C’era una volta un uomo dagli occhi profondi, di un nero brillante, come
spesso hanno i magrebini e a volte gli italiani del sud. Lo sguardo era dolce e
anche il sorriso lo era. Era un uomo piuttosto alto, aveva la pelle scura e
vellutata come ce l’hanno spesso i magrebini. Era magro e portava sempre un
copricapo a calotta, uno di quelli che in Tunisia credo si chiamino shishyà e
si sedeva in un punto di via di Donna Olimpia, nella parte più popolare di
Monteverde, poco distante dalla zona frequentata da Pasolini molti anni prima.
Accanto a sé stendeva un telo con sopra oggetti artigianali nordafricani
belli e qualche cianfrusaglia. Sul muro alle sue spalle fissava delle corde e
su quelle esponeva alcuni tappeti. Parlava
con voce bassa e dolce e quando qualcuno si fermava lui si alzava e spiegava la
fattura dei tappeti o l’origine dei bracciali e degli orecchini.
Era un uomo gentile e mi sarebbe piaciuto chiedergli qualcosa della sua
vita ma ho sempre temuto di essere invadente e non l’ho mai fatto. Non so
neanche se fosse tunisino o marocchino, ma aveva detto a un bambino che si
fermava sempre a parlare con lui, che la sua casa era sul mare Mediterraneo, ma
dall’altra parte e che lui un giorno ci sarebbe tornato.
Il bambino, che ora ha più di trent’anni e che
allora ne aveva solo tre ma sembrava molto più grande, era affascinato dagli elefanti di uno dei
suoi tappeti. Quello che gli piaceva tanto perché, anche girandolo al rovescio,
gli elefanti non sparivano ma cambiavano colore.
L’elefante, insieme all’ippopotamo, al rinoceronte e al coccodrillo erano
stati i primi animali di gomma che gli erano stati regalati quando non aveva
ancora un anno e con i quali giocava immaginandosi nella giungla e chiamandoli
con i nomi storpiati che allora riusciva a pronunciare. Il rinoceronte era onne,
popommomo era l’ippopotamo e bobe, derivato da proboscide, era l’elefante. Ma
dopo due anni i nomi erano ormai pronunciati correttamente e all’amore per gli animali della giungla si
era aggiunto quello per i cani, i gatti, i cavalli, le farfalle, le lumache, le
coccinelle, i pulcini… una tragedia!
Ricordo di aver passato un’estate in Abruzzo con lui girando per tutte le
stalle dell’aquilano affinché potesse accarezzare i vitelli e ridere felice se
il vitellino gli si strusciava contro. Non c’era cane che non abbracciasse e papere, pulcini e soprattutto
cavalli che non lo incantassero. Ma li voleva vedere tutti liberi.
Poi c’era stata la fase dello zoo e lì era stata dura fargli capire che non
potevamo aprire le gabbie e dài a raccontargli la pietosa bugia che le giraffe,
gli orsi, gli elefanti e anche le tigri e i leoni stavano da noi solo qualche
mese per farsi conoscere e poi sarebbero stati riportati a casa loro e lasciati
nuovamente in libertà.
In una delle visite allo zoo un giorno scoprì i
cuccioli di elefante e il suo antico amore diventò passione. Lo raccontava al
signore dei tappeti che veniva dall’altra parte del Mediterraneo ed era
eccitato quando gli diceva che aveva visto l’elefantino stare sotto la pancia
della mamma e camminare con lei.
E il signore tunisino (o
marocchino) se lo teneva sulle ginocchia e gli sorrideva tanto. Ogni
tanto lo accarezzava e gli diceva qualcosa e il bambino parlava, parlava e la
cosa andava avanti per una ventina di minuti e poi si salutavano.
Un giorno questo signore mi chiese se gli
compravo un tappeto, magari quello con gli elefanti che piaceva tanto al
bambino. Io non so perché, forse
semplicemente perché allora non mi interessavano i tappeti, dissi di no. Lui
non era invadente, rispose solo “va bene”.
