L' estrema povertà, le storiche tensioni politiche e le lotte etniche per
aggiudicarsi le risorse naturali innalzano il malcontento della gente in cui si
innesta il radicalismo islamico. Il progetto di Total, Exxon e Eni é solo il
coronamento di un conflitto aperto. L'appello di padre Alex Zanotelli
Dal 5 ottobre 2017, giorno del primo attacco a Mocimboa da
Praia, le notizie sulle incursioni di presunti terroristi islamici
estremisti contro istituzioni dello Stato mozambicano e, in seguito, contro
popolazioni inermi, ci giungono in tutta la loro puntualità e drammaticità.
In un primo momento, tutti gli analisti hanno mostrato stupore per la
caduta di un “mito” appositamente costruito dalla propaganda governativa mozambicana
col pieno appoggio della comunità internazionale: il mito secondo cui il Mozambico sarebbe
un’eccezione nel contesto africano. Un caso a parte dove i conflitti religiosi
ed etnici non esisterebbero e dove regnerebbe sovrana la pace. Un film che
vorrebbe nascondere le ragioni profonde (endogene, oltre che esogene, legate
alla guerra fredda) di una guerra civile durata 16 anni (1976-1992) e
conclusasi con un accordo di pace firmato a Roma grazie alla mediazione della
Comunità di Sant’Egidio e dello Stato italiano. Accordo che in realtà non ha
mai risolto le tensioni politiche, sociali ed economiche di questo paese.
Dal 1992 al 2013 il Mozambico ha vissuto una ventina d’anni di pace o,
meglio, di assenza di guerra. I due protagonisti di questo periodo
relativamente tranquillo (e con una crescita economica media annua di oltre il
7%) sono stati Joaquim Chissano, presidente del paese dal 1986 al 2004, nonché
leader del partito di governo, il FRELIMO, e Alfonso Dhlakama,
leader del principale partito di opposizione, la RENAMO, morto a maggio del
2018.
Con l’entrata di Guebuza alla presidenza della repubblica, nel 2004, la
situazione ha iniziato rapidamente a deteriorarsi: concentrazione della
ricchezza nelle mani di pochissimi, di preferenza legati alla famiglia del
presidente, un po’ sul modello angolano dei Dos Santos, grandi investimenti
legati alla terra, dal carbone di Tete al programma ProSavana (programma
di triangolazione per lo sviluppo dell’agricoltura nelle savane tropicali del
Mozambico) nel Corridoio di Nacala, alla silvicoltura nel Centro del paese,
fino ai rubini di Montepuez, a Cabo Delgado,
con spostamenti forzati della popolazione e grandi manifestazioni contro tali
programmi, a volte portando a successi insperati (vedi la chiusura definitiva
del programma ProSavana, nel 2020). Poi é arrivato il taglio degli aiuti
finanziari stranieri, soprattutto dei paesi occidentali, che sostenevano il
bilancio dello Stato mediante il Budget Support, il che ha aperto
una voragine nella fragile economia mozambicana. Tale decisione è stata assunta
in seguito alla scoperta di uno schema di frode internazionale realizzato negli
ultimi anni del governo-Guebuza per l’ammontare di 2,2 miliardi di dollari,
chiamando in causa i servizi segreti locali, i cui vertici sono stati tutti
arrestati insieme a uno dei figli dell’ex-presidente e all’ex-ministro delle
Finanze, Manuel Chang, ancora in Sudafrica, in attesa di giudizio (o di
estradizione).
