Il pesce è consigliato in tutte le diete ed è un elemento fondamentale dell’alimentazione umana a livello mondiale, oggi anche per le popolazioni che vivono lontano dal mare. Secondo la Fao, nel 2017 la produzione mondiale di pesce ha raggiunto i 173 milioni di tonnellate, di cui 90 garantite dalla pesca e 80 dell’acquacoltura. Al Simposio internazionale sulla Sostenibilità della Pesca nel novembre scorso, a Roma, il direttore generale della Fao Qu Dongyu ha dichiarato che, siccome i prodotti della terra non sono più sufficienti per sfamare l’umanità, dobbiamo rivolgerci alle risorse acquatiche. Ma dobbiamo farlo con un approccio molto diverso da quello di oggi. Se è vero, infatti, che è netto (e in crescita) il divario di sostenibilità nella pesca tra Paesi industrializzati – dove aumentano l’attenzione verso gli stock ittici e le condizioni lavorative nel settore – e Paesi in via di sviluppo, come sottolinea la Fao, questo non significa che da noi il comparto sia davvero sostenibile.
Uno
stock ittico – subpopolazione di una specie di
organismo soggetto a pesca commerciale – marino su tre, infatti, è
sovrasfruttato (era solo uno su
dieci circa 40 anni fa) e in acquacoltura il metodo
biologico è difficile da applicare, specialmente negli allevamenti in mare
aperto. Mentre degli altri alimenti – grazie a una cultura e a una sensibilità
sempre più diffuse – indaghiamo la provenienza e le condizioni di produzione,
per il pesce che mettiamo in tavola lo facciamo ancora di rado. E invece,
considerando che una persona consuma in media oltre 20
chili di pesce all’anno – di cui circa 9 di
pescato e più di 11 da
acquacoltura – una parte del potere decisionale ricade sui consumatori.
Troppo spesso questi
sono poco informati sulle problematiche del comparto ittico: per esempio sui
danni ambientali che questo causa tra cui 43
milioni di tonnellate di gas serra
emessi ogni anno e ingenti consumi di acqua, ossigeno, energia elettrica e
farmaci. Si parla di tonnellate anche per i rifiuti e i liquami scaricati in
mare e nei fiumi, dove alcune sostanze in eccesso eutrofizzano le acque,
provocando una sovrabbondanza di alghe microscopiche e quindi, di attività
batterica che porta alla morte delle forme di vita dei paraggi consumando
ossigeno – come sottolinea Agnese Codignola nel libro Il
destino del cibo. Inoltre, un terzo del
pesce di allevamento non arriva direttamente in tavola, ma diventa nutrimento
per altri pesci considerati più pregiati. Un chilo di pesce per crescere
necessita infatti di almeno 2 chili di
mangime a base di pesce selvatico, che richiede grandi quantità di energia e
risorse, oltre alle emissioni relative: uno spreco che potrebbe essere evitato
saltando il passaggio intermedio, cioè allevando per la nutrizione umana
direttamente le specie considerate meno pregiate.
Tra gli scarti
prodotti dall’allevamento ittico ci sono ogni anno più di 500mila
tonnellate di escrementi, dovute alla ricchezza di fibre
nella dieta imposta ai pesci allevati rispetto all’alimentazione che seguono in
natura: la percentuale di vegetali in trent’anni è passata dal 10% al 70% del
volume del mangime. Negli escrementi si concentrano inoltre i residui dei
medicinali che vengono somministrati ai pesci spargendoli in acqua, e che si
diffondono anche al di fuori dei confini degli allevamenti, soprattutto in mare
aperto. L’ambiente in cui i pesci sono costretti è infatti così insalubre e
sovraffollato – paragonabile a quello in cui vivono i polli in batteria – che
gli animali si ammalano e si trasmettono parassiti l’un l’altro, come
dimostrano diversi casi di epidemie.
Per tenere a bada
l’assalto continuo di pidocchi, alghe e parassiti, l’acquacoltura impiega tonnellate di
antibiotici, alghicidi, erbicidi, disinfettanti e insetticidi. E persino antidepressivi,
per evitare che i pesci depressi smettano di mangiare e si lascino morire. Gli
allevamenti in mare finiscono per contaminare anche i pesci liberi, che
assorbono le sostanze e ne subiscono le conseguenze. Inoltre, negli allevamenti
si fa uso massiccio di fosforo – di cui la Norvegia da sola sversa 9mila
tonnellate all’anno in mare, accelerando la crescita delle
alghe eutrofizzanti – e di rame: altamente tossico per l’ecosistema acquatico,
ha visto il suo utilizzo raddoppiare negli ultimi dieci anni e per l’ l’85% viene
disperso proprio in mare. Ma le sostanze pericolose non finiscono qui: secondo
un studio pubblicato
su Nature, gli abitanti di 66 Paesi mangiano pesce nel quale la
concentrazione di mercurio – prodotto da attività umane e naturali e accumulato
nei mari – è superiore a quella ritenuta pericolosa per un feto in crescita.
