“Entro il nostro sistema solare la Terra, e probabilmente la Terra sola, è un pianeta di fuoco. Solo sulla Terra infatti sono combinati gli essenziali componenti della combustione. Con i fulmini vi è una pronta sorgente d’ignizione, con l’ossigeno atmosferico un abbondante agente ossidante, con la sostanza organica il combustibile.”
Scrivono così lo storico del fuoco Stephen Pyne, e i suoi colleghi Patricia
Andrews e Richard Laven in un basilare studio sui fuochi in ambienti
naturali1[1] e sul loro comportamento nella storia, prima e
dopo la comparsa dell’uomo.
E ancora: “Giove, Venere e forse Saturno, Urano, Nettuno, hanno i
fulmini. Marte presenta tracce di ossigeno libero, e alcune lune dei pianeti
più esterni hanno atmosfere ricche di idrocarburi infiammabili. Ma solo la
Terra contiene i componenti essenziali, i processi necessari per mescolarli
insieme ed un ambiente adatto alla loro interazione. Infine, come complemento,
la Terra possiede anche l’agente estinguente per eccellenza: l’acqua.”.
Ancora prima dell’alba dell’uomo, il fuoco c’era già.
Poderose ricerche documentano la forte e prolungata interazione tra il
fuoco e la vegetazione, durante la quale, a partire dal Siluriano (circa 430
mln di anni fa, epoca in cui si ritiene che le piante siano uscite dal mare per
colonizzare la terraferma), periodi di umidità alternati a periodi di siccità
crearono le condizioni predisponenti per l’esplosione dei primi “incendi”, con
la loro ciclicità e con la loro diversa intensità.
Le piante, molte di quelle che conosciamo, impararono a convivere con il
fuoco. Anzi, con il “regime di fuoco naturale,” in base al quale adottarono
soluzioni biologiche di “adattamento” per resistere alle fiamme (il sughero
delle querce, la grossa corteccia dei pini) o addirittura per trarre profitto
da una combustione totale al fine di dare origine a una nuova generazione del
bosco (la serotinia dei pini, cioè l’accumulo in chioma di
centinaia di pigne che si aprono tutte insieme dopo lo shock termico e danno
origine a nuovi alberelli al posto del loro genitore).
L’uomo trasse profitto dal fuoco, fin dal suo primo differenziarsi dagli
altri hominini.
Ma il fuoco non è una invenzione dell’uomo. E’ stato semmai il nostro
compagno fedele durante l’evoluzione sociale, la trasmissione della cultura, la
nascita della religione, il disegno del nostro spazio vitale, con alterne
stagioni passando dalla cultura del raccolto e della caccia a quella agricola,
fino ai nostri giorni, in cui viviamo l’epoca che lo stesso Stephen Pyne nel
suo libro in uscita a settembre2[2], definisce “Pirocene”, l’età del fuoco.
Questa premessa è necessaria per capire, perché in questi giorni caldi
d’agosto pare che l’umanità – quella occidentale soprattutto – abbia scoperto
il fuoco come fenomeno sconosciuto, come un nemico che si affaccia nelle nostre
case a turbare la tranquillità opulenta delle nostre città (anche durante e
nonostante la pandemia, altro fenomeno “sconosciuto” di cui si è già parlato in
queste pagine).
Condivido l’analisi di Pyne soprattutto quando racconta del Pirocene come
manifestazione non solo della “comparsa del fuoco cattivo”, ma
soprattutto della “scomparsa del fuoco buono”, quello “naturale”,
quello “primitivo”, quello “agricolo”, che dal Pleistocene fino agli albori
dell’età industriale ha modellato i paesaggi del pianeta; quello che dai primi
del ‘900 le culture occidentali si sono ostinate ad eliminare come estraneo
alla civiltà e alla natura: per fare questo hanno messo in piedi un poderoso
complesso militare-tecnologico (in USA, Australia, Russia, Europa) tutto teso a
spegnere ogni insorgenza di fuoco.
L’idea consolidata che l’incendio sia estraneo alla natura e, perciò
stesso, da combattere in ogni sua manifestazione ha originato quello che
chiamiamo “il paradosso di Bambi”3[3].
