domenica 18 aprile 2021

Decrescita, illusione o necessità? - Alberto Castagnola

Stupisce trovare proprio su Le Monde Diplomatique, (febbraio 2021), che sia nell’edizione francese che su quella italiana, curata da il manifesto, presenta sempre delle analisi molto approfondite e articolate,  un articolo che in modo abbastanza sommario releghi il pensiero della decrescita nel mondo delle illusioni.

Però nella drammatica situazione del nostro pianeta non si può perdere nessuna occasione di parlare di cosa fare nell’immediato futuro e soprattutto di mettere in termini il più reali possibili qualunque contributo che evochi situazioni economiche o sociali e soprattutto che attiri l’attenzione sulle misure o sulle politiche eventualmente da adottare.

In effetti, la redazione prende un po’ le distanze con un corsivetto iniziale abbastanza elaborato, che vale la pena di riportare integralmente: “Da un lato, i sostenitori di una frugalità volontaria, che il presidente francese Macron rispedisce alla lampada a petrolio. Dall’altro, i dirigenti di aziende inquinanti che sfornano oggetti destinati ad alimentare l’alienazione attraverso il consumo. Le caricature alla base dei dibattiti sulla crescita, non ci privano forse di una riflessione sui potenziali scopi dell’attività economica?“.

Poi però  si devono evidenziare tutti i limiti e gli errori del testo di Leigh Phillips, intitolato “Le illusioni della decrescita” e  che oltretutto nel 2005 ha pubblicato un libro della Zero Books “L’ecologia dell’Austerità e i drogati del Collasso, in difesa di Crescita, Progresso, Industria e altre cose del genere”, un titolo lungo quanto inequivocabile.

Secondo questo autore, negli anni ’80 la minaccia ecologica si concentrava sul “buco dell’ozono”, cioè sulla  sparizione di notevoli quantità di questo gas, causata dal CFC, il clorofluorocarbonio, usato in prodotti industriali di largo consumo, che lasciava entrare i raggi ultravioletti del sole, non più bloccati dallo strato di ozono.

Le minacce di danni per l’umanità erano numerose e andavano dal cancro alla pelle e dalle epidemie di immunodeficienza, al deterioramento della qualità dell’acqua, alle interferenze con i cicli biochimici e ad una forte riduzione delle produzioni agricole.

La causa erano le emissioni antropogeniche di sostanze refrigeranti e di aerosol. Venne organizzata nel 1987 la firma del Protocollo di Montreal, entrato in vigore il primo gennaio 1989, e subito accettato dalle aziende coinvolte poiché avevano a disposizione un altro prodotto chimico (HCFC) impiegabile  per le stesse attività produttive, all’epoca ritenuto non dannoso per gli esseri umani. L’articolo afferma che le emissioni dannose si sono ridotte quasi del 98%, che il fenomeno dei “buchi” nello strato di ozono si era invertito nell’anno 2000 e che se ne prevedeva entro il 2075 la completa sparizione. I dati più recenti sono molto meno positivi (sembra che il fenomeno a oggi sia scomparso solo nella misura del 9%) e che il massimo degli effetti si siano avuti solo nella chiusura parziale del “buco” apertosi sopra il Polo Nord.

Ma soprattutto risulta che il nuovo prodotto chimico utilizzato dalle industrie abbia effetti negativi analoghi a quelli del CFC. In ogni caso, si trascura il fatto che per ricostituire una situazione naturale occorra un periodo di almeno 90 anni, mentre i tempi del riscaldamento climatico sono molto più ristretti.

Però Phillips ne trae una serie di indicazioni a carattere molto generale in favore della capacità del progresso tecnologico e delle scelte politiche di superare gli eventuali ostacoli, evolvendo continuamente: “E quando  ci scontriamo con dei limiti naturali, siamo in grado di introdurre innovazioni in grado di superarli. La storia della nostra specie potrebbe proprio riassumersi in questo requisito”.

Dopo questo esempio un po’ datato e molto discutibile in base ai dati più recenti, l’autore prende di petto i sostenitori della necessità di una decrescita, accusandoli di trascurare il problema della sovrappolazione, in quanto si concentrano esclusivamente sulla possibilità di contenere la crescita economica.

