domenica 23 aprile 2017

Un piccolo topo ci insegna a cambiare il futuro - Matteo Minelli


È un topolino minuscolo, impaurito e molto affamato quello che vive in una piccola gabbia nel laboratorio per esperimenti del dottor Russel Church, ricercatore della Brown University. La piccola cavia, X, ha  veramente bisogno di mangiare, è da parecchio tempo che digiuna. Lui lo sa come procurarsi il cibo, lo sa che basta premere una leva per far scendere l’agognato premio che servirebbe a riempirgli la pancia. In fondo è stato concepito e addestrato per questo. È molto intelligente, come tutti quelli della sua specie, e ci ha messo poco a capire il meccanismo della gratificazione: l’unico modo per ottenere da mangiare è tirare la stramaledetta leva. Eppure non lo fa, da diversi giorni non mette niente in bocca. Il congegno non è cambiato ma lui quella leva non la vuole proprio tirare. Il fatto è che, in una gabbia adiacente alla sua, hanno piazzato uno come lui, Y, un topolino piccolo e spaventato, le cui zampette esili poggiano su una griglia elettrizzata. Ed ogni volta che X tira la leva una violenta scossa elettrica attraversa il reticolato posto ai piedi del suo vicino di cella e lo fa ballare sui carboni ardenti. X ci ha messo poco a fare la connessione, a dedurre che la leva per lui è salvezza mentre per Y è morte. E ha deciso di non tirarla più, che è meglio crepare di fame piuttosto che vedere e sentire il suo compagno di prigionia contorcersi dal dolore, piuttosto che è essere l’esecutore materiale di quella sofferenza. E tutto ciò nonostante X, non abbia mai visto prima quell’altro topolino, non ne conosca l’odore, non gli sia familiare alla vista. Entrambi sono nati in cattività, destinati ad essere cavie; non immaginano la vita della colonia, forse non hanno mai nemmeno socializzato con un loro simile, sicuramente non sono mai stati liberi ne lo saranno mai. Eppure X ha dentro una forza che gli dice di non premere quella leva, di non infliggere quel dolore, costi quel che costi, perché è sbagliato, perché è immorale, perché prova empatia per quell’essere come lui, e diverso da lui, che combatte e soffre per vivere. X non lo sa, ma lui non che l’ultimo di una serie di cavie, tutte sottoposte allo stesso crudele esperimento, che si sono rifiutate di tirare quella leva, in nome della propria natura, del proprio istinto, della propria volontà di esercitare quella libertà che non hanno mai avuto.
Tutto ciò accaddeva nel 1959, alla Brown University. Russel Church pubblicò un articolo sul Journal of Comparative and Physiological Psychology dal titolo “Reazioni Emotive dei ratti al dolore altrui”. Pochi anni dopo, nel 1963, Stanley Milgram, scienziato statunitense, selezionò per un suo studio 40 uomini, tra i venti e cinquant’anni, comunicandogli che avrebbero partecipato ad un esperimento, dietro compenso, riguardante la memoria e l’apprendimento.
Dopo un sorteggio truccato, ai partecipanti veniva affidato il ruolo di insegnante mentre degli attori complici ricoprivano quello di allievo. L’insegnante veniva allora posto dinnanzi ad una pulsantiera, collegata ad un generatore di scosse elettriche, composta da 30 interruttori, ognuno dei quali corrispondeva ad un livello di tensione erogata, da un minimo di 15 ad un massimo di 450 volt. All’insegnante veniva fatta percepire una scossa da 45 volt, l’unica realmente attiva, così da dimostrare che non si trattava di una finzione. A quel punto, i partecipanti, affiancati da un “esperto”, sottoponevano un test della memoria agli allievi, che dovevano essere puniti con una scossa elettrica crescente per ogni risposta sbagliata. Gli attori complici erano in una stanza accanto collegati ad una finta sedia elettrica e dovevano simulare, con intensità maggiore o minore a seconda del voltaggio, le reazioni al sopraggiungere della