La mobilità, spostarsi da un posto all’altro, fa parte dell’essenza stessa della specie umana: che si è diffusa in tutti i continenti attraverso le migrazioni originarie, mentre altri spostamenti di massa sono stati effettuati da eserciti invasori, come nelle crociate, o da eserciti con al seguito interi popoli come nelle invasioni barbariche; o con deportazioni verso colonie di popolamento, compresa la tratta degli schiavi messa in atto tra il XVI e il XIX secolo.
La mobilità per scelta individuale è stata invece per secoli privilegio di ristrette élite: mercanti, esploratori, intellettuali, re e regine che prendevano possesso di nuovi territori con un matrimonio, pellegrini (l’equivalente degli hippies del ventesimo secolo).
Con la rivoluzione industriale, cioè con l’avvento della macchina a vapore, dell’uso massiccio del carbone, con il treno e i battelli a motore, l’accesso alla mobilità è andato allargandosi a sempre più gente (tanto che le migrazioni degli ultimi due secoli, per quanto abbiano mobilitato grandi masse, sono state in gran parte il risultato di scelte individuali). Il turismo di massa, promosso e reso possibile dalla diffusione dell’automobile, ha poi esteso l’accesso alla mobilità dall’ambito del lavoro e dalle esigenze esistenziali di base al piacere e all’uso del tempo libero.
Ma quasi contestualmente, la civiltà dell’automobile ha trasformato il mezzo di trasporto più usato da collettivo a individuale. Nata come “gingillo” di un’élite privilegiata, l’auto permetteva di evitare percorsi, fermate, orari fissi e “promiscuità sociale” durante il viaggio e nelle stazioni. Permetteva di andare dove si voleva, quando si voleva, con chi si voleva; a condizione di possederne una. Tuttavia, la sua diffusione a una platea sempre più vasta di utenti ha finito per annullare e invertire queste caratteristiche: oggi l’auto è la principale fonte di congestione delle strade e ruba spazio, tempo e salute a tutti, sia automobilisti che pedoni o utenti del servizio pubblico.
Con l’automobile la mobilità, da bene collettivo, è stata privatizzata e ha portato a una sorta di appropriazione privata del suolo stradale (per il transito e per il parcheggio), dell’aria (inquinandola), del tempo (bloccando nel traffico anche chi l’auto non la usa), mettendo a repentaglio il reddito di molte famiglie (i costi di acquisto e gestione raggiungono per molti quasi metà dello stipendio). Il tutto a scapito del trasporto pubblico che è un bene comune. Ma l’auto privata conserva, anche se solo in parte, il principale fattore che ne ha determinato il successo: per secoli l’élite ha continuato a spostarsi a cavallo, in carrozza o facendosi trasportare in portantina, mentre il popolo andava a piedi. L’auto ha permesso a chiunque di farsi trasportare dove vuole: di trasformarsi da fante in cavaliere. Non solo: la diffusione dell’auto privata corrisponde, ma soprattutto promuove, uno stile di vita “privato”, incentrato sull’individuo e sulla famiglia, valori al centro della cultura “americana” del XX secolo. Le principali aziende automobilistiche degli Stati uniti, in stretta collaborazione con i governi federali, statali e municipali, si sono adoperate per smantellare tutte le reti di trasporto pubblico collettivo per fare spazio all’automobile. Lo stesso hanno fatto molti altri governi dell’Occidente, e poi del mondo “comunista” e post-comunista, impegnando nello sviluppo dell’industria automobilistica e della rete stradale, e persino nella demolizione dei centri storici incompatibili con il traffico automobilistico, risorse sempre più ingenti sottratte alla mobilità collettiva. Se l’auto ha impresso il suo marchio su un’intera epoca (il XX secolo è stato indubitabilmente il secolo dell’automobile; oltre che della bomba atomica) non è però solo per aver trasformato i fanti in cavalieri. È stata per molto tempo, con la continua variazione e differenziazione dei modelli che Henry Ford, con il suo modello T, tutto nero e sempre uguale, non era riuscito a impedire, un imprescindibile status symbol. Oggi non lo è più, o lo è molto meno: nelle grandi città europee e in Giappone molti fanno ormai volentieri a meno di possedere un’auto propria.