Tutti i giorni che passavamo di lì, almeno due o tre volte alla settimana,
lui regalava al bambino un braccialino sottile, oppure un gingillo di quelli
ammonticchiati nella cianfrusaglia e non voleva mai essere pagato.
Un giorno Alessandro, mentre era accovacciato accanto a lui gli prese la
shishyà, se la mise in testa e cominciarono a ridere felici tutti e due,
MA IN QUEL MOMENTO PASSÒ UNA
PERSONA che ci conosceva e che TROVÒ RIPROVEVOLE che io facessi stare il
bambino in tale intimità con un “tappetaro” immigrato.
Io sono una delle persone più buone al mondo, lo ripeto sempre e ne sono
convinta, solo mio figlio lo nega, ma i figli, anche questo dico sempre, su
queste cose non fanno testo! Ma anche se sono una delle persone più buone sulla
faccia della terra, qualche volta il mio alter ego incatenato rompe le catene e
viene fuori. Butta giù con una gomitata la mia parte buona, esprime tutto se
stesso e poi rientra e si fa chiudere di nuovo a chiave, ma solo a missione
compiuta.
Così, in quel momento, il mio
alter ego ruppe le catene e spiegò a quella persona che lei era al di sotto del
livello minimo raggiungibile da un umanoide decerebrato e che il
suo aspetto fisico ne era la prova, quindi non poteva apprezzare ciò che era lontano mille miglia dal suo
cervello non ancora evoluto e sostituito dalla parte bassa del suo
intestino, e poi aggiunsi qualcos’altro che non ricordo più invitandola a non
avvicinarsi mai più a nessuno di noi.
Fin qui niente di strano, solo che a quel punto, il bambino che amava tanto
gli animali e in modo particolare, in quel periodo, gli elefanti, mi guardò con
uno sguardo diverso dal solito e mi disse: MAMMA, COMPRIAMO IL TAPPETO!
Già, compriamo il tappeto!
Aveva poco più di 3 anni, ma tutti credevano ne avesse almeno 7. Era nato gigante e quando aveva pochi mesi suo padre scherzando diceva che mi somigliava perché eravamo già alti uguali.
In quel momento non aveva 3 anni Alessandro, e neanche 7. In quel momento mio figlio era un bambino adulto.
Aveva capito perfettamente che quella mondezza umana aveva offeso il suo amico tunisino, o forse marocchino, quello con cui parlava degli animali della giungla e del paese lontano da cui venivano i tappeti.
Aveva poco più di 3 anni, ma tutti credevano ne avesse almeno 7. Era nato gigante e quando aveva pochi mesi suo padre scherzando diceva che mi somigliava perché eravamo già alti uguali.
In quel momento non aveva 3 anni Alessandro, e neanche 7. In quel momento mio figlio era un bambino adulto.
Aveva capito perfettamente che quella mondezza umana aveva offeso il suo amico tunisino, o forse marocchino, quello con cui parlava degli animali della giungla e del paese lontano da cui venivano i tappeti.
Aveva capito che anche il suo amico aveva capito
perché la sua espressione si era fatta più malinconica e ci guardava come a
dire “ed ora?” Allora il bambino che non chiedeva mai niente chiese di comprare il
tappeto. Non c’era bisogno di parole e poi era così piccolo che forse non
avrebbe trovato quelle giuste per spiegare, come quando risolveva le
proporzioni ai miei studenti di 5a superiore e quando questi gli chiedevano
“come hai fatto” lui rispondeva solo “è così, è facile, no?”
“Sì, signor Ahmad” (o Hamad, la “h” in arabo non ho ancora imparato a
pronunciarla e trent’anni fa non riuscivo neanche a sentirla) “allora il
bambino vuole proprio il tappeto con gli elefantini, però 90 mila lire mi pare
un po’ troppo”. E il signor Ahmad (o Hamad) mi disse “no, non voglio 90 mila
lire, quello è il prezzo per gli altri” e io “Va bene, grazie, allora facciamo
70?” Ma Ahmad mi disse no.