L’esclusione totale del fuoco dagli ecosistemi terrestri da parte dei
sistemi emergenziali di lotta e dalle politiche forestali coincide con la
conquista dei nuovi territori (il West americano) e la visione delle “miniere
di legno” come forma di accumulazione capitalistica per lo sviluppo
dell’economia moderna. Esclusione del fuoco da quei territori che per 15.000
anni avevano visto il fuoco “buono” dei nativi americani come
strumento per favorire la raccolta dei piccoli frutti del bosco, i tuberi, il
pascolo dei grandi mammiferi da cui dipendevano per sopravvivere.
Abbiamo avuto il nostro West anche in Sardegna (ma il fenomeno ha
interessato l’intero territorio italiano, soprattutto il Sud), quando la
“criminalizzazione” dell’uso del fuoco ha coinciso con l’affermarsi del
genocidio culturale dell’economia collettiva, delle terre pubbliche, de “su
connotu” (il conosciuto) a favore della privatizzazione delle terre e
dell’estrazione del legname sardo per la costruzione delle ferrovie dello Stato
unitario.
Non ci sono solo fuoco buono (che manca) e fuoco
cattivo (che esplode oggi) a disegnare il “Pirocene”: c’è un terzo
aspetto che forse è anche il più importante, dato che si riferisce alle combustioni
dei fossili, nascosti per milioni di anni nelle viscere della terra e che
l’età industriale, mentre nega i fuochi di superficie, li trasferisce
occultamente in atmosfera (con le ciminiere, con i gas di scarico dei mezzi di
trasporto), generando l’attuale condizione di riscaldamento globale e di cambio
climatico antropico, con i livelli di temperatura e di CO2 e
altri inquinanti mai registrati negli ultimi 2000 anni4[4].
Negare la coesistenza con il fuoco “buono” ha creato nuovi tipi d’incendio
(che i catalani definiscono di sesta generazione), in grado di
interferire con gli strati alti dell’atmosfera, di creare la circolazione
planetaria del fumo, di sviluppare immense energie di fronte alle quali nessun
apparato tecnologico è in grado di fare fronte5[5].
Aggiungo un altro elemento importante: nel dopoguerra la popolazione rurale
si è spostata in ambito urbano, mentre popolazioni “urbane” (prive della
cultura rurale) si sono trasferite a vivere in bosco (la falsa l’idea della
vita agreste), con insediamenti direttamente a contatto con paesaggi forestali
privi di gestione. Ciò ha creato e amplificato, di fatto, situazioni di
pericolo che vengono purtroppo affrontate in modo esclusivamente emergenziale
(campeggi estivi, insediamenti turistici, parcheggi nella macchia mediterranea
etc.) all’esplodere degli eventi.
Gli incendi dell’estate 2021 sono un sintomo, non la causa della grande
alterazione dei regimi di fuoco sulla terra. L’estinzione degli incendi è la
risposta, ma non è la soluzione. Perché non si interviene alla radice del
cambio dei “regimi di fuoco”. Con una organizzazione “militare” sempre più
potente di lotta (mezzi aerei di varie categorie, migliaia di uomini e mezzi
terrestri impegnati ogni stagione, ampia varietà di modelli organizzativi)
sempre più si riesce ad agire su migliaia di piccoli focolai, generando un
altro paradosso: più efficiente è la macchina di estinzione più frequentemente
si manifestano i grandi incendi forestali di fronte ai quali il sistema
collassa (il paradosso dell’estinzione): infatti impedire che il fuoco si
propaghi durante condizioni meteorologiche tranquille, causa
un accumulo di combustibile che esploderà nelle giornate estreme con elevate
temperature, venti forti, umidità relativa ridotta.
Il paradosso dell’estinzione porta ad una strada senza uscita6. Con il cambio
climatico gli eventi estremi si presenteranno in modo sempre più intenso e
frequente.
Che fare allora? Con gli eventi dell’estate corrente tutto il Mediterraneo
è stato duramente colpito; ancora una volta si contano i morti (100!) tra
Algeria, Turchia, Grecia, Calabria, Sicilia e centinaia di feriti ed
evacuati.