Oggi nel mondo “circolano” (in realtà per lo più stanno fermi) un miliardo e 200 milioni di automobili e ne vengono prodotte oltre 80 milioni all’anno; nel 2030 dovrebbero raggiungere i due miliardi; nel 2050, con un tasso di motorizzazione pari a quello medio dell’Europa (in Italia è molto più alto) i cinque miliardi. Anche se fosse “fattibile” dal punto di vista economico – e non lo è – questo “sviluppo” non avrà luogo: il nostro pianeta non è in grado di ospitare una estensione della superficie stradale sufficiente a farle circolare, di fornire le risorse necessarie a costruirle, di generare l’energia necessaria a muoverle, di assorbire le emissioni che producono, se anche solo una parte di esse continuasse a utilizzare, direttamente o indirettamente, combustibili fossili. L’era dell’automobile, così come l’abbiamo conosciuta, è destinata a finire presto: in una generale catastrofe climatica, ambientale e sociale, oppure con la transizione a una mobilità condivisa, sia collettiva che personalizzata, più comoda, più economica, più sana e ambientalmente compatibile. Con le strade, soprattutto quelle urbane, sgombre da auto private in motto o parcheggiate, si apre uno spazio immenso per il potenziamento del trasporto pubblico, della mobilità flessibile e di quella dolce: biciclette e pedoni.
Ciò che ha permesso la nascita dell’era dell’automobile è stata una tecnologia: il motore a combustione interna; più leggero e meno ingombrante della macchina a vapore e soprattutto alimentato da un combustibile più duttile del carbone. Da tempo, lo sviluppo delle ICT ha reso possibili diverse forme, sia collettive che individuali, di condivisione del veicolo: car sharing, car pooling, anche dinamico (cioè combinato “in tempo reale”), trasporto a domanda. Se ci fossero servizi adeguati, possedere un’auto non sarebbe più necessario per poterla usare quando e come si vuole, e il loro numero potrebbe diminuire anche di un quoziente 5. Presto, ci dicono, arriverà l’auto a guida autonoma (anche se c’è da dubitare della sua diffusione). Niente sarebbe più ridicolo, allora, del possedere un’auto a guida autonoma posteggiata sotto casa o in un garage invece di chiamarne una quando serve, come oggi si fa con il taxi. D’altronde, come scrive l’economista Vincenzo Comito, la guida autonoma, ma anche solo la propulsione elettrica, sono destinate a trasformare l’auto in una specie di “telefono con le ruote”: fino all’80 per cento del suo valore sarà generato da settori che con l’auto tradizionale non hanno niente a che fare – motore elettrico, elettronica, informatica, telecomunicazioni, ecc. – e solo il 20 per cento rimarrà sotto il controllo dell’industria che l’ha prodotta finora. Ma se ne produrranno comunque molto di meno.
Oltre a ciò, per anni l’automobile è stata, e lo è ancora oggi, con i suoi impianti di produzione di massa, ma anche con le attività a monte – costruzione di strade, gallerie e viadotti, produzione e distribuzione di combustibile e di componenti, marketing e pubblicità – e a valle della sua produzione – rifornimento e manutenzione, custodia, grandi centri commerciali, gare e rally, vacanze – il principale “datore di lavoro” del secolo. Per questo, se è difficile staccarsene dal punto di vista della domanda, ancora di più lo è dal punto di vista dell’offerta: governanti e manager del pianeta, indissolubilmente legati al paradigma della crescita – che altro non è che accumulazione del capitale – e al mito che si debba lavorare sempre di più, anche se ad avere un “posto di lavoro” sono sempre di meno, non sanno con che cosa sostituirla come “motore dello sviluppo”.
Ma è proprio dal paradigma della crescita che dobbiamo prendere le distanze se vogliamo salvare quel che resta degli equilibri climatici e ambientali del pianeta e con essi il futuro della nostra specie. L’auto individuale, proprio per il ruolo centrale che ha avuto e ha ancora sia nello stile di vita di chi ce l’ha e nell’immaginario collettivo dei miliardi di esseri umani che non ce l’hanno (ma chi di loro non ne desidera una?) sia nel funzionamento di un sistema economico estrattivo, indissolubilmente legato alla crescita dei PIL, è di fatto – per il consumo di materiali, di spazio, di energia e di tempo che comporta – una sorta di “cartina al tornasole” del modo in cui viene concepita la transizione verso una società e un’economia sostenibili, ovvero la conversione ecologica. In questa critica, lascio da parte i negazionisti del clima, sempre di meno nel mondo del dire, ma sempre di più in quello del fare o, meglio, del non fare: cioè dei comportamenti effettivi.