Alessandro mi guardava. Io dissi “mi dica lei il prezzo, lo prendiamo
comunque”. Ahmad non mi rispose ma
disse al bambino “di’ a tua mamma che voglio 30 e quando divento ricco ti
regalo uno più grande di questo”.
Allora cominciò la trattativa. “No signor Ahmad, facciamo 50, perché 30 è
troppo poco” e Alessandro rideva e accarezzava gli elefantini del suo tappeto.
Era la vendetta contro la razzista e al tempo stesso il regalo che desiderava.
Ma Ahmad aveva deciso che andava bene 30 e basta, e alla fine vinse lui.
Sono passati circa trent’anni da allora. Il
tappeto è stato nella stanza di Ale fino a che non ha lasciato la casa di Roma,
ormai 12 anni fa, poi è stato nella casa in campagna che ora è passata ad altri
proprietari e adesso è con me nella mia casa di Milano.
Ho chiesto a mio figlio se si ricordava del signore tunisino ma no, si
ricorda bene del tappeto ma del signore tunisino ha solo una vaghissima
reminiscenza. Però, quando gli ho raccontato tutta la storia e sono arrivata
all’episodio della razzista da strapazzo lui ha ghignato e ha detto “ti
immagino mentre la tua faccia virava in pitbull e la schiacciavi con quattro
frasi a scimitarra”.
Ah ah ah, lui dice sempre che sotto la pelle di gentile signora si nasconde il pitbull, ma non è del tutto vero, i figli esagerano sempre.
Ah ah ah, lui dice sempre che sotto la pelle di gentile signora si nasconde il pitbull, ma non è del tutto vero, i figli esagerano sempre.
***
Perché ho raccontato questa storia? Beh, prima di tutto perché amo raccontare e poi, ma solo poi, per dire che non si educano i bambini con le chiacchiere e le sciocchezze del tipo siamo tutti uguali. Che poi non è vero, non siamo tutti uguali, e neanche serve dirlo. L’unica forma di diversità alla quale non si può concedere asilo è quella dell’ignoranza razzista che spesso, anche se non sempre, fa rima con fascista.
Chissà dove sarà ora il signor Ahmad!
Dopo circa un anno dall’acquisto del tappeto non lo abbiamo più visto.
Forse è diventato “un po’ ricco – come diceva Alessandro quando non lo vedevamo più – ed è tornato nella sua terra a giocare con i suoi nipotini”. O forse il razzismo crescente lo avrà costretto ad andare altrove. Ma ormai avrebbe circa 90 anni e magari sarà sepolto da qualche parte.
Dopo circa un anno dall’acquisto del tappeto non lo abbiamo più visto.
Forse è diventato “un po’ ricco – come diceva Alessandro quando non lo vedevamo più – ed è tornato nella sua terra a giocare con i suoi nipotini”. O forse il razzismo crescente lo avrà costretto ad andare altrove. Ma ormai avrebbe circa 90 anni e magari sarà sepolto da qualche parte.
A me è rimasto il tappeto e il ricordo dell’uomo dolce che faceva il
“TAPPETARO” CON DIGNITA’ e manteneva l’animo gentile nonostante il disprezzo di
qualche esemplare di feccia umana.
A mio figlio, sentendo il racconto, è rimasta la convinzione che in sua madre alberga un pitbull, dormiente e silenzioso ma pronto a venir fuori di fronte alla minima manifestazione di razzismo o di qualunque infamia.
E va bene così.
A mio figlio, sentendo il racconto, è rimasta la convinzione che in sua madre alberga un pitbull, dormiente e silenzioso ma pronto a venir fuori di fronte alla minima manifestazione di razzismo o di qualunque infamia.
E va bene così.
C’era una volta un uomo… al quale proprio oggi mi
va di dire: grazie signor Ahmad, questo racconto è per te. Spero che tu stia
bene ovunque ti trovi!
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