Anni fa Commissione
europea e Parlamento europeo hanno sollevato preoccupazioni legate
alle “sostanze indesiderabili” nei mangimi animali, tra cui farine di pesce e
olio di pesce che sono i più contaminati dalla diossina, e all’impiego di
antibiotici per accelerare la crescita. I maggiori rischi derivano dall’inquinamento
del Mare del Nord e del Baltico, da dove proviene buona parte del pesce
utilizzato nei mangimi degli allevamenti. Le concentrazioni più alte di
inquinanti si trovano nei pesci di pezzatura maggiore, come il salmone,
soprattutto se allevato in vasche che ne restringono al massimo la possibilità
di movimento, ma anche perché le sostanze dannose si accumulano soprattutto nel
grasso che abbonda nei pesci più pregiati. Anche l’Efsa (Ente Europeo per la
Sicurezza Alimentare), si pose
il problema di diossina e Pcb (policlorobifenili), che
possono alterare il funzionamento degli ormoni tiroidei e interferire con lo
sviluppo del sistema nervoso e sono classificati dalla Iarc (International agency for research
on cancer) come probabili cancerogeni.
Ma il pesce fa bene,
ci è stato detto, anche esagerando le sue proprietà come per esempio quelle
degli acidi grassi omega-3. L’hanno fatto diversi
studi, anche finanziati dalle aziende, ma in realtà non
sembra che gli omega-3 facciano la differenza,
limitandosi a diminuire di qualche unità percentuale il rischio cardiovascolare
in chi ha già avuto un infarto. Inoltre, come sottolineano il giornalista e
attivista Paul Greenberg e gli esperti della Harvard T.H. Chan School of Public
Health di Boston nel libro The
Omega Three Principle, l’effetto positivo
degli omega-3 osservato in vitro in laboratorio non necessariamente
si realizza anche in vivo, in un organismo complesso, né è
automatico che aumentando la quantità di omega-3 assunti cresca anche l’effetto
benefico. Ma il marketing è stato così potente da farci concentrare sulle
benefiche proprietà del pesce, accantonando le preoccupazioni per le microplastiche che
ingerisce e per le
contaminazioni e le malattie a cui è
esposto, dai parassiti come l’anisakis,
ai microrganismi quali il norovirus responsabile
di infezioni gastroenteriche, all’istamina che
provoca reazioni allergiche, fino all’acqua ossigenata usata per sbiancare la
carne o i coloranti per dare al salmone il suo tipico colore. Ignorando tutto
questo nutriamo una macchina altamente inquinante, che è anche una macchina di
morte lenta e dolorosa per gli animali.
Delle circa 64mila tonnellate
di orate e branzini importate in Italia nel solo 2016, quasi
40mila arrivavano dagli allevamenti greci, con un
prezzo di circa la metà rispetto a quelli allevati nel nostro Paese. Si tratta
per lo più di stabilimenti sovraffollati, in cui le condizioni del pesce sono
anche peggiori di quelle di polli e maiali, ma non ce ne interessiamo perché
sono meno visibili. Negli allevamenti e nelle aziende di lavorazione i pesci
sono uccisi
in modo brutale e, anche laddove si pratica
prima lo stordimento, i metodi usati sono spesso inefficaci e comportano stress
e sofferenza, come sottolinea l’Organizzazione
Mondiale per la Sanità Animale (Oie). Dall’asfissia nel ghiaccio di orate e
spigole a quella senza ghiaccio per le trote, il tempo dell’agonia degli
animali varia tra i 55
e i 250 minuti. Il metodo del congelamento con anidride
carbonica, invece, non garantisce lo stordimento dei pesci, che mostrano chiari
segni di agitazione e stress, mentre prima dello stordimento tramite colpo in
testa – che può essere impreciso – i pesci passano lunghi periodi fuori
dall’acqua. La decapitazione delle carpe, infine, non segue le linee guida
dell’Oie, che
indica lo stordimento tramite elettricità come uno dei
metodi più rapidi e precisi, ma ancora poco diffuso.
La scienza ha
dimostrato che i pesci provano dolore, ma non facciamo
nulla per impedire la loro sofferenza. Ce ne preoccupiamo così poco perché i
pesci sono ai nostri occhi “meno carini” di altri animali da allevamento, più
piccoli e lontani da noi. Come ha dimostrato uno studio pubblicato
su Scientific Reports nel 2019, più un organismo è distante
dalla percezione dell’uomo e meno proviamo empatia nei suoi confronti. Ma per
essere giusti bisogna guardare a tutte le specie animali con razionalità e
senza umanizzarle, ma considerarle degne di compassione anche se non sono
simili a noi o al nostro amato cane.
Divorati vivi dai
parassiti, imbottiti di medicinali e ammassati in condizioni che nel caso di
altri animali sono considerate crudeltà, i pesci sono vittime della lontananza
evolutiva. Subiscono sovraffollamento, inquinamento, sofferenza e una morte che
spesso è anche inutile: ogni anno 10
milioni di tonnellate di pesci
vengono ributtati in mare perché non idonei alle richieste del mercato. Sono
circa 550 le
specie allevate oggi in 190 Paesi
per sostenere un modello sbagliato e irrazionale che sostiene un’alimentazione
umana basata su appena 25
specie, tra le quali a dominare sono soltanto tonno,
salmone, spigola e merluzzo. Un modello di allevamenti intensivi che costano
sprechi, inquinamento e dolore gratuito degli animali, che non possiamo fare
più finta di ignorare solo per permetterci un sushi all you can eat in
più al mese.
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