Sta di fatto che per molti economisti, ma anche per molti “ambientalisti”, non c’è bisogno di rinunciare ad avere un’auto: la propulsione elettrica la renderà sostenibile – che ne sarà dei miliardi di esseri umani che ancora non ne hanno una non sembra fare problema – così come sostanzialmente non c’è da rinunciare alla maggior parte dei tratti che caratterizzano il nostro stile di vita (a partire dai viaggi e dalle vacanze, oggi la principale industria del pianeta, non a caso strettamente intrecciata con il mondo dell’auto). Il problema è renderli sostenibili. Ma come?
Con il disaccoppiamento tra aumento dei PIL e consumo delle risorse, rispondono: un vero e proprio mito, che a trent’anni dalla pubblicazione del rapporto delle Nazioni unite Our Common Future, curato da Gro Brundtland, è stato sistematicamente contraddetto dai fatti e smentito da tutte le ricerche empiriche in proposito (vedi per esempio la metaricerca Decoupling Debunked – Evidence and arguments against green growth as a sole strategy for sustainability, The European Environmental Bureau www.eeb.org, 2019). Ma questa è purtroppo la filosofia che sta alla base dei due programmi delle Nazioni Unite Millennium Development Goals 2000-2015 e, soprattutto, Sustainable Development Goals 2015-2030, che lo ha sostituito ed è tuttora in vigore. Molti di quegli obiettivi sono ovviamente condivisibili, ma l’obiettivo 8 del secondo programma, quello in vigore, lega in modo indissolubile creazione di “lavoro decente” e “crescita economica”, dove il driver è evidentemente la seconda. Ma, soprattutto, poiché il diavolo sta nei dettagli, al punto 17 dell’obiettivo 17 dei SDG, relativo alle partnership per sostenere lo sviluppo, troviamo la promozione di partnership pubblico-privato, che è la forma in cui in tutto il mondo vengono privatizzati i beni comuni, a partire dall’acqua; sotto la formula: proprietà pubblica ma gestione privata. Ma senza trascurare altre partite fondamentali come la sanità. Oggi, per esempio l’OMS è in gran parte in mano alle multinazionali del farmaco e ad alcune fondazioni filantropiche ad esse legate, che la finanziano; cosa all’origine, tra l’altro, del mantenimento del brevetto sui vaccini anti-covid. E la lotta contro la crisi climatica rischia di essere sequestrata dai grandi progetti di geoingegneria, promossi da figure come Bill Gates, finalizzati con tutta evidenza a mantenere in vita il ricorso ai combustibili fossili. Ma è difficile che anche l’evoluzione della mobilità non venga influenzata dai meccanismi di project financing in cui si materializza la partnership pubblico-privato, come sta avvenendo anche all’interno del PNRR italiano nel campo delle infrastrutture.
Non so quale consapevolezza dei rischi connessi a questo approccio ci sia in alcune delle organizzazioni che partecipano del progetto di Generazioni future e che propongono come riferimento obbligato, se non come vero e proprio programma politico, proprio gli SDG. A mio avviso, e della associazione Laudato sì di cui faccio parte, e della interpretazione dell’enciclica di papa Francesco di cui questa associazione si è fatta promotrice, la conversione ecologica non può limitarsi a una transizione energetica verso le fonti rinnovabili – il cui programma, peraltro, è ben lungi da una solida ricezione – né a una “rimodulazione dei consumi” che non metta in discussione i rapporti tra individui, popoli e il resto del vivente e l’intero pianeta; proprio quei rapporti che caratterizzano una economia estrattiva come quella in cui siamo immersi, paralizzata dall’incapacità di abbandonare il paradigma della crescita.
C’è qualcosa di profondo, che riguarda il senso stesso della nostra esistenza sulla Terra, che vuole ritornare in primo piano per orientare l’intero arco dei nostri comportamenti. Ma forse, proprio la riflessione su un dato banale, e apparentemente superficiale, come il nostro rapporto con l’automobile e con la civiltà dell’automobile può aiutarci a riorientare il nostro atteggiamento verso molte altre cose, anche molto più importanti.
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