Il bambino ha l’aria concentrata. Vestito con una tuta lacera, le mani protette da un paio di guanti, scava un foro nel terreno. Ci infila la piantina. Copre il foro. Si sposta di circa 30 centimetri e ripete la stessa operazione. Dice di avere dodici anni, ma ne dimostra anche meno. Intorno a lui, un’altra ventina di persone, donne, uomini, qualche altro ragazzo più grande. Tutti fanno gli stessi gesti, veloci e ripetitivi: afferrano le minuscole piante da cassette di plastica e le collocano a terra, a una distanza fissa l’una dall’altra. Finita una cassa, ne attaccano un’altra. E poi un’altra ancora, seguendo le linee dell’aratura.
Seduto su una panca di legno ai bordi del campo, il proprietario li osserva
pigramente, mentre un caposquadra annota su un taccuino lo spazio che ha
coperto ognuno di loro. La sera li pagherà in contanti, a cottimo: 0,17 yuan (2
centesimi di euro) al metro. A fine giornata, i più svelti riusciranno a
mettere in tasca una settantina di yuan, più o meno dieci euro.
Siamo nello Xinjiang, estremo ovest della Cina, a tremila chilometri da
Pechino. Questa regione sconfinata, grande cinque volte e mezzo l’Italia, è
tappezzata di terreni dove si coltiva uno degli ortaggi più consumati al mondo:
il pomodoro. Una produzione destinata non al consumo interno, ma
all’esportazione: i frutti delle piantine immesse nel terreno da questi
braccianti a giornata di ogni età saranno trasbordati in una fabbrica, per
essere lavorati e mandati in giro per il pianeta sotto forma di triplo
concentrato. Dopo opportuna rilavorazione, finiranno nel ketchup della Heinz,
nei barattoli che si vendono a due soldi nei mercati africani. O in concentrati
e sughi pronti prodotti da marchi italiani.
Perché il principale importatore di questo prodotto è proprio il nostro
paese: nel 2016, secondo i dati dell’agenzia delle dogane, sono arrivati in
Italia 92mila tonnellate di triplo concentrato made in China. Una cifra che
segna un aumento del 40 per cento rispetto all’anno precedente.
Intere famiglie nei campi
Le piantine nascono in serra e quando le temperature diventano più miti, tra
aprile e maggio, vengono trapiantate per crescere in campo aperto. Questa è
precisamente l’operazione che sta compiendo la squadra di braccianti di cui fa
parte il bambino con la tuta lacera.
Nel giro di un paio di mesi, tra luglio e settembre, i frutti matureranno e
saranno raccolti da altre squadre molto più numerose. Per l’occasione si
riverseranno nello Xinjiang migliaia di migranti da altre zone della Cina:
intere famiglie con prole al seguito, tutti insieme a lavorare nei campi. Il
proprietario del campo, che dice di chiamarsi semplicemente signor Li,
conferma: “Bisogna raccogliere velocemente, prima che il pomodoro marcisca. I
bambini sono particolarmente adatti a questo lavoro: grazie alle loro mani
piccole sono più svelti”.
Centinaia di camion assicureranno poi il trasbordo dai campi alle
fabbriche, dove i pomodori saranno trasformati e spediti in treno al porto di
Tianjin, vicino a Pechino, luogo di raccolta in attesa dell’esportazione. Da
qui navi cargo attraverseranno gli oceani e porteranno il prodotto in giro per
il pianeta. Molte di queste sbarcheranno al porto di Salerno, dove il concentrato
in fusti di legno da 1,3 tonnellate sarà raccolto dalle ditte trasformatrici e
diluito in doppio concentrato, oppure usato per altri prodotti derivati.
Come mai l’Italia, che è il primo produttore di pomodoro da industria dell’Unione
europea e il secondo nel mondo dopo gli Stati Uniti, importa
simili quantitativi dall’estremo oriente? E soprattutto, dove finisce questo
mare di concentrato prodotto all’altro capo del mondo?
