Da alcuni anni tutto il mondo è scosso
da un inquietante aumento degli incendi.
In queste ora un devastante incendio,
tra gli altri, sta interessando l'Oregon,
uno dei peggiori della storia americana;
un altro, drammatico, con diversi morti,
è in corso in Turchia;
è bruciata la pineta di D'Annunzio a Pescara,
la Sicilia e la Calabria sono preda delle fiamme.
Incendi di estensione e intensità straordinaria,
quest'anno, si sono avuti in Siberia,
in Canada e persino in Finlandia.
Tutto il bacino del Mediterraneo, la California,
le zone predesertiche dell'Australia e dell'America Settentrionale e Meridionale,
per non parlare dell'Africa,
sono interessate in questo momento
da devastanti incendi,
dove purtroppo si contano i morti.
In Portogallo, nel 2017, in un devastante incendio
di oltre 50 mila ettari, sono morte 65 persone.
Un anno dopo, nella Grecia, la tragedia dell'Attica,
con oltre 100 morti.
Grecia che sta bruciando nuovamente in queste ore,
nei dintorni di Atene, con diverse vittime, feriti, sfollati.
Le cause di innesco, di questi incendi,
sono le più disparate.
Le statistiche del CFVA, in Sardegna,
ne elencano decine, per non dire centinaia.
Ed è verosimile che esse siano simili tra le varie parti del mondo.
Laddove i fattori predisponenti di rischio sono elevatissimi, basta un niente per scatenare un incendio.
Basta una scintilla.
Il discorso, spesso forcaiolo, complottista,
nei casi più sofisticati pseudo sociologico
sulle cause “colpevoliste” degli incendi in Sardegna,
rischia di diventare un ragionamento sterile,
buono solo per la catarsi collettiva,
o per la visibilità di politici, giornalisti
e opinionisti.
Ogni anno in Sardegna partono circa 3000 incendi,
e le cause accertate sono le più disparate.
Decine e decine di cause diverse,
che vanno dalla mancata manutenzione
delle linee elettriche pubbliche e private
alle cicche di sigarette,
dall'uso di attrezzi elettrici
alle grigliate tra amici,
dagli incendi scaturiti da mezzi agricoli
a quelli provenienti da automezzi stradali,
dagli abbruciamenti abusivi
al disagio sociale,
dalle vendette tra vicini di terreno
alle liti per questioni di caccia,
dal vandalismo alla piromania, e così via.
In realtà in questo “così via”,
vi sono tante cause assurde
he neppure la più fervida fantasia potrebbe arrivarci,
ma che gli addetti ai lavori conoscono:
l'autocombustione dei fienili,
gli uccelli che prendono fuoco posandosi sulle linee elettriche,
il fulmine che colpendo la recinzione in fil di ferro appicca
il fuoco per centinaia di metri lungo tutta la sua lunghezza.
Il dato caratterizzante di queste cause, dunque,
sta nella sua molteplicità e nei fattori predisponenti di rischio.
È per questo che è un esercizio sterile individuare
una sola causa, magari eccitante e suggestiva,
come fattore risolutore del problema.
In Sardegna e, per riflesso, per sentito dire, in Italia, l'analisi delle cause degli incendi
è ancora ferma a suggestioni giornalistiche,
complottismi di varia natura,
condite talvolta di denigrazione autorazzista.
È giunto il momento di interpretare seriamente
la situazione che l'intero pianeta sta vivendo,
analizzando le cause degli incendi
in un contesto globale.
Comprendere dunque che l'isola
non è l'ombelico del mondo incendiario
è fondamentale per comprendere il fenomeno.
La Sardegna è semplicemente in linea
con la sua area geografica di rischio incendi,
che era, ed è, altissima, a causa del clima,
del vento caratteristico, della morfologia
e della estensione e tipologia vegetazionale.
