Stupisce trovare proprio su Le Monde Diplomatique, (febbraio 2021), che sia nell’edizione francese che su quella italiana, curata da il manifesto, presenta sempre delle analisi molto approfondite e articolate, un articolo che in modo abbastanza sommario releghi il pensiero della decrescita nel mondo delle illusioni.
Però nella drammatica situazione del nostro pianeta non si può perdere
nessuna occasione di parlare di cosa fare nell’immediato futuro e soprattutto
di mettere in termini il più reali possibili qualunque contributo che
evochi situazioni economiche o sociali e soprattutto che attiri
l’attenzione sulle misure o sulle politiche eventualmente da adottare.
In effetti, la redazione prende un po’ le distanze con un corsivetto
iniziale abbastanza elaborato, che vale la pena di riportare integralmente: “Da un lato, i sostenitori di una frugalità
volontaria, che il presidente francese Macron rispedisce alla lampada a
petrolio. Dall’altro, i dirigenti di aziende inquinanti che sfornano oggetti
destinati ad alimentare l’alienazione attraverso il consumo. Le caricature alla
base dei dibattiti sulla crescita, non ci privano forse di una riflessione sui
potenziali scopi dell’attività economica?“.
Poi però si devono evidenziare tutti i limiti e gli errori del testo
di Leigh Phillips, intitolato “Le
illusioni della decrescita” e che oltretutto nel 2005 ha pubblicato un
libro della Zero Books “L’ecologia dell’Austerità e i drogati del Collasso, in
difesa di Crescita, Progresso, Industria e altre cose del genere”, un
titolo lungo quanto inequivocabile.
Secondo questo autore, negli anni ’80 la minaccia ecologica si concentrava
sul “buco dell’ozono”, cioè sulla sparizione di notevoli quantità di
questo gas, causata dal CFC, il clorofluorocarbonio, usato
in prodotti industriali di largo consumo, che lasciava entrare i raggi
ultravioletti del sole, non più bloccati dallo strato di ozono.
Le minacce di danni per l’umanità erano numerose e andavano dal cancro alla
pelle e dalle epidemie di immunodeficienza, al deterioramento della qualità
dell’acqua, alle interferenze con i cicli biochimici e ad una forte riduzione
delle produzioni agricole.
La causa erano le emissioni antropogeniche di sostanze refrigeranti e di
aerosol. Venne organizzata nel 1987 la firma del Protocollo di Montreal,
entrato in vigore il primo gennaio 1989, e subito accettato dalle aziende
coinvolte poiché avevano a disposizione un altro prodotto chimico (HCFC)
impiegabile per le stesse attività produttive, all’epoca ritenuto non
dannoso per gli esseri umani. L’articolo afferma che le emissioni dannose si
sono ridotte quasi del 98%, che il fenomeno dei “buchi” nello strato di ozono
si era invertito nell’anno 2000 e che se ne prevedeva entro il 2075 la completa
sparizione. I dati più recenti sono molto meno positivi (sembra che il fenomeno
a oggi sia scomparso solo nella misura del 9%) e che il massimo degli effetti
si siano avuti solo nella chiusura parziale del “buco” apertosi sopra il Polo
Nord.
Ma soprattutto risulta che il nuovo prodotto chimico utilizzato dalle
industrie abbia effetti negativi analoghi a quelli del CFC. In ogni caso, si
trascura il fatto che per ricostituire una situazione naturale occorra un
periodo di almeno 90 anni, mentre i tempi del riscaldamento climatico sono
molto più ristretti.
Però Phillips ne trae una
serie di indicazioni a carattere molto generale in favore della capacità del
progresso tecnologico e delle scelte politiche di superare gli eventuali
ostacoli, evolvendo continuamente: “E quando ci scontriamo con dei
limiti naturali, siamo in grado di introdurre innovazioni in grado di
superarli. La storia della nostra specie potrebbe proprio riassumersi in questo
requisito”.
Dopo questo esempio un po’ datato e molto discutibile in base ai dati più
recenti, l’autore prende di petto i sostenitori della necessità di una decrescita,
accusandoli di trascurare il problema della sovrappolazione, in quanto si
concentrano esclusivamente sulla possibilità di contenere la crescita
economica.