“Il pomodoro che importiamo dalla Cina non è immesso nel mercato nazionale.
È utilizzato per lo più come materia prima in regime di temporanea importazione
da parte di aziende che lo ritrasformano e lo riesportano al di fuori
dell’Unione europea”, sottolinea il direttore dell’Associazione nazionale
industriali conserve alimentari vegetali (Anicav) Giovanni De
Angelis. La procedura prevede che una merce proveniente da un paese
extracomunitario sia rilavorata in Italia (o in un altro paese europeo), per
poi essere esportata verso un paese terzo. Per questo l’industria che fa la
rilavorazione è esentata dal pagamento dei dazi doganali.
L’allarme di Coldiretti
Nel suo ufficio al centro direzionale di Napoli, nel cuore della regione che
storicamente trasforma il pomodoro, De Angelis mostra le tabelle statistiche a
suffragio delle sue affermazioni: “Esportiamo il concentrato in quantità
due-tre volte maggiori rispetto a quello che importiamo”.
Il direttore è perentorio su questo punto e lo sottolinea più volte: “I
nostri prodotti più commercializzati, i pelati e la passata, prendono origine
da pomodoro italiano, nonostante l’allarmismo che è stato creato negli ultimi
anni. La Cina in particolare produce solo la materia prima, che le nostre
aziende trasformano mettendo il know-how e la capacità di gestire un
procedimento industriale che non ha nulla a che vedere con quello utilizzato
per produrre i beni di largo consumo sul mercato nazionale. Si tratta peraltro
di un prodotto marginale nel fatturato complessivo dell’industria
trasformatrice: parliamo di 145 milioni di euro su un’industria che fattura tre
miliardi di euro, meno del 5 per cento del totale”.
“In termini quantitativi, non lo definirei propriamente marginale”, ribatte
Lorenzo Bazzana, responsabile economico di Coldiretti, l’organizzazione che più
di ogni altra negli ultimi anni ha lanciato l’allarme sulle importazioni di concentrato cinese.
“Se consideriamo che per fare un chilo di triplo concentrato servono sette
chili di pomodoro fresco, vediamo che l’anno scorso abbiamo importato dalla
Cina e da altri paesi l’equivalente di circa un milione di tonnellate, una
quantità equivalente a circa il 20 per cento della produzione nazionale”.
Origini non etichettate
Bazzana studia da anni i movimenti del concentrato cinese, registra le
oscillazioni nelle importazioni e non si stanca di denunciare la mancanza di
trasparenza dell’industria, che non indica sui prodotti la provenienza della
materia prima. “Confezionando concentrato cinese in prodotti italiani si
danneggia tutta la filiera, perché questi hanno standard di uso di fitofarmaci
più bassi di quelli consentiti all’interno dell’Unione europea. Quando poi
l’industria dice: ‘Non preoccupatevi, il concentrato cinese finisce in mercati
esteri’, non mi pare mandi un messaggio felicissimo. Equivale a dire:
manteniamo la qualità in casa, ma all’estero vendiamo prodotti scadenti. Un
ottimo modo per distruggere la reputazione del made in Italy”.
Il concentrato “confezionato in Italia” ma prodotto da “pomodoro cinese”
finisce quindi prevalentemente nei barattoli venduti in Africa, ma in parte
anche nei sughi pronti e nel pomodoro da pizza smerciato in vari paesi europei
(la Germania è il primo importatore di concentrato italiano, la Francia il
terzo), e a volte nella passata (quella venduta in Italia deve essere fatta da
pomodoro fresco, ma la legislazione ha validità solo nazionale).