Gli incendi giungono laddove il clima
è un fattore predisponente,
oppure dove episodicamente arriva la siccità.
Tre grandi macrocause comuni a tutto il mondo.
Tenuto conto di tutto ciò,
si possono distinguere tre macrocause
dell'aumento del fenomeno,
che si possono poi applicare allo specifico sardo.
- La prima causa, più generale,
riguarda i cambiamenti climatici,
con l'aumento della siccità e della temperatura;
- La seconda causa riguarda
l'urbanizzazione incontrollata
e la fuga dall'agricoltura
in tante parti del mondo, specie occidentale,
con il conseguente abbandono di terreni una volta curati e coltivati;
Un fenomeno epocale che è incominciato
con l'industrializzazione prima,
proseguito con il consumismo,
e infine con la terziarizzazione della società;
- La terza causa riguarda una generale
tendenza culturale e politica di stampo neoliberista,
che trascura parti importanti dei servizi pubblici,
la sanità, i servizi primari, e anche l'antincendio.
Una generale concezione privatistica dell'economia
che ha finito per avere, in Sardegna,
degli esiti particolarmente destabilizzanti.
I cambiamenti climatici.
La terra, tutta, sta diventando una gigantesca polveriera.
Una verità difficile da accettare,
che spesso viene trascurata dall'opinione pubblica.
L'ecologia del pianeta è in grave difficoltà.
Sotto questo punto di vista, incendi
e virus infettivi sono facce di un'unica medaglia.
I cambiamenti climatici, l'effetto serra,
il buco nell'ozono, pongono nuove sfide all'umanità.
E la Sardegna, fino a prova contraria,
non è un mondo a parte.
Ma ragionare su temi globali,
in Sardegna e anche in Italia
(lo dico dopo aver scorso le solite analisi dei più importanti quotidiani nazionali,
sempre viziati dalle solite suggestioni),
ha un grande valore culturale.
Non è astrattismo.
È fondamentale per quel salto culturale importante
per affrontare con determinazione alcuni temi fondamentali,
come quelli della prevenzione
e della gestione del territorio.
Il territorio e il suo abbandono.
La gestione del territorio in Sardegna,
merita un piccolo excursus storico.
A partire dagli anni '60 e '70 del '900,
con una recrudescenza in questi ultimissimi anni,
dinamiche sociali tumultuose hanno portato
all'abbandono del territorio,
delle zone montane meno produttive,
dei piccoli paesi dell'interno.
L'abbandono dell'agricoltura, in particolare,
è incominciato negli anni dell'industrializzazione forzata,
del benessere e del boom economico.
Una trasformazione sociale
accompagnata dalla propaganda del consumismo,
che dipingeva tutto quello che era “autoproduzione”,
come vecchio, inutile, fuori moda, rozzo e villano.
Tutto si doveva comprare, consumare, usare e gettare.
Il mondo agricolo era alternativo al nuovo sistema,
e andava dipinto nel peggior modo possibile.
La recrudescenza degli incendi, spesso,
è il sintomo di un mutamento sociale
del rapporto tra l'uomo e il territorio.
Non è un caso che, al culmine di quel mutamento sociale,
negli anni '80, fino ai primi degli anni '90,
la Sardegna fu scossa da eventi incendiari disastrosi.
Incendi inarrestabili che correvano per giorni e spesso si fermavano davanti al mare,
o ad ostacoli naturali.
Gli incendi più tragici, in quegli anni,
con decine di morti, si scatenarono nella Gallura.
Non a caso.
Negli anni '70, nel giro di pochissimo tempo,
era tramontata la secolare “cultura degli stazzi”,
fondamentale struttura sociale ed economica della Gallura,
che aveva la particolare caratteristica
di essere articolata nel territorio.
Uno straordinario presidio che occupava,
con coltivazioni cerealicole, vigneti, orti e sugherete,
il paesaggio. Con il declino di questa cultura,
sostituita da nuove forme di economia e di vita,
il territorio risultò, nel giro di pochi anni,
abbandonato.