Questa polveriera sociale e politica era sotto gli occhi di tutti, ma il
“modello mozambicano” andava comunque sostenuto, a dispetto delle evidenze. Le
maggiori ingiustizie, poi, erano concentrate nel Nord del paese, assai lontano dai
centri di potere di Maputo. I rubini di Montepuez, nella regione di Cabo
Delgado, gestiti dalla Montepuez Ruby Mining, una società controllata in
maggioranza dalla britannica Gemsfield insieme alla locale Mwiriti Limitata,
guidata dal generale makonde Pachinuapa, hanno dato vita a uno dei più
terribili episodi di violazione dei diritti umani delle popolazioni locali. La
società ha infatti accettato di pagare, presso il tribunale di Londra, nel
2018, 7.25 milioni di euro di risarcimenti per la morte, la tortura o le gravi
violazioni fisiche inflitte a 273 persone da parte delle guardie private della
stessa compagnia e della polizia di stato mozambicana. Uno schema, questo, che
è diventato ormai la regola in Mozambico: il governo, a partire dalle forze di
polizia, “protegge” i grandi investimenti stranieri, schierandosi
sistematicamente contro le popolazioni locali.
Le “vittime” di questi programmi, nel Nord del Mozambico, sono state le
popolazioni locali di etnia e lingua Makhuwa e Kimwani: i primi largamente
prevalenti non soltanto a Nampula, ma anche a Cabo Delgado (secondo i dati
ufficiali del governo mozambicano). Qui, su una popolazione di circa 2 milioni
di abitanti, 1,2 milioni sono Makhuwa, mentre i Makonde costituiscono la terza
etnia, in termini numerici, dopo i Kimwani. Questi ultimi sono concentrati
sulla costa e sono quasi tutti musulmani. I Makonde, invece, sono stati da
tempo cristianizzati, e da sempre, grazie al loro contributo alla lotta di
indipendenza dal Portogallo, si sono spartiti il potere economico e politico
con i popoli del sud del paese, i Ronga-Changana, secondo un processo ad
excludendum rispetto alle altre popolazioni, prime fra tutte
Makhuwa, Kimany e Ndau (questi ultimi non a caso, hanno costituito a suo tempo
il fulcro dell’appoggio militare alla guerra civile della Renamo).
Se, a livello nazionale, soprattutto con la presidenza-Guebuza e poi con
l’attuale di Nyusi (rappresentante dei Makonde e primo presidente di questa
etnia, dopo che tutti i suoi predecessori erano invece appartenenti a quella
meridionale dei Ronga-Changana), la distribuzione delle ricchezze è stata
diseguale, a Cabo Delgado (e Nampula) la situazione si è rivelata essere anche
peggiore. Qui, i Makonde hanno avuto accesso facilitato a tutte le più
importanti risorse, a scapito delle altre due etnie numericamente
maggioritarie. Con la scoperta di ricchezze sempre più cospicue, vi è stata un
accelerazione del malcontento che da tempo serpeggiava fra le popolazioni
escluse. Il livello di maturità civica e politica di queste popolazioni ha
fatto il resto: nessun riferimento ideologico, nessuna appartenenza politica,
se non una generica avversione al governo centrale “dei Makonde”, una
appartenenza religiosa islamica “debole”, ma comunque presente. È stata proprio
questa identità “debole”, insieme all’odio verso i Makonde e il governo
centrale, che ha costituito la leva principale a cui aggrapparsi per inscenare
una protesta continua e disperata
contro le istituzioni locali. Il tutto è stato favorito dalla presenza di
predicatori radicali locali che hanno cercato di imporre un islam più ortodosso
rispetto alle pratiche sufi molto tolleranti e mischiate con le confraternite
tradizionali africane presenti a Nampula e Cabo Delgado, nonché da giovani
mozambicani formatisi all’estero, in paesi come Egitto, Arabia Saudita o Sudan,
da cui sono tornati con una idea di islam ben più intollerante rispetto a
quello normalmente praticato nel Nord del Mozambico. In questo contesto erano
presenti anche stranieri, entrati illegalmente nel paese da Nord, di origine
somala, tanzaniana e congolese, che si sono ben presto uniti a questo movimento di giovani (appunto,
Al-Shabaab), trovando nell’Islam radicale l’unica forma di riscatto nei confronti
di uno Stato che li aveva dimenticati o che intendeva sfruttarli con lavori
semi-servili…
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