Non tutto il pomodoro cinese entra infatti in regime di temporanea
importazione: nel 2016, secondo i dati dell’agenzia delle dogane, 14mila
tonnellate sono entrate in via definitiva e sono rimaste all’interno
dell’Unione europea. “Nulla mi vieta di pensare poi che una parte più
consistente di quel prodotto sia utilizzata per tagliare altri sughi e derivati
di pomodoro”, continua Bazzana. “Essendo il pomodoro riesportato sotto forma di
doppio concentrato, ossia con un prodotto diverso, le tabelle di equivalenza
permettono una certa elasticità”.
Che sia venduto all’interno del’Ue o nei mercati africani, l’origine del
pomodoro non è mai indicata in etichetta, dove c’è l’obbligo di scrivere solo
il paese dove il pomodoro è inscatolato. In pratica, denuncia la Coldiretti,
quel pomodoro raccolto nello Xinjiang anche da bambini è venduto come italiano
a milioni di consumatori in tutto il mondo. “Noi vendiamo un processo
industriale”, ripete De Angelis. “Il triplo concentrato è un materiale grezzo,
che la nostra industria trasforma grazie a competenze e tecnologie acquisite
nel corso del tempo. È un procedimento che nell’agro-nocerino-sarnese, culla
della trasformazione di pomodoro del sud Italia, si fa da più di un secolo”.
Dagli anni novanta a oggi
La storia del concentrato cinese è invece parecchio più recente. Fino agli anni
novanta, nello Xinjiang non c’era l’ombra di un pomodoro. Poi sono arrivati
proprio gli italiani che, per far fronte all’aumento dei costi e a una
riduzione dei sussidi previsti dalla politica agricola comune (pac), hanno
pensato di esternalizzare la produzione.
Con sé hanno portato due cose fondamentali: la tecnologia e il mercato per
l’esportazione. E in pochi anni, il remoto Xinjiang è diventato la seconda
regione produttrice al mondo di pomodoro da industria, subito dopo la
California. Ma come mai la Cina, che già ha di per sé scarsità di terre per sfamare
la sua popolazione, ha deciso di coltivare in scala massiccia un prodotto non
destinato al mercato interno?
La risposta si trova nella particolarità dell’area in cui è stata
impiantata la produzione. Lo Xinjiang è una regione complicata, scossa da tensioni
sociali e da spinte separatiste. Gli abitanti autoctoni, gli uiguri di lingua
turcofona e religione musulmana, ne rivendicano da anni l’indipendenza. I
cinesi han, arrivati in massa grazie a un generoso programma di incentivi,
controllano le leve politiche ed economiche, lasciando gli uiguri in una
situazione di cittadini di serie b. Per stabilizzare l’area, fin dagli anni
cinquanta Mao Zedong ha inviato nella regione un vero e proprio esercito di
pionieri, reclutati in tutta la Cina, e li ha inquadrati in una specie di ente
militare, lo Xinjiang shengchan jianshe bingtuan (Corpi
di produzione e costruzione dello Xinjiang), più comunemente chiamato bingtuan (Corpi).
Incaricato di rappresentare i nuovi arrivati, ma anche di costruire nuove
città e far fruttare le terre che gli erano state assegnate, il bingtuan nasce come filiazione del governo
centrale e deve rispondere solo a questo. Formava – e ancora forma per certi
versi – una società a parte all’interno dello Xinjiang, con le proprie scuole,
le proprie città, le proprie terre.
La storia dello sviluppo del pomodoro in Cina è legata a doppio filo a
quella del bingtuan. Nel corso degli anni, con
la modifica delle priorità e degli obiettivi della Repubblica popolare, l’ente
ha perduto la sua connotazione originaria di corporazione militar-rurale per
assumere un ruolo più prettamente urbano, orientato ad attività industriali e
commerciali.
Nel 1998, il bingtuan è diventato
ufficialmente una corporation, una struttura privata, i cui obiettivi sono
legati alla “apertura delle regioni occidentali” ufficializzata dal presidente
Jiang Zemin l’anno successivo. È stata la progressiva trasformazione dei Corpi
da gruppo militare con interessi agricoli a vera e propria industria orientata
al profitto a fare da propulsore allo sviluppo dei “cash crop”, cioè prodotti
destinati all’esportazione, come per l’appunto il pomodoro. Il grande balzo in
avanti nella produzione dell’“oro rosso” è cominciato proprio in concomitanza
con la trasformazione del bingtuan in impresa commerciale, alla fine degli anni
novanta.