La natura della Sardegna ha la caratteristica
di una ripresa della vegetazione immediata,
grazie alla sua naturale vocazione boschiva,
che non è mai venuta meno nonostante i disastri ecologici dell'800,
che racconto in uno dei miei fortunati lavori.
Per cui i pascoli si ricoprirono di macchia mediterranea
di basso grado evolutivo, i terreni agricoli di gariga,
la macchia evoluta e i boschi vennero abbandonati.
Il territorio si ricoprì di vaste aree incolte,
un mondo di mezzo che non era né bosco ne campo coltivato,
e che offriva distese di combustibile infiammabile
all'eventuale avanzata delle fiamme.
La parabola del pastore solitario.
Il pastore solitario, avventuroso,
che vagava con il suo bestiame macilento su terreni improduttivi,
lo guardavamo con attenzione in quanto potenziale incendiario “preterintenzionale”.
Per ricavarsi una porzione di pascolo,
bruciava una porzione di terreno e spesso l'incendio
divampava oltre. Così si diceva allora.
Ora, quella tipologia di allevamento estensivo è in via di scomparsa, sostituito
(si dirà: finalmente!)
da aziende modello, con stalle e con prati irrigui.
Però le campagne di quei territori oggi sono abbandonati
al loro destino, spesso ricoperti di rada vegetazione,
che nutre il fuoco e te lo porta, dopo aver mangiato
quel combustibile pirofilo, dentro la moderna azienda.
Insomma, il paradosso è che i pastori di una volta,
con il loro lavoro, presidiavano il territorio,
e creavano delle barriere pascolative,
con l'assenza di combustibile vegetale,
alla diffusione di quegli incendi che,
raggiunte determinate dimensioni,
non possono più essere fermati dai mezzi tecnologici
degli esseri umani.
La svolta degli anni '90
e la successiva offensiva neoliberista.
La Regione si rese conto della drammatica situazione e,
tra la fine degli anni '80
e gli inizi degli anni '90 sostituì,
in un certo senso, quell'abbandono,
con nuove forme di occupazione del territorio.
Venne così fondato il Corpo Forestale e di Vigilanza Ambientale.
Si parlava in quegli anni
di “militarizzazione” forzata delle campagne,
in riferimento agli oltre mille agenti forestali
e alle 80 stazioni sparse nei centri dell'isola.
E la politica forestale dell'isola raggiunse il suo culmine,
con centinaia di cantieri forestali e oltre 7000 operai.
Gli incendi erano affrontati
da un esercito di persone giovani e motivate.
Tuttavia si discuteva anche,
in relazione all'assunzione di un numero così vasto di operai,
di clientelismo e parassitismo.
La retorica neoliberista contraria al “posto fisso”
e ad ogni forma di servizio pubblico è cresciuta, per varie ragioni,
negli ultimissimi anni, fino a diventare diffusa,
per non dire ormai culturalmente egemonica.
Ma quell'occupazione delle campagne,
pur con tutti i limiti che aveva,
aveva portato ad un controllo del territorio in funzione antincendio, nei mesi estivi:
il Corpo Forestale con compiti di gestione,
coordinamento dei vari enti, vigilanza
e repressione dei reati;
e l'Ente Foreste con centinaia di mezzi e vedette
a formare una rete capillare del territorio.
Per trent'anni questa sorta di occupazione artificiale
del territorio ha garantito alla Sardegna
di godere di una relativa tranquillità.
Dalla metà degli anni '90 le statistiche
iniziarono a sorridere all'isola,
che nel frattempo perdeva quel triste primato di regione più interessata dagli incendi in Italia,
diretta conseguenza di fattori predisponenti di rischio elevatissimi.
