All’inizio dei corsi di comunicazione per sanitari, inevitabilmente e forse anche per fortuna, i colleghi o gli studenti commentano che la formazione sulla comunicazione è inutile perché durante le visite non c’è abbastanza tempo per comunicare bene con i pazienti.
La
mancanza di tempo lamentata dai medici e dai sanitari in generale, insieme ai
sovraccarichi di lavoro indubbiamente risponde al vero soprattutto nella sanità
pubblica. La mancanza di medici nelle corsie degli ospedali dovuta ad errori
nei cambiamenti normativi che hanno introdotto il numero chiuso nella facoltà
di medicina e nelle scuole di specializzazione, è un’emergenza attuale. La
carenza di infermieri è un tema globale da sempre (WHO, 2018). In ogni caso è
vero che un corso di comunicazione non aumenta il tempo disponibile per le
visite mediche né influisce direttamente sui carichi di lavoro. Tuttavia prima
di decretare l’inutilità della formazione sulla comunicazione o l’inapplicabilità
dei modelli proposti è necessaria una riflessione su alcune evidenze
disponibili relativamente al tempo.
I
medici non sanno ascoltare. Vari studi hanno dimostrato che i medici
interrompono i loro pazienti prima che siano trascorsi una ventina di secondi
dall’inizio dell’esposizione del problema che li ha portati in ambulatorio
(Beckman, 1984; Marvel, 1999; Dyche, 2005; Rhodes, 2004), ciò vale perfino per
i medici veterinari (Dysart, 2011). Le conseguenze sono varie. Fra queste anche
una maggior durata della visita perché a volte il paziente interrotto non è
riuscito a dire al medico il problema principale, salvo poi riuscire a dirlo a
metà visita o al termine e costringere in questi casi il medico ad iniziare
daccapo il suo lavoro. Le evidenze citate ci dimostrano che, permettendo al
paziente di esporre il suo problema senza essere interrotto e sollecitandolo ad
esporre subito ulteriori altri problemi, è possibile ottimizzare il tempo
disponibile.
A
questo punto qualche discente dei nostri corsi afferma «Ma se fai così, non
smettono più di parlare…!»
L’idea
che i pazienti lasciati liberi di parlare non si fermino più, ci viene
inculcata all’università dove spesso i nostri tutor ci hanno insegnato a non
far parlare i pazienti (i miei studenti mi garantiscono che questa pratica
continua immutata ancora oggi). Ma è vero che i pazienti non smettono
di parlare?
Nello
studio di Beckman (1984) le interruzioni sono avvenute tra i 5 e i 50 secondi
dalla richiesta iniziale di informazioni fatta dal medico. Per contro nello
studio è stato osservato che i pazienti che riescono a completare la
presentazione del loro problema in genere non utilizzano più di 60 secondi e
comunque non oltre i 160.
Un
neurologo londinese ha condotto un esperimento molto semplice per dare una
risposta al luogo comune contenuto nell’obiezione riportata prima (Blau, 1989).
Ha visitato 100 pazienti in quattro ambulatori diversi. Durante le visite ha
lasciato parlare i pazienti senza interromperli, misurando il tempo intercorso
tra l’inizio e la fine evitando di far vedere al paziente che stava
cronometrando il tempo su un orologio che teneva nascosto sotto il tavolo.
Durante la visita Blau prendeva appunti, per parte del tempo guardava i
pazienti e annuiva quando era appropriato farlo. Il tempo medio complessivo
delle 100 misurazioni è risultato 1 minuto e 40 secondi. Il 70% dei pazienti ha
parlato meno di 2 minuti. Solo l’11% dei pazienti ha parlato più di 5
minuti.
Lo
studio condotto da Langewitz e coll. (2002) in maniera metodologicamente simile
in pazienti ambulatoriali che si sottoponevano ad una visita internistica ha
dato risultati analoghi. Il tempo medio di monologo del paziente che non veniva
interrotto era di 1 e 45 secondi. Il 78% dei pazienti ha parlato meno di 2 minuti.
Un
risultato analogo (1 minuto e 32 secondi) è stato ottenuto recentemente in uno
studio sulle interruzioni (Ospina, 2019).
Quindi,
in alcuni casi, superati i due minuti potrebbe essere necessario, e talora
indispensabile, interrompere il colloquio con il paziente ed eventualmente con
i suoi familiari. Oltre a ciò, in alcuni casi il paziente tende a divagare su
argomenti completamente estranei alla visita medica ed in questi casi è utile
reindirizzarlo verso i problemi che lo hanno portato in ambulatorio.