La risposta contundente e “militare” – pur necessaria in certe situazioni –
non risolve le cause e non può alla lunga essere efficace.
Occorre andare alla radice dei problemi, che sono sociali più che
tecnologici, sono culturali più che giuridici, sono infine politici, perché
attengono a una diversa prospettiva sociale.
Provo a indicare alcuni elementi di riflessione, che sono risultato di
tanti anni di studio collettivo e di esperienze dirette sul campo di numerosi
ricercatori ed operatori.
- Investire
nella gestione attiva delle foreste e del territorio rurale: se è vero che
gli incendi estremi sono (anche) figli dell’abbandono occorre invertire la
rotta: il 40% del territorio italiano è “forestale”; dei fondi del PNRR
solo una piccola porzione (meno dell’1%) è previsto vada alla
selvicoltura: peccato che si tratti di “foreste urbane” e non di quelle
della montagna e collina. Sarebbe cosa buona se i progetti si orientassero
alla manutenzione dei boschi, soprattutto di quelli esposti al fuoco e non
semplicemente ad abbellire le città.
- La
competenza in materia di incendi boschivi appartiene alle Regioni; si
sente in giro, soprattutto durante questi eventi, un “tintinnar di
sciabole” teso a riportare in capo allo Stato la lotta agli incendi.
Al contrario occorre che le Regioni, sulla base delle peculiarità
territoriali, introducano e gestiscano responsabilmente forme di
pianificazione a scale differenti (regionale, comprensoriale, paesaggio,
locale) identificando i punti critici su cui attuare azioni concrete di
rimozione del pericolo.
- Passare
dal concetto di “Protezione civile” a quello di “Prevenzione Civile”,
sviluppando una consapevolezza del rischio che oggi manca
totalmente: non basta predisporre dei piani di protezione civile che sono
esclusivamente piani di pronto soccorso: occorre rimuovere il pericolo
costituito dalla massa vegetale secca a contatto con gli abitati. E farlo
in coerenza con i piani forestali e –simmetricamente – con i piani di
prevenzione del rischio idrogeologico.
- Costruire
territori autoprotetti, che non abbiano bisogno dei Canadair per essere
“salvati”: attraverso il ripristino di colture tradizionali (pascolo
prescritto, fuoco prescritto, mosaici colturali per interrompere le estese
continuità di bosco non gestito.
- Ridefinire
l’idea di “paesaggio” che spesso viene sacralmente tutelato come un
oggetto immutabile e da tenere dentro un reliquario: il paesaggio è tale
se è quello “che viene percepito dalle popolazioni” (come recita la
Convenzione Europea del Paesaggio siglata a Firenze nel 2000), con i loro
usi, consuetudini e bisogni
Un nuovo paradigma: convivere con il fuoco, gestione integrata del fuoco e
non semplice lotta attiva. Per questo occorre anche dotarsi di strumenti di
analisi del comportamento del fuoco, approfondire le relazioni con le
variazioni metereologiche e la topografia, adottare protocolli condivisi di
organizzazione e linguaggi operativi comuni, per il necessario raccordo con gli
operatori di diversa provenienza (vigili del fuoco, forestali, volontari,
squadre locali etc.), protocolli validi sia in fase di lotta attiva esploderà
nelle giornate estreme con elevate temperature, venti forti, umidità relativa
ridotta.
Il paradosso dell’estinzione porta ad una strada senza uscita7[6]. Con il cambio climatico gli eventi estremi si
presenteranno in modo sempre più intenso e frequente.
Che fare allora? Con gli eventi dell’estate corrente tutto il Mediterraneo
è stato duramente colpito; ancora una volta si contano i morti (100!) tra
Algeria, Turchia, Grecia, sia nelle operazioni preventive di messa in sicurezza
del territorio. In questo senso anche il recupero dell’uso comunitario del
fuoco per modellare paesaggi resilienti e sicuri è una via da percorrere.
Personalmente considero l’adozione di queste e altre azioni prioritarie
come strumento di autodeterminazione delle comunità locali, di crescita
culturale, di recupero delle proprie ragioni di coesistenza con il mondo
naturale.
Perché sappiamo che “il fuoco è un buon servo ma è un cattivo padrone”.
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