Bene, quel sistema di occupazione forzata del territorio,
quel servizio pubblico
che metteva insieme molteplici interessi sociali,
appartiene, forse anche culturalmente,
oltre che socialmente, ormai al passato.
Il credo liberista, la privatizzazione dei servizi,
la revisione della spesa, il blocco delle assunzioni,
e chi più ne ha più ne metta,
ha impedito che quel sistema si potesse rigenerare.
Per cui, ormai, dopo circa trent'anni,
l'antincendio pubblico,
in Sardegna, fatta eccezione
per gli encomiabili volontari della Protezione Civile
e i sempre validi Vigili del Fuoco,
si trova sull'inesorabile strada del declino,
con consistenti scaglioni che annualmente
vanno in pensione e non vengono sostituiti
e con la maggior parte del personale,
oltre il 70%, che ha più di 55 anni, la maggior parte ultrasessantenni.
Siamo dunque al termine di un modello che,
dati alla mano, si era mostrato davvero efficiente
e persino invidiato.
Un modello che oggi viene strizzato all'inverosimile e che,
se non dovesse intervenire una inversione
di tendenza a breve termine,
è destinato a scomparire.
Tuttavia, quella retorica
della privatizzazione neoliberista,
ancora non ha trovato il modo di sostituire
l'antincendio con altre strategie.
Sotto questo punto di vista,
la sorte dell'antincendio sardo
è simile a quello della sanità, che nel momento della grande emergenza
ha mostrato tutti i limiti derivanti
da quelle forme di privatizzazione selvaggia.
L'incendio del Montiferru.
L'Incendio del Montiferru:
non si è trattatto di un fenomeno isolato.
Semplicemente, siamo tornati indietro di trent'anni,
agli incendi devastanti di quel periodo,
con una sola differenza: la mancanza di vittime.
Per il momento.
L'incendio del Montiferru, dunque,
non è un evento sfortunato,
una concatenazione casuale di eventi avversi.
Cause avverse che pure ci sono state,
con un automezzo esploso ai bordi della strada,
in una zona isolata,
con condizioni climatiche di eccezionale gravità.
Ma le concause avverse si ripetono
nel corso di una stagione estiva,
e il sistema dovrebbe essere
in grado fronteggiarle almeno attenuando i danni.
Oggi il sistema antincendio sardo,
per le tre macrocause citate,
non è in grado di fronteggiare
adeguatamente tutti gli eventi
che nascono da concause
particolarmente avverse.
E non dobbiamo neppure dimenticare
che gli incendi creano condizioni
predisponenti sempre più difficili:
creano aridità, producono vegetazione pirofila,
stressano il sistema.
Per non dimenticare, ancora,
he alluvioni e incendi sono in
connessione tra di loro,
e si rischia il totale disastro ecologico,
e quindi sociale ed economico,
della nostra terra.
Occorre una svolta, questo è chiaro.
Occorre una svolta che, finalmente,
parta da una analisi scientifica del fenomeno,
bandendo le narrazioni inutili.
Una svolta che sia decisiva,
perchè non c'è molto tempo.
Indirizzare le proposte.
- Consapevolezza ecologica dell'opinione
pubblica delle problematiche mondiali;
- Senso di appartenenza al territorio,
non solo simbolico, non solo estetico,
non solo per motivi burocratici e finanziari,
non solo simbolici, ma concreti.
Occorre tornare a gestire il territorio sardo,
e l'opinione pubblica deve premere
la politica affinché vi siano degli incentivi reali
alla produzione nei terreni abbandonati.
La prevenzione antincendio deve essere
la molla per rioccupare la terra,
per tornare a renderla produttiva in forme moderne.
Educare i giovani a prendersi
cura della terra e della natura;
- Investire sul servizio pubblico
e soprattutto sui giovani.
Formare giovani motivati,
adeguati al compito, che abbiano
il senso dell'appartenenza alla comunità.
*Fiorenzo Caterini, antropologo e Ispettore del Corpo Forestale
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