Sviluppo folgorante
In quegli anni è nata la Chalkis. Espressione dei Corpi, quest’azienda ha avuto
uno sviluppo a dir poco folgorante: nel giro di pochi anni, ha decuplicato il
suo fatturato, aprendo 23 fabbriche di trasformazione in Cina e acquisendo
temporaneamente un importante gruppo estero, i francesi di Conserve de
Provence-Le Cabanon. Chalkis è partita da un vantaggio non indifferente: in
quanto legata al bingtuan, è proprietaria della
terra in cui si coltiva il pomodoro e delle fabbriche in cui si produce il
concentrato, foraggiate da sussidi statali e portate avanti da manodopera a
basso costo, fra cui anche i bambini.
Vedendo il suo successo, altri si sono lanciati sul promettente settore.
All’inizio degli anni 2000, una piccola azienda di nome Tunhe ha cominciato a
svilupparsi in questo comparto, aprendo numerose fabbriche di trasformazione.
Nel 2004, la Tunhe è stata acquisita dal conglomerato di stato cinese Cofco, il
grande braccio commerciale e produttivo del governo di Pechino, che ha
iniettato nell’azienda vagonate di soldi pubblici. Oggi, i due gruppi si
dividono il mercato: insieme controllano complessivamente l’80 per cento della
produzione cinese e il 15 per cento del commercio globale di concentrato. Gran
parte dei derivati di pomodoro consumati in giro per il pianeta ha origine
dalla materia prima proveniente da questi due gruppi: il braccio commerciale di
un’azienda nata come una impresa paramilitare di colonizzazione e il principale
conglomerato di stato in mano al governo cinese, che ha affari in tutto il
mondo.
“Il nostro mercato migliore è
l’Italia”, esclama con un certo orgoglio Tian Jun nell’accogliermi in una
specie di improvvisata sala conferenze nella sede centrale dell’azienda a
Urumqi, capitale dello Xinjiang. “La collaborazione è antica, i rapporti
ottimi. Vendiamo a gran parte dei principali gruppi. Poi, con l’aumento del
cambio del dollaro, dal 2015 i nostri volumi di esportazione sono aumentati
perché i nostri acquirenti preferiscono comprare da noi piuttosto che dai produttori
statunitensi”.
Figlio della colonizzazione han della regione, questo responsabile
commerciale di 39 anni sciorina le cifre del successo e prospetta ulteriori
sviluppi. Con un entusiasmo debordante, mostra la ambizioni del gruppo, ben
evidenziate dallo slogan usato nelle varie operazioni di marketing: “Chalkis
will tomato the world!”. La grande inondazione di pomodoro del pianeta deve
partire proprio da questa sede anonima nella capitale dello Xinjiang e dai
campi coltivati in tutta la regione. Tian Jun indica chiaramente la strategia
per il futuro: “Il nostro primo mercato di riferimento è l’Italia. Ma, negli
ultimi anni, abbiamo diversificato. Da un po’ di tempo forniamo ditte cinesi
che vendono direttamente nel mercato africano”.
Tian riassume bene con le sue parole l’evoluzione degli ultimi anni. Nata
alla fine degli anni novanta, la collaborazione tra i cinesi e gli italiani era
basata su uno scambio: gli italiani fornivano ai cinesi la tecnologia e gli
impianti e questi li ripagavano in concentrato, che poi gli italiani
ritrasformavano e vendevano sui loro mercati di riferimento.
