Occhi puntati su una stella che gli astronomi chiamano KIC
8462852. Per coglierne minime oscillazioni luminose la scrutano dallo spazio
satelliti cacciatori di esopianeti come “Kepler” della Nasa e telescopi al
suolo che guardano il cielo in luce visibile e nell’infrarosso. KIC 8462852 è
anche tra i primi enigmi in lista di attesa dei futuri telescopi spaziali
“James Webb”, il successore di “Hubble”, e TESS (successore di “Kepler”). Noi,
che abbiamo una memoria allergica alle targhe, la chiameremo “stella di Dyson”.
Altri, con la stessa allergia, la chiamano “Tabby’s Star” in quanto Tabby è uno
dei primi astronomi che l’hanno studiata. Il primo nome mi sembra preferibile
al secondo per un buon motivo.
Venerando (93 anni) ed eminente fisico teorico, Freeman
Dyson da sempre è convinto che esista vita intelligente extraterrestre. Poiché
è capace di coraggiosa fantasia, Dyson ha provato a immaginare il comportamento
di una civiltà aliena molto avanzata. Ne concluse che questa civiltà, essendo
improbabile la migrazione da un sistema stellare a un altro, prima o poi si
sarebbe scontrata con una grave crisi energetica e l’avrebbe risolta cercando
di catturare tutta o quasi l’energia della sua stella avvolgendola con
sottilissime pellicole riflettenti. Completata l’impresa, l’intero sistema
planetario si sarebbe trovato confinato in una sfera di specchi – la cosiddetta
“sfera di Dyson” – e la stella ad osservatori esterni sarebbe sembrata
affievolirsi fino quasi a spegnersi.
Bene: KIC 8462852 mostra variazioni di luminosità
capricciose ma sempre al ribasso, come se gli abitanti di un suo pianeta
stessero costruendole intorno una “sfera di Dyson”. La luce che ci arriva
diminuisce dello 0,34 per cento all’anno, nei quattro anni di osservazioni di
“Kepler” ha perso il 2-3 per cento e nell’ultimo secolo il 19%.
Della “stella di Dyson” si è occupato nel 2015 e nel 2016
l’autorevole “Astrophysical Journal” e ora gli astronomi sono in attesa
spasmodica di nuovi dati. Così una stella anonima di magnitudine 12, a 1480
anni luce da noi nella costellazione del Cigno, un po’ più grande e massiccia
del Sole ma meno brillante, di colore bianco-giallo, è diventata famosa. I
ricercatori del programma SETI, Search for Extra Terrestrial Intelligence, la
stanno studiando amorevolmente. Nei dintorni c’è una stella nana rossa: il
pianeta sede della civiltà che sta realizzando la “sfera di Dyson” potrebbe
anche essere suo.
Se trovassimo davvero una civiltà extraterrestre, sarebbe
la più grande scoperta di tutti i tempi. E’ probabile, per una logica di tipo
statistico e per il “principio copernicano” (nessuno è speciale) che ciò
accadrà. Ma non domani mattina. Se ci vorranno decenni, secoli o millenni, oggi
non è dato sapere. Il miglior modo per non provare disillusioni è non
illudersi.
Intanto, aspettando il grande giorno, è bene leggere
“Alieni. C’è qualcuno là fuori?”, una raccolta di 19 saggi sulla ricerca di
vita nell’universo curata da Jim Al-Khalili e pubblicata da Bollati
Boringhieri (140 pagine, 22 euro). E’ un libro pieno di informazioni curiose e
ragionamenti seduttivi. La regola è: non essere provinciali nell’immaginare i
pianeti di altre stelle e i loro eventuali abitanti.
Anil Seth, docente di neuroscienze cognitive alla
University of Sussex, pensa che gli extraterrestri potrebbero somigliare a
polpi come l’Octopus vulgaris: basterebbero alcuni passi nel giusto verso
dell’evoluzione e questo mollusco cefalopode potrebbe diventare un alieno
geniale.
L’Octopus ha otto arti prensili dotati di ventose. Meglio
di due mani con pollice contrapposto. Ha tre cuori. Meglio di uno solo, che se
si ferma addio. Vive fino a 200 metri di profondità. Ha occhi che se la cavano
bene con pochissima luce e “vede” anche con la pelle, che lo mimetizza
prendendo il colore dell’ambiente. Si difende sparando un inchiostro che
spiazza l’avversario più dei lacrimogeni lanciati dalla polizia. Ha mezzo
miliardo di neuroni, sei volte più di un topo. D’accordo, noi ne abbiamo 90 miliardi,
180 volte di più.
Ma il polpo ha un cervello distribuito in gran parte del
corpo: i suoi 8 tentacoli sono arti intelligenti, semiautonomi, agiscono quasi
come animali indipendenti. Con il suo cervello diffuso, il polpo sa scovare
oggetti nascosti, utilizza oggetti naturali come strumenti, impara per
imitazione da altri polpi come risolvere problemi. Nelle ventose ha l’organo
del gusto, un modo per assaggiare la preda già mentre la cattura. Forse
possiede persino una vaga consapevolezza di sé in quanto l’intelligenza diffusa
permette a ogni tentacolo di “guardare” dall’esterno l’azione degli altri
tentacoli. Il suo genoma – ha scritto su “Nature” il neurobiologo Roderik
Clifton – è così strano che sembra fatto con un DNA alieno.
