È un topolino minuscolo, impaurito e
molto affamato quello che vive in una piccola gabbia nel laboratorio per
esperimenti del dottor Russel Church, ricercatore della Brown University. La
piccola cavia, X, ha veramente bisogno di mangiare, è da parecchio tempo
che digiuna. Lui lo sa come procurarsi il cibo, lo sa che basta premere una
leva per far scendere l’agognato premio che servirebbe a riempirgli la pancia.
In fondo è stato concepito e addestrato per questo. È molto intelligente, come
tutti quelli della sua specie, e ci ha messo poco a capire il meccanismo della
gratificazione: l’unico modo per ottenere da mangiare è tirare la stramaledetta
leva. Eppure non lo fa, da diversi giorni non mette niente in bocca. Il
congegno non è cambiato ma lui quella leva non la vuole proprio tirare. Il
fatto è che, in una gabbia adiacente alla sua, hanno piazzato uno come lui, Y,
un topolino piccolo e spaventato, le cui zampette esili poggiano su una griglia
elettrizzata. Ed ogni volta che X tira la leva una violenta scossa elettrica
attraversa il reticolato posto ai piedi del suo vicino di cella e lo fa ballare
sui carboni ardenti. X ci ha messo poco a fare la connessione, a dedurre che la
leva per lui è salvezza mentre per Y è morte. E ha deciso di non tirarla più,
che è meglio crepare di fame piuttosto che vedere e sentire il suo compagno di
prigionia contorcersi dal dolore, piuttosto che è essere l’esecutore materiale
di quella sofferenza. E tutto ciò nonostante X, non abbia mai visto prima
quell’altro topolino, non ne conosca l’odore, non gli sia familiare alla vista.
Entrambi sono nati in cattività, destinati ad essere cavie; non immaginano la
vita della colonia, forse non hanno mai nemmeno socializzato con un loro
simile, sicuramente non sono mai stati liberi ne lo saranno mai. Eppure X ha
dentro una forza che gli dice di non premere quella leva, di non infliggere
quel dolore, costi quel che costi, perché è sbagliato, perché è immorale,
perché prova empatia per quell’essere come lui, e diverso da lui, che combatte
e soffre per vivere. X non lo sa, ma lui non che l’ultimo di una serie di
cavie, tutte sottoposte allo stesso crudele esperimento, che si sono rifiutate
di tirare quella leva, in nome della propria natura, del proprio istinto, della
propria volontà di esercitare quella libertà che non hanno mai avuto.
Tutto ciò accaddeva nel 1959, alla
Brown University. Russel Church pubblicò un articolo sul Journal of Comparative and Physiological Psychology dal
titolo “Reazioni Emotive dei ratti al dolore altrui”. Pochi anni dopo, nel
1963, Stanley Milgram, scienziato statunitense, selezionò per un suo studio 40
uomini, tra i venti e cinquant’anni, comunicandogli che avrebbero partecipato
ad un esperimento, dietro compenso, riguardante la memoria e l’apprendimento.
Dopo un sorteggio truccato, ai
partecipanti veniva affidato il ruolo di insegnante mentre degli attori
complici ricoprivano quello di allievo. L’insegnante veniva allora posto
dinnanzi ad una pulsantiera, collegata ad un generatore di scosse elettriche,
composta da 30 interruttori, ognuno dei quali corrispondeva ad un livello di
tensione erogata, da un minimo di 15 ad un massimo di 450 volt. All’insegnante
veniva fatta percepire una scossa da 45 volt, l’unica realmente attiva, così da
dimostrare che non si trattava di una finzione. A quel punto, i partecipanti,
affiancati da un “esperto”, sottoponevano un test della memoria agli allievi,
che dovevano essere puniti con una scossa elettrica crescente per ogni risposta
sbagliata. Gli attori complici erano in una stanza accanto collegati ad
una finta sedia elettrica e dovevano simulare, con intensità maggiore o minore
a seconda del voltaggio, le reazioni al sopraggiungere della tensione.