Ma pian piano, i cinesi si sono affinati e hanno trasformato l’idea
apparentemente geniale di delocalizzare la produzione in Cina in una specie di
mostro di Frankenstein sfuggito di mano ai suoi creatori: perché invece di
rifornire in modo esclusivo i loro ex mentori italiani, i produttori cinesi
hanno cominciato a fargli concorrenza. E, nell’impossibilità di competere con
ditte sostenute dallo stato che usano manodopera anche minorile a prezzi
stracciati, questi hanno perso consistenti quote di mercato.
La memoria storica del concentrato
“Ormai non c’è più partita. I cinesi ci stanno buttando fuori”. Angelo
D’Alessio è una sorta di memoria storica del concentrato italiano.
La sua ditta di famiglia è nel settore da più di un secolo e, con il nome
di Centro di esportazioni concentrato (Cec), a partire dagli anni cinquanta si
è specializzata nel doppio concentrato destinato ai mercati africani. Nel suo
ufficio a Nocera Superiore, in provincia di Salerno, ricorda quando il
concentrato non si importava dall’estero ma si produceva nel centro Italia. E,
soprattutto, quando il business era saldamente in mano agli italiani. “Nessuno
poteva competere con noi”. D’Alessio mostra con orgoglio i manifesti storici
appesi alle pareti dei vari marchi che la sua ditta di famiglia ha esportato in
tutto il mondo, dal concentrato “Sole d’Italia” ai pelati “la Chitarrella”,
fino ai marchi “pupetta nera” e “faccetta nera” usati durante il ventennio
fascista.
D’Alessio produce ancora una linea di concentrato completamente
“certificato italiano” con materia prima proveniente dal nord Italia. “Ma è una
nicchia per i più ricchi, che si vende a prezzi decisamente più alti”. Per il
grosso della produzione, è costretto a importare i fusti di triplo concentrato
da varie parti del mondo, dagli Stati Uniti, dalla Spagna. E in parte anche
dalla Cina. “È l’unico modo per competere su quei mercati”. Paradossi della
globalizzazione, D’Alessio si rifornisce – anche se, assicura, “al massimo per
il 15 per cento” della materia – dai suoi stessi concorrenti, di cui dice peste
e corna. “Fanno dumping perché le loro aziende sono sovvenzionate e perché
usano manodopera a costo zero. Poi, nei mercati africani, mandano merce
scadente, con additivi di vario genere, che gli costa anche meno”.
Ricapitolando, l’industria del pomodoro concentrato italiano si trova nella
necessità di dover importare concentrato da quello che è il suo principale
concorrente sui mercati internazionali. Non potrebbe contrastarlo con un
prodotto proprio, originale, fatto con materia prima italiana? “Si tratta di
mercati poveri in cui già stiamo perdendo competitività. Con il concentrato
prodotto ai costi italiani, usciremmo fuori dal mercato”, continua Giovanni De
Angelis. Che ribadisce: “Se vogliamo alzare muri e impedire l’arrivo della
materia prima cinese, facciamolo. Ma assumiamoci la responsabilità di
distruggere un intero comparto e i posti di lavoro a esso collegati”.
“Noi non vogliamo alzare muri”, ribatte Lorenzo Bazzana di Coldiretti.
“Vogliamo semplicemente un’etichettatura completa, che indichi la provenienza
della materia prima e permetta al consumatore di fare scelte consapevoli”. Su
questo punto gli industriali non sono in disaccordo. “Noi non abbiamo nulla in
contrario a indicare la provenienza della materia prima”, aggiunge De Angelis.
“Siamo per la trasparenza più completa”.
Ma poi verrà da chiedersi: quando sulla latta sarà scritto “pomodoro
concentrato confezionato in Italia da materia prima cinese”, il consumatore
africano non preferirà comprare un prodotto totalmente cinese, che costa pure
meno? E i consumatori di pizza tedeschi, francesi o inglesi non avranno a loro
volta qualcosa da ridire su un pomodoro che viene dalla Cina e che è stato
raccolto da bambini di dodici anni pagati dieci euro al giorno?
Nessun commento:
Posta un commento