Non intelligenti e tuttavia formidabili nella capacità di
sopravvivenza sono i batteri estremofili, indifferenti al caldo al freddo,
all’acido e al salato, al secco e all’umido, alle radiazioni e alla mancanza di
ossigeno. Sono probabilmente la forma di vita più diffusa sulla Terra, eppure
ne sappiamo pochissimo. Paul Davis, fisico e cosmologo dell’Università
dell’Arizona, vede in essi i migliori candidati al titolo di creatura aliena,
forse anche capace di viaggiare a bordo di meteoriti.
Rimane il fatto imbarazzante che ancora non sappiamo come
sia comparsa la vita sulla Terra, figuriamoci su altri pianeti. Una nuova linea
di ricerca punta sulla meccanica quantistica: la vita è chimica, ma sotto la
chimica c’è la fisica e il livello più profondo della fisica è quantizzato. E’
così che dobbiamo rivisitare la vecchia idea del “brodo primordiale” sostiene
Johnjoe McFadden, professore di genetica molecolare alla University of Surrey.
LUCA, che non è l’evangelista ma la sigla di Last Universal Common Ancestor,
ultimo antenato universale comune, sarebbe uscito da un tiepido bagno quantico,
levatrice l’indeterminazione del principio di Heisenberg.
La sfida più importante lanciata dalla ricerca di esseri
extraterrestri è alla nostra fantasia. Dobbia sforzarci di non essere provinciali
nel concepire la vita e domandarci prima di tutto che cosa stiamo veramente
cercando. Molti pensano che sia un errore andare a caccia di qualcosa di
“vivente” nel senso tradizionale: la vita biologica è fragile, una vita
biologica evoluta dovrebbe dare origine a macchine autoriproducentesi, e sono
queste macchine che dovremmo immaginare come nostri interlocutori. Altri ancora
pensano che una vita evoluta non abbia interesse alla comunicazione con altre
creature, o che saggiamente non voglia entrare in contatto per evitare di
disturbarne la nicchia ecologica.
Alla Nasa e nella redazione di “Science” sono meno
prudenti. E’ almeno dal 2005 che si parla dei geyser di Enceladus, satellite di
Saturno, di un suo ipotetico oceano sub-glaciale e, con un salto ardito, di
eventuali forme di vita nell’ambiente marino dove una temperatura moderata
potrebbe creare condizioni adatte alla loro comparsa. Crepe nello strato
ghiacciato con fuoriuscita di vapori e gas (foto) osservate nell’ottobre 2015
dalla sonda Nasa-Esa “Cassini”, hanno rinforzato queste supposizioni. E
l’ultimo numero di “Science” ha pubblicato un articolo di Hunter Waite e
colleghi che annuncia la scoperta di idrogeno molecolare, una “firma” della
presenza di acqua e di processi idrotermali. Questi processi sarebbero una
potenziale fonte di energia per organismi simili a quelli scoperti nelle
“fumarole” degli abissi terrestri, dove si è sviluppata una vita che trae
energia dalla scissione di composti dello zolfo.
L’osservazione delle molecole di idrogeno è stata possibile
grazie al Neutral Mass Spectrometer a bordo di “Cassini”, che ha analizzato i
gas contenuti nei pennacchi dei geyser. L’abbondanza dell’idrogeno,
relativamente alta, favorisce la formazione di metano a partire dall’anidride carbonica
disciolta nel presunto oceano di Enceladus. Il quale, scoperto da William
Herschel nel 1789, tra 67 satelliti di Saturno è il sesto per dimensioni, ha un
diametro di 500 chilometri e una temperatura di -200 °C, e ora spicca sulle
prime pagine dei giornali come un Eldorado della vita.
Sempre alla spasmodica ricerca di visibilità, la Nasa ha
dato ampio rilievo alla (ri)scoperta dell’acqua tiepida su Encelado, suffragata
dall’osservazione dell’idrogeno molecolare. Quotidiani e tv di tutto il mondo,
manco a dirlo, si sono accodati, anche mobilitando firme scientifiche
importanti. Dalla fantascienza alla scienza fantasiosa il passo è stato
breve.
Torniamo al libro curato da Al-Khailili. Nel 1961 il
radioastronomo Frank Drake ideò una formula per calcolare un numero di civiltà
aliene ragionevolmente attendibile. La debolezza della formula era che alcuni
suoi parametri all’epoca erano ignoti. Non si sapeva, per esempio, quanto
frequenti fossero i sistemi planetari né quanto potesse durare una civiltà
evoluta. Oggi è certo che i pianeti sovrabbondano: sono miliardi. Resta ignota
la durata di una civiltà biologica, ma si ritiene che talvolta dovrebbe
sviluppare macchine intelligenti senza limiti di età.
Il nuovo passo è l’”equazione di Seager”. Sara Seager è
astrofisica e planetologa, insegna al MIT e la rivista “Time” l’ha inserita tra
le 25 persone più influenti nelle scienze dello spazio. Per non cercare a caso
– ragiona la Seager – sarebbe utile stimare il numero di pianeti con segni di
vita rilevabili nella loro atmosfera sotto forma di gas di origine certamente
biologica con i futuri telescopi orbitanti “James Webb” (JWST) e “TESS”.
Al termine di calcoli minuziosi, nel saggio scritto per il
libro “Alieni” Sara Seager conclude: “il numero di pianeti in possesso di segni
rilevabili della vita è: N = 4 x 0,5 x 0,5 = 1. Il TESS e il JWST potrebbero
consentirci di rilevare la presenza di ‘una’ forma di vita, quella presente nel
nostro minuscolo angolino della Via Lattea. E’ il mio modo per dire che
dovremmo essere molto fortunati per osservare delle biofirme sotto forma di gas
nel decennio a venire.” Purché quella unica forma di vita calcolata da Sara
Seager non sia quella che già conosciamo fin troppo bene.
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