L’esperto aveva il compito di esortare verbalmente l’insegnante a non
interrompere l’esperimento, utilizzando frasi ricorrenti come “non ha altra
scelta, deve proseguire” “è assolutamente indispensabile che lei continui”. Lo
scopo dell’esperimento era misurare il grado di obbedienza dei soggetti ad un’autorità,
in questo caso l’esperto, che gli ordinava di eseguire azioni in contrasto con
la propria etica. La pulsantiera era il mezzo attraverso cui quantificare
l’accettazione. I risultati, confermati poi in altri studi, dimostrarono che i
partecipanti, nonostante qualche protesta verbale e una certa tensione fisica
(variabili in base alla distanza dagli allievi, dalla loro visione e
dall’ascolto dei loro lamenti), nella maggior parte dei casi giungevano ad
infliggere scariche di tensione potenzialmente mortali. Milgram, che nel
realizzare tale esperimento fu profondamente influenzato dal processo al
gerarca nazista Eichman, appena iniziato in Israele, riuscì così a dimostrare
che potenzialmente, in determinate situazioni, la maggior parte degli individui
è disposta a tenere, in ottemperanza alle indicazioni dell’autorità, condotte
moralmente riprovevoli.
Ora è bene domandarci da una parte
come mai i partecipanti allo studio di Milgram, che non erano sottoposti ad
alcuna costrizione fisica e di fatto potevano interrompere in ogni momento
l’esperimento senza nessun danno per se stessi, e che, visto il sorteggio
iniziale di cui non conoscevano il trucco, potenzialmente potevano trovarsi al
posto degli allievi, continuavano ad infliggere, direttamente, scariche sempre più forti a soggetti che
urlavano pietà, si sbattevano, gridavano di avere dolori allucinanti e
simulavano perfino svenimenti. E come mai, dall’altra parte, i topi di Churc,
incalzati dalla fame e sistematicamente addestrati a tirare la leva, si rifiutassero
in massa, al prezzo della vita, di infliggere, indirettamente,
dolore ad un simile che però per loro era uno sconosciuto.
Potremmo semplicisticamente dedurre
che come esseri umani siamo sbagliati, che il quadro angosciante che dipingiamo
su questa Terra sia l’unica opera capace di fuoriuscire dalle nostre mani.
Sbaglieremmo. Sia perché finiremmo per estendere all’umanità intera le
responsabilità che in realtà ricadono solo su una parte di essa, sia perché,
per l’ennesima volta, finiremmo per isolarci dal resto dei viventi. D’altro
canto potremmo dire che i topi sono troppo diversi da noi per risultare un
termine di paragone adeguato e che, se avessero determinate facoltà forse si
comporterebbero alla nostra stregua. E sbaglieremmo anche in questo caso.
Darwin più volte ha posto l’accento sul fatto che le differenze tra gli uomini
e gli altri animali non sono qualitative bensì semplicemente di grado.
Condividiamo con essi non soltanto un percorso evolutivo comune, ma soprattutto
sentimenti basilari e fondamentali.
E allora come mai i topi di Church
si sono rifiutati, a prezzo della vita, di fare ciò che gli uomini di Milgram
hanno fatto senza subire alcuna imposizione fisica? È evidente che la
differenza sta tutta nelle strutture sociali, culturali, economiche che
permeano gli individui, nelle dinamiche di dominio, repressione, violenza che
si instaurano nei rapporti tra i soggetti. Strutture e rapporti che in
qualche misura finiscono per arrivare così in profondità da modificare quei
caratteri empatici ed etici che ci portiamo appresso come regalo più bello del
nostro percorso evolutivo.
Per questo quando perdiamo la
speranza, quando siamo convinti che l’uomo sia destinato alla dannazione
eterna, ricordiamoci dei topi di Church, capaci di pagare il prezzo più alto
per restare fedeli alla propria morale e di ricordarci che anche noi possiamo
tornare a camminare lungo il loro stesso sentiero.
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