori facendoli così sopravvivere all’inverno. A fronte di questo
inaspettato successo, le bastò replicare l’operazione per diventare milionaria
e dare forma a un metodo che in poco tempo diventò quello dominante nella
maggior parte del mondo.
Per soddisfare l’ingente richiesta del mercato, da decenni scienza e
tecnologia sono diventate strumenti utili al fine di modificare il normale
sviluppo degli animali e incrementare la loro produttività. Gli animali vengono
assoggettati a diverse forme di interventi che coinvolgono anche miglioramenti
genetici a scopi commerciali, basti pensare alle galline ovaiole e ai polli, le
prime allevate per deporre uova, i secondi per la produzione di carne. Sebbene
la muta forzata – tecnica volta a ripristinare la capacità produttiva delle
galline attraverso uno shock all’organismo ottenuto tramite la sospensione per
diversi giorni di acqua, cibo e luce – sia oggi vietata, la
differenza di produzione media annua di uova tra una
gallina in allevamento e una in libertà fa davvero impressione: la prima cifra
arriva fino a 285-300 uova, la seconda non raggiunge il centinaio. Tale
diversità è facilmente spiegata dal fatto che – in una condizione che prevede
la salvaguardia dei cicli naturali – nei mesi invernali la produzione di uova
cala drasticamente fino ad arrestarsi a causa del rallentamento della
stimolazione ormonale conseguente alla diminuzione del fotoperiodo (ore di
esposizione alla luce) nonché alla bassa probabilità di sopravvivenza al freddo
degli eventuali pulcini. Tale caratteristica viene annullata dal clima
controllato degli allevamenti al chiuso e, presumibilmente, viene a mancare
anche nei cosiddetti allevamenti all’aperto o biologici. Sebbene queste ultime
due strutture garantiscano agli animali la possibilità di uscire, avendo come
fine ultimo il profitto è facile pensare che gli allevatori preferiscano
lasciare le galline al caldo nei capannoni così da non veder bloccato il ciclo
produttivo.
Questioni di stazza e non di produttività sono invece quelle che riguardano
i polli o meglio i broiler, un ibrido selezionato geneticamente il cui tasso di
crescita è superiore del 400% rispetto al suo predecessore allevato nel 1950.
Si stima che a oggi il 90% del pollo
da carne in vendita su scala mondiale sia di questo tipo e la spiegazione è
presto detta, se si considera il fatto che a soli 42 giorni il pulcino broiler
assomiglia già a un pollo adulto. Una sproporzione, quest’ultima, che appare
evidente ricordando che dopo 70 giorni un pollo “normale” (a crescita lenta) è
ancora un giovane dal petto piccolo. I polli a crescita rapida raggiungono in
fretta le dimensioni adatte al macello, ma di contro presentano numerose
miopatie, cioè malattie del sistema muscolare. Si tratta di ipertrofia
muscolare, una crescita sbilanciata del tessuto connettivo di supporto che
compromette l’afflusso di sangue e determina una carenza di ossigeno. Tali
condizioni portano a una scarsa qualità della carne che ha meno proteine, più
collagene e più lipidi, cioè è più grassa, e si mostra con delle alterazioni
quali petto legnoso, petto con striature bianche e la separazione dei fasci in
fibre, altrimenti detta “carne a
spaghetti”.
Il modello di allevamento intensivo non richiede solo un aumento di
produzione e capi di bestiame sempre più grossi, ma necessita di corpi animali
in grado di sopravvivere a condizioni igieniche scarse, limitazioni di spazio
ed esposizioni costanti a diverse malattie. Per questo motivo si fa largamente
uso di antibiotici a uso preventivo. Seppur il Consiglio Europeo abbia votato
per vietarli entro il 2022, in Italia il
70% degli antibiotici venduti è destinato ai cosiddetti “animali da reddito”. I
trattamenti profilattici di massa nei mangimi o nell’acqua stanno incentivando
l’antibioticoresistenza, ovvero l’inefficacia di molti antimicrobici per
contrastare le malattie umane. La capacità dei batteri di resistere ai farmaci
e mutare fino a sopravvivere è un pericolo reale per la salute delle persone
dato che tali batteri possono trasmettersi all’uomo attraverso il cibo o
l’ambiente rischiando l’insorgere di infezioni antibiotico resistenti. Ad
avallare il pensiero che un vero cambio di rotta sia ancora lontano è
sufficiente ricordare che a ottobre di quest’anno il Parlamento Europeo ha
votato per la riforma della Politica
Agricola Comune – il piano europeo di finanziamenti e
regole rispetto all’agricoltura e all’allevamento – confermando i sussidi per
gli allevamenti intensivi e le aziende agricole monoculture, in aperto
contrasto con la strategia per la biodiversità, la strategia “Farm to
Fork” e gli obiettivi del Green
Deal Europeo. La tabella di marcia per rendere
sostenibile l’economia dell’UE prevederebbe infatti la promozione di
un’agricoltura biologica e su piccola scala, la riduzione dell’utilizzo di
pesticidi nei campi e degli antibiotici negli allevamenti.
