mercoledì 11 dicembre 2019

Mosca si è fatta un lifting - Annamaria Testa (3)



Continua il racconto di un viaggio intorno al mondo che ho di recente fatto con mio figlio.

Per andare da San Pietroburgo a Mosca con il Sapsan (il treno ad alta velocità) ci vogliono circa quattro ore. Le carrozze sono confortevoli, pulite e silenziose.
Fuori dal finestrino scorrono sterminati boschi di betulle, specchi d’acqua e rari villaggi.
A Mosca ci concediamo la botta di vita di un albergo storico. È affacciato sul Cremlino, la cittadella fortificata medievale che è il cuore della capitale e racchiude chiese magnifiche e palazzi imponenti. Nella cittadella hanno sede anche le istituzioni governative (è il Cremlino di cui parlano, invece, i telegiornali).
L’albergo ha ospitato il primo governo dei soviet, nel 1918. Ci sono passati Lenin (stanza 107) e Trotzky, Prokofiev e Neruda. E ovviamente generazioni di agenti del Kgb, ai quali non si fa cenno nella nutrita galleria di ritratti di ospiti notevoli che si trova, in posizione un po’ defilata, al secondo piano.
Per entrare in camera bisogna tuttora superare tre diverse barriere: una porta con vetri opalini, una porta di legno, una tenda pesante. I mobili hanno vissuto tempi migliori. I lunghi corridoi di un incongruo color confetto piacerebbero a Stanley Kubrick.
L’albergo è pieno di cinesi. In realtà, tutta Mosca trabocca di cinesi: è il risultato delle facilitazioni commerciali e turistiche offerte da Putin alla Cina dopo il 2014, per contrastare gli effetti economici delle sanzioni europee e statunitensi conseguenti all’invasione della Crimea.
Dalla Cina, molti vengono a fare compere: sono giovani, ricchi, indipendenti e sanno viaggiare. Si muovono a coppie o a piccolissimi gruppi. Altri, più anziani arrivano guidati dalla nostalgia. È il turismo rosso, che va in pellegrinaggio alla ricerca dei luoghi della rivoluzione comunista, si mette pazientemente in fila davanti al mausoleo di Lenin e si spinge fino a Uljanovsk, dove il padre della rivoluzione d’ottobre è nato.
Altri cinesi arrivano perché si sono appena sposati, e una foto davanti a San Basilio, eleganti nell’abito da cerimonia, vale il viaggio. E poi, ovviamente, ci sono i tradizionali, indisciplinati grupponi che seguono guide dotate di bandierine, e fendono la folla con l’impatto di un drappello militare.
Sta di fatto che nel 2019 la Russia, preceduta da Francia, Germania, Italia e Spagna, è la quinta destinazione mondiale preferita dai cinesi. A Mosca e San Pietroburgo, il turismo cinese è cresciuto del 43 per cento nel 2019 rispetto al 2018. Nell’intera Russia si è più che decuplicato rispetto al 2010. Oggi la presenza dei gruppi è pervasiva, e da diverse parti parti si chiede di contingentarne l’accesso alle destinazioni più note.
Il centro storico di Mosca mi appare tutto riverniciato di fresco, a cominciare dai muri del Cremlino, di un color mattone fin troppo acceso. Se alzo lo sguardo, vedo contrapporsi il bagliore dorato delle cupole e delle croci della meravigliosa piazza delle cattedrali, e le punte acuminate delle gigantesche stelle di vetro rosso e acciaio che decorano le torri più alte.
Le stelle sulle torri del Cremlino sono un retaggio del periodo staliniano. Installate nel 1935 a sostituire le precedenti aquile imperiali, rifatte nel 1937 in una versione più luccicante, pesanti una tonnellata ciascuna, sono illuminate dall’interno e restano accese giorno e notte.
Penso che stelle rosse e croci d’oro sono un’appropriata sintesi storico-culturale, oltre che cromatica. Il problema nasce quando torno ad abbassare lo sguardo.
Mi accorgo che mio figlio se ne va attorno in modo del tutto privo di preconcetti, mentre io non posso fare a meno di confrontare quel che vedo con il mio pregresso immaginario moscovita, fatto di cronache recenti e storie più remote, romanzi, film.
Cerco discrepanze e corrispondenze e, devo ammetterlo, uno spirito del luogo che faccio fatica a intercettare e a riconoscere. Le vie pedonali del centro luccicano di negozi opulenti e decorazioni appese come se fosse Natale. C’è una gran folla che passeggia, chiacchiera, mangia e fa compere.
