Nato nel 1987 il
programma Erasmus consente ai giovani universitari di soggiornare
e studiare in paesi diversi dal proprio per un certo periodo di tempo. Lodevole, per certi versi, l’iniziativa,
soprattutto se riferita agli anni in cui venne istituita.
Oggi però, a mio parere, il messaggio
deve essere diametralmente opposto. La cultura “altra” che vale la pena
conoscere non è quella del paese straniero. Del resto, quale diversità ci può
ormai essere fra le culture dei vari paesi europei? Pressoché nessuna. Anche il cibo è unificato, così come una lingua inglese veicolare buona per tutte le
salse. La cosiddetta “esperienza”, in realtà,
altro non è che soggiorno turistico.
La cultura
“altra” oggi è quella che persiste nei paesini dell’Italia interna. La cultura dei luoghi lontani dalle città, spesso
abbandonati. La cultura delle
terre lontane dalla competizione economica, dove ancora sono in uso lo scambio
dei beni e la loro autoproduzione. Dove il denaro non è padrone assoluto della
vita e della morte degli individui. Dove la lentezza dei movimenti è una
ricchezza inalienabile. Dove gli “ambienti dinamici” delle
città non si sa neppure cosa siano. Dove il consumo di psicofarmaci è prossimo
allo zero. Dove il sole sorge e tramonta esattamente come mille anni fa. Dove
non c’è bisogno di economisti, di opinionisti e di competitor. Dove ci sono persone nelle
piazze, insieme a cani e gatti. Dove si vivono le
gioie e le tragedie dell’esistenza senza clamori, perché si comprende che tutto
rientra nella natura delle cose.
Ecco, allora,
questo sarebbe un bel programma da finanziare. Che chiamerei Virgilio. Dare la possibilità ai giovani di conoscere un altro
modo di vivere, radicalmente diverso. Un soggiorno nei
paesini dell’Italia interna. Starà poi a loro
scegliere, in assoluta libertà, cosa fare della propria vita.
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