 

L’esempio che questo autore porta a sostegno della sua tesi  riguarda quindi il comportamento delle società una volta che siano stati redistribuiti i beni e modificati i consumi, in modo di garantire a tutti il livello necessario di sostentamento. Secondo l’autore, man mano che aumenta la popolazione, si riprodurranno le differenziazioni precedenti e un numero crescente di persone cercherà di acquisire in qualunque modo più del dovuto, quindi si arriva ad affermare che ci sono troppe persone sul pianeta ed è necessario imporre dei vincoli all’aumento demografico.

L’autore cita anche un antropologo, Hickel, che afferma invece che la società della decrescita sia una società dell’abbondanza, e così Phillips affronta un terzo tema, quello del rapporto auspicabile tra produzione e consumi corretti. Secondo la sua ricostruzione (basata su  testi di Milanovic e di Hickel) i sostenitori delle decrescita sono convinti “che il grande livellamento deriverebbe da  vari meccanismi che permetterebbero ai paesi del sottosviluppo di aumentare gradualmente le loro produzioni, mentre il Nord ridurrebbe gradualmente le proprie di circa due terzi.

In realtà, secondo i sostenitori della decrescita, queste analisi sono una esagerazione, poichè i paesi ricchi dovrebbero solo eliminare i prodotti privi di una seria utilità, e sempre secondo Hickel si tratterebbe solo di ridimensionare i settori “devastanti sul piano ecologico e che hanno un interesse scarso o nullo per la società (ad esempio il marketing, le auto 4×4, la carne rossa, la plastica monouso e i combustibili fossili)”.

Il nostro autore riconosce che produciamo indubbiamente una montagna di oggetti e di servizi inutili, ma mette in dubbio che si tratti di due terzi dell’attività produttiva del Nord. E afferma che si devono invece perseguire altri obiettivi, come la riduzione della settimana lavorativa, l’estensione del tempo libero, e l’ampliamento dei servizi sociali. Poi, però, afferma subito dopo che “nulla lascia supporre che queste prospettive compenseranno la predetta riduzione dei redditi personali né permetteranno di  ridurre la produzione economica”.

Le ragioni che adduce sono chiare: “Un maggior tempo libero non supplisce alle angosce derivanti dalla povertà, la possibilità di liberarsi dai vincoli professionali, salvo poi non mangiare, è già possibile per ognuno, ma non suscita un grande entusiasmo. Come afferma un celebre motto, nella società capitalista l’unica cosa più dura dell’essere sfruttato, è il non esserlo”.

E’ evidente che Phillips non riesce proprio ad uscire dalle logiche dominanti. E infatti, nelle conclusioni, ribadisce che anche l’idea che il tempo libero e i servizi sociali possano produrre meno gas serra si fonda sulla convinzione che non comportino l’utilizzo di prodotti manufatti e non richiedano quindi né energia né estrazione di risorse naturali.

E cita una serie di oggetti  (le biciclette e i kayak, gli strumenti musicali, le strumentazione degli ospedali) che richiedono sempre centinaia di minerali diversi oltre ai derivati del petrolio. Nella parte finale l’autore sottolinea ancora una volta che “lo Stato sociale non è l’unica fonte del nostro benessere: ci sono anche il cinema, i giochi, le piastre per i waffle, i televisori” che per lui sono evidentemente dei simboli irrinunciabili e poi lancia la stoccata finale ai sostenitori della decrescita: “L’utopia che vede nell’assenza di tutti questi beni di consumo – ritornando ad una “vita semplice”- la ricetta della felicità seduce le frange più abbienti della borghesia, perché è più facile fantasticare sulla rinuncia quando tutti i propri bisogni sono soddisfatti”.

A parte l’inserimento del pensiero della decrescita all’interno delle utopie della classe borghese, evidentemente l’autore non si è mai interessato ai danni causati al pianeta dai consumi in continuo aumento stimolati dal sistema economico dominante e alle sofferenze nelle quali sono immersi molti miliardi di esseri umani.

La caratteristica principale della “vita semplice” immaginata dal pensiero della decrescita è che essa dovrebbe essere alla portata di tutta l’umanità, nessuno escluso.

Certo non è facile pervenire ad una situazione di questo tipo, specie con le previsioni drammatiche, che diventano sempre più vicine e realistiche, del cambiamento climatico in corso, mentre invece i processi di transizione delineati  dai sostenitori della decrescita sono sempre più attendibili e urgenti con il crescere delle difficoltà dell’Antropocene. 

https://comune-info.net/la-decrescita-illusione-o-necessita/

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