Certo, c’è la piazza Rossa, che peraltro troviamo ingombra per gli allestimenti di un festival di bande militari, sommamente apprezzato, sembra, dai moscoviti. E certo, laggiù in fondo si accendono le inconfondibili, bellissime cupole colorate di San Basilio, nei cui interni labirintici passerò un’ora di pura meraviglia.
Ma, se tengo il naso ad altezza vetrine, trovo una quantità di insegne già note e mi sembra di essere in corso Vittorio Emanuele a Milano, a parte il Duomo (o, nel caso, San Basilio) sullo sfondo.
Così mi rendo conto di quanto l’espansione globale delle grandi catene della moda e del lusso stia omologando non solo l’aspetto dei centri storici delle capitali del mondo, ma anche l’apparenza e l’atteggiamento dei loro abitanti.
Di fatto (questo me l’ha spiegato un’amica giornalista di moda) se fino agli anni ottanta ogni grande città era marcata anche da un suo peculiare, riconoscibile stile d’abbigliamento, e osservare i passanti per strada era parte dell’esperienza dell’essere altrove, è più così.
A Pechino, e poi a Shanghai, mi capiterà di rivedere lo stesso identico, costoso cappotto che ho visto in una vetrina di Mosca. Come se mi inseguisse attraverso i confini. Me ne sono liberata solo cambiando emisfero, e quindi stagione. Ma sono certa di ritrovarlo ancora, il cappotto onnipresente, al primo giro in centro, a Milano.
Mosca è oggi la terza città al mondo, dopo New York e Hong Kong, per numero di miliardari residenti. Penso al paradosso di avere tanti soldi e potersi comprare, dovunque si vada, soltanto i medesimi oggetti di lusso.
Anche sotto il luminoso tetto di vetro dei grandi magazzini Gum, affacciati sulla piazza Rossa, si apre una impressionante rassegna di marchi internazionali della moda. Ogni giorno, più di 60mila persone entrano per fare compere. L’unica fila che vedo è di fronte a una gelateria.
Gli scaffali semivuoti, la riservatissima sezione 200 ai piani superiori, dove a metà del secolo scorso i funzionari del Politburo riuscivano a procurarsi rare merci occidentali sembrano appartenere, più che a un altro periodo, a un altro mondo.
C’è una storia curiosa, a questo proposito: nel 1961, dopo il volo nello spazio, a Jurij Gagarin viene concesso un pass per un singolo ingresso nella sezione 200. Comprò un profumo francese e una collana per la moglie. Da allora, il privilegio fu esteso, sempre una tantum, a tutti i cosmonauti: una integrazione materiale all’onore di ricevere la medaglia di Eroe dell’Unione Sovietica.
Dei marchi che oggi vedo da Gum, molti sono italiani. Altri lo sembrano: il gruppo russo azionista di maggioranza dei magazzini si è scelto il nome Bosco dei ciliegi. Produce e vende gioielli con il marchio Sublime bosco, e abiti marcati Manifattura Bosco. Possiede anche ristoranti che propongono piatti italiani e hanno nomi italiani. Gli unici inconsapevoli del valore aggiunto che nel mondo è costituito dall’italianità, vera o verosimile che sia, sembrano essere proprio i miei connazionali.
E ancora: sui tredicimila ristoranti di Mosca censiti da Tripadvisor, 1.610 fanno cucina italiana. Se aggiungo le oltre seicento pizzerie, posso calcolare che più o meno in un locale su cinque si mangi italiano.
Nonostante l’ampiezza dell’offerta moscovita, noi continuiamo a stare lontani da pizza e spaghetti e, quando arriviamo in via Arbat, a pranzo ce ne andiamo da Muu-Muu, fast food russo che ha una mucca pezzata, a grandezza naturale, come insegna stradale: cibo accettabile e scontrino irrisorio.
Per me l’Arbat è un luogo del Maestro e Margherita, il primo romanzo russo che abbia mai letto. Una folgorazione: avevo quindici anni e conservo ancora l’edizione Einaudi, logorata dalle successive riletture. Oggi l’Arbat è una graziosa via molto frequentata e, anch’essa, abbastanza commerciale.
Così, a un certo punto, trascino mio figlio fino a un altro luogo del romanzo: gli Stagni del Patriarca. E lì ritrovo finalmente un po’ di magia: sarà perché è quasi il tramonto. O sarà perché questo perfetto rettangolo d’acqua, circondato da alberi frondosi, basso sotto il livello stradale, fa da perfetto specchio al cielo. O sarà per via della giovane coppia abbracciata che (clic clic) riesco a sorprendere. O sarà perché lei ha i capelli così rosa.
Camminando e camminando, ci imbattiamo in una quantità di lavori stradali di pavimentazione, e di case in corso di ristrutturazione. Tutto ciò fa parte di un costosissimo progetto