Se gli animali subiscono mutazioni, cure preventive e alterazioni dei cicli
ormonali, le lavoratrici e i lavoratori dei distretti della carne non se la
passano molto meglio. Quello negli allevamenti e nei macelli è un lavoro
fisicamente e psicologicamente stancante, ripetitivo, che costringe a rimanere
in un ambiente rumoroso, maleodorante e che impone ritmi alienanti. La maggior
parte della manodopera occupata nel settore è costituita da migranti
provenienti da Paesi extra UE (come Albania, Ghana, Costa d’Avorio e Cina) e
costretta ad accettare determinate situazioni per paura di perdere il permesso
di soggiorno, come è emerso dalla protesta avvenuta nel Modenese nel 2017 che
ha visto quelli che vengono definiti gli “schiavi della carne” partecipare a
uno sciopero di più di
3 mesi. Le testimonianze raccontano di turni di 10, 12, talvolta 14 ore e di
truffe a danni di persone che spesso non conoscono l’italiano ma che sono
disposte a firmare tutto per timore di perdere il posto di lavoro. Come
riportato dal rapporto 2020 Effat (European
Federation of Food Agriculture and Tourism Trade Unions), in Italia, così
come in diversi altri Paesi, molte lavoratrici e tanti lavoratori del settore
della carne sono assunti attraverso intermediari, imprese subappaltatrici e
cooperative con contratti che offrono minori garanzie e stipendi più bassi.
Tale sistema di appalti fa sì che al posto del contratto collettivo nazionale
del settore alimentare possa essere applicato un contratto di logistica o
multiservizi, o addirittura un contratto da operaia/o agricola/o. Secondo
le stime delle
organizzazioni sindacali e di precedenti ricerche, su circa 58mila addetti nel
settore della macellazione e della trasformazione della carne in Italia, il
numero delle lavoratrici e dei lavoratori ad appalto ammonta a più di 10mila.
Appare dunque evidente come in questo sistema di produzione che utilizza la
tecnologia e la scienza – considerate come istituzioni che stabiliscono
l’orizzonte del possibile – per soddisfare la richiesta di mercato tutti siano
“trattati da bestie”. Come spesso accade, infatti, un modello disposto a
perpetrare ingiustizie sugli animali non pone attenzione neanche alle
condizioni umane. Sarebbe miope pensare che il problema riguardi esclusivamente
la questione animalista: il punto è proprio la disponibilità della società
attuale di presentare lo sfruttamento come metodo economico-produttivo
accettabile e la tendenza a normalizzare alcune disuguaglianze solo perché
lontane dai nostri occhi.
L’altra e l’altro – siano essi polli, galline, donne o uomini – appaiono
privati del loro valore di esseri viventi e dunque vengono letteralmente
consumati in base alla loro utilità in termini di forza lavoro a basso costo o
efficacia come prodotti alimentari. L’attuale sistema di produzione e consumo
definisce i corpi animali così come quelli dei migranti, delle lavoratrici e
dei lavoratori, corpi che contano poco e fa sì che vengano sistematicamente
esposti a tormenti e disparità. Allo stesso tempo più questi corpi subiscono
trattamenti del genere meno vengono considerati. Limitando o annullando la
nostra attenzione e la nostra responsabilità nei loro confronti ci facciamo
complici di tutto questo e neghiamo loro di fatto diritti che sarebbero
basilari, non riconoscendone la vulnerabilità. In un’intervista di alcuni
anni fa Judith Butler affermava: “Solo la preoccupazione per la comune
vulnerabilità umana può impegnare i singoli a proteggere gli altri dalla
sofferenza”, una dichiarazione quest’ultima valida anche in un’ottica non
antropocentrica. In questo scenario, la precarietà e l’abuso sono normalizzati.
Dobbiamo essere consapevoli che il corpo degli animali, così come quello delle
persone, è un corpo politico, su cui viene esercitato un potere capace di
intendere il presente e il futuro solo in termini di reddito e di produzione.
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