Anche
nell’interruzione voluta (coscientemente) dal sanitario è possibile utilizzare
delle abilità di comunicazione per rimanere in un contesto comunicativo
centrato sul paziente.
Fra
le varie modalità reperibili in letteratura noi abbiamo deciso di adottare, per
la sua semplicità, la regola delle tre E (escuse, empathize, explain).
Scusarsi per l’interruzione trasmette il messaggio che ci siamo resi conto che
stiamo interrompendo il paziente e che ci dispiace farlo. Nel farlo dobbiamo
empatizzare con l’argomento che il paziente sta trattando e, infine, spiegare
il motivo per cui dobbiamo interromperlo (Mauksch, 2017).
In
base alla regola citata, se per esempio il paziente si sta eccessivamente
dilungando su un sintomo e abbiamo necessità di interromperlo potremmo usare
una frase di questo tipo: «Mi spiace interrompere la sua esposizione sui dolori
che l’affliggono (escuse) e comprendo che siano un aspetto molto
importante della sua salute (empathize), ma ho bisogno di alcune
informazioni sulla mancanza del respiro durante la notte a cui accennava
prima…(explain)».
Anche
quando parliamo di empatia l’obiezione che il tempo disponibile non sia
sufficiente per una relazione empatica viene spesso espressa sia dagli studenti
che dai sanitari che già lavorano da anni. Ma è vero che per essere empatici ci
vuole più tempo? Vari studi hanno dimostrato che non esiste una correlazione
tra durata della visita e lunghezza della visita. Fra questi quello più
recentemente pubblicato (Kortlever, 2019) ha visto svolgersi l’indagine in
ospedali ortopedici e ha dimostrato che non esiste correlazione fra empatia
percepita dai pazienti e durata della visita né fra empatia percepita e durata
dell’attesa prima della visita. Essere empatici non richiede più tempo che
non esserlo, ma ci consente di ottenere risultati migliori a partire dalla
soddisfazione del paziente e all’aderenza al trattamento.
Il
tempo è scarso, ma se non impariamo a comunicare in modo efficace, lo useremo
in modo peggiore.
Referenze
Beckman,
H. B., & Frankel, R. M. (1984). The effect of physician behavior on the
collection of data. Annals of Internal medicine, 101(5), 692-696.
Blau,
J. N. (1989). Time to let the patient speak. BMJ: British Medical Journal,
298(6665), 39.
Dyche,
L., & Swiderski, D. (2005). The effect of physician solicitation approaches
on ability to identify patient concerns. Journal of general internal medicine,
20(3), 267-270.
Dysart,
L. M., Coe, J. B., & Adams, C. L. (2011). Analysis of solicitation of
client concerns in companion animal practice. Journal of the American
Veterinary Medical Association, 238(12), 1609-1615.
Kortlever,
J. T., Ottenhoff, J. S., Vagner, G. A., Ring, D., & Reichel, L. M. (2019).
Visit Duration Does Not Correlate with Perceived Physician Empathy. JBJS,
101(4), 296-301.
Langewitz,
W., Denz, M., Keller, A., Kiss, A., Rütimann, S., & Wössmer, B. (2002).
Spontaneous talking time at start of consultation in outpatient clinic: cohort
study. Bmj, 325(7366), 682-683.
Marvel,
M. K., Epstein, R. M., Flowers, K., & Beckman, H. B. (1999). Soliciting the
patient's agenda: have we improved?. Jama, 281(3), 283-287.
Mauksch,
L. B. (2017). Questioning a taboo: physicians’ interruptions during
interactions with patients. Jama, 317(10), 1021-1022.
Ospina,
N. S., Phillips, K. A., Rodriguez-Gutierrez, R., Castaneda-Guarderas, A.,
Gionfriddo, M. R., Branda, M. E., & Montori, V. M. (2019). Eliciting the
patient’s agenda-secondary analysis of recorded clinical encounters. Journal of
general internal medicine, 34(1), 36-40.
Rhodes,
K. V., Vieth, T., He, T., Miller, A., Howes, D. S., Bailey, O., ... &
Levinson, W. (2004). Resuscitating the physician-patient relationship:
emergency department communication in an academic medical center. Annals of
emergency medicine, 44(3), 262-267.
World
Health Organization, 2018. Nursing
and Midwifery: Fact Sheet Retrieved from. .
Sergio
Ardis è
docente a contratto (AA 2019-2020) “Comunicazione etica in medicina” presso
l'Università di Pisa
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