tensione. L’esperto aveva il compito di esortare verbalmente l’insegnante a non interrompere l’esperimento, utilizzando frasi ricorrenti come “non ha altra scelta, deve proseguire” “è assolutamente indispensabile che lei continui”. Lo scopo dell’esperimento era misurare il grado di obbedienza dei soggetti ad un’autorità, in questo caso l’esperto, che gli ordinava di eseguire azioni in contrasto con la propria etica. La pulsantiera era il mezzo attraverso cui quantificare l’accettazione. I risultati, confermati poi in altri studi, dimostrarono che i partecipanti, nonostante qualche protesta verbale e una certa tensione fisica (variabili in base alla distanza dagli allievi, dalla loro visione e dall’ascolto dei loro lamenti), nella maggior parte dei casi giungevano ad infliggere scariche di tensione potenzialmente mortali. Milgram, che nel realizzare tale esperimento fu profondamente influenzato dal processo al gerarca nazista Eichman, appena iniziato in Israele, riuscì così a dimostrare che potenzialmente, in determinate situazioni, la maggior parte degli individui è disposta a tenere, in ottemperanza alle indicazioni dell’autorità, condotte moralmente riprovevoli.
Ora è bene domandarci da una parte come mai i partecipanti allo studio di Milgram, che non erano sottoposti ad alcuna costrizione fisica e di fatto potevano interrompere in ogni momento l’esperimento senza nessun danno per se stessi, e che, visto il sorteggio iniziale di cui non conoscevano il trucco, potenzialmente potevano trovarsi al posto degli allievi, continuavano ad infliggere, direttamente, scariche sempre più forti a soggetti che urlavano pietà, si sbattevano, gridavano di avere dolori allucinanti e simulavano perfino svenimenti. E come mai, dall’altra parte, i topi di Churc, incalzati dalla fame e sistematicamente addestrati a tirare la leva, si rifiutassero in massa, al prezzo della vita, di infliggere, indirettamente, dolore ad un simile che però per loro era uno sconosciuto.
Potremmo semplicisticamente dedurre che come esseri umani siamo sbagliati, che il quadro angosciante che dipingiamo su questa Terra sia l’unica opera capace di fuoriuscire dalle nostre mani. Sbaglieremmo. Sia perché finiremmo per estendere all’umanità intera le responsabilità che in realtà ricadono solo su una parte di essa, sia perché, per l’ennesima volta, finiremmo per isolarci dal resto dei viventi. D’altro canto potremmo dire che i topi sono troppo diversi da noi per risultare un termine di paragone adeguato e che, se avessero determinate facoltà forse si comporterebbero alla nostra stregua. E sbaglieremmo anche in questo caso. Darwin più volte ha posto l’accento sul fatto che le differenze tra gli uomini e gli altri animali non sono qualitative bensì semplicemente di grado. Condividiamo con essi non soltanto un percorso evolutivo comune, ma soprattutto sentimenti basilari e fondamentali.
E allora come mai i topi di Church si sono rifiutati, a prezzo della vita, di fare ciò che gli uomini di Milgram hanno fatto senza subire alcuna imposizione fisica? È evidente che la differenza sta tutta nelle strutture sociali, culturali, economiche che permeano gli individui, nelle dinamiche di dominio, repressione, violenza che si instaurano nei rapporti  tra i soggetti. Strutture e rapporti che in qualche misura finiscono per arrivare così in profondità da modificare quei caratteri empatici ed etici che ci portiamo appresso come regalo più bello del nostro percorso evolutivo.
Per questo quando perdiamo la speranza, quando siamo convinti che l’uomo sia destinato alla dannazione eterna, ricordiamoci dei topi di Church, capaci di pagare il prezzo più alto per restare fedeli alla propria morale e di ricordarci che anche noi possiamo tornare a camminare lungo il loro stesso sentiero.

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