L’esempio che questo autore porta a sostegno della sua tesi riguarda
quindi il comportamento delle società una volta che siano stati redistribuiti i
beni e modificati i consumi, in modo di garantire a tutti il livello necessario
di sostentamento. Secondo
l’autore, man mano che aumenta la popolazione, si riprodurranno le
differenziazioni precedenti e un numero crescente di persone cercherà di
acquisire in qualunque modo più del dovuto, quindi si arriva ad affermare che
ci sono troppe persone sul pianeta ed è necessario imporre dei vincoli
all’aumento demografico.
L’autore cita anche un antropologo, Hickel, che afferma invece che la
società della decrescita sia una società dell’abbondanza, e così Phillips
affronta un terzo tema, quello del rapporto auspicabile tra produzione e
consumi corretti. Secondo la sua ricostruzione (basata su testi di Milanovic
e di Hickel) i sostenitori delle decrescita sono convinti “che il grande
livellamento deriverebbe da vari meccanismi che permetterebbero ai paesi
del sottosviluppo di aumentare gradualmente le loro produzioni, mentre il Nord
ridurrebbe gradualmente le proprie di circa due terzi.
In realtà, secondo i sostenitori della decrescita, queste analisi sono una
esagerazione, poichè i paesi ricchi dovrebbero solo eliminare i prodotti privi
di una seria utilità, e sempre secondo Hickel si tratterebbe solo di ridimensionare
i settori “devastanti sul piano ecologico e che hanno un interesse scarso o
nullo per la società (ad esempio il marketing, le auto 4×4, la carne rossa, la
plastica monouso e i combustibili fossili)”.
Il nostro autore riconosce che produciamo indubbiamente
una montagna di oggetti e di servizi inutili, ma mette in dubbio che si tratti
di due terzi dell’attività produttiva del Nord. E afferma che si devono invece
perseguire altri obiettivi, come la riduzione della settimana lavorativa,
l’estensione del tempo libero, e l’ampliamento dei servizi sociali. Poi, però,
afferma subito dopo che “nulla lascia supporre che queste prospettive
compenseranno la predetta riduzione dei redditi personali né permetteranno
di ridurre la produzione economica”.
Le ragioni che adduce sono chiare: “Un maggior tempo libero non supplisce
alle angosce derivanti dalla povertà, la possibilità di liberarsi dai vincoli
professionali, salvo poi non mangiare, è già possibile per ognuno, ma non
suscita un grande entusiasmo. Come afferma un celebre motto, nella società
capitalista l’unica cosa più dura dell’essere sfruttato, è il non
esserlo”.
E’ evidente che Phillips non riesce proprio ad uscire dalle logiche
dominanti. E infatti, nelle conclusioni, ribadisce che anche l’idea che il tempo
libero e i servizi sociali possano produrre meno gas serra si fonda sulla
convinzione che non comportino l’utilizzo di prodotti manufatti e non
richiedano quindi né energia né estrazione di risorse naturali.
E cita una serie di oggetti (le biciclette e i kayak, gli strumenti
musicali, le strumentazione degli ospedali) che richiedono sempre centinaia di
minerali diversi oltre ai derivati del petrolio. Nella parte finale l’autore
sottolinea ancora una volta che “lo Stato sociale non è l’unica fonte del nostro
benessere: ci sono anche il cinema, i giochi, le piastre per i waffle, i
televisori” che per lui sono evidentemente dei simboli irrinunciabili e poi
lancia la stoccata finale ai sostenitori della decrescita: “L’utopia che vede nell’assenza di tutti questi
beni di consumo – ritornando ad una “vita semplice”- la ricetta della felicità
seduce le frange più abbienti della borghesia, perché è più facile fantasticare
sulla rinuncia quando tutti i propri bisogni sono soddisfatti”.
A parte l’inserimento del pensiero della decrescita all’interno delle
utopie della classe borghese, evidentemente l’autore non si è mai interessato
ai danni causati al pianeta dai consumi in continuo aumento stimolati dal
sistema economico dominante e alle sofferenze nelle quali sono immersi molti
miliardi di esseri umani.
La caratteristica principale della “vita
semplice” immaginata dal pensiero della decrescita è che essa dovrebbe essere
alla portata di tutta l’umanità, nessuno escluso.
Certo non è facile pervenire ad una situazione di questo tipo, specie con
le previsioni drammatiche, che diventano sempre più vicine e realistiche, del
cambiamento climatico in corso, mentre invece i processi di transizione
delineati dai sostenitori della decrescita sono sempre più attendibili e
urgenti con il crescere delle difficoltà dell’Antropocene.
https://comune-info.net/la-decrescita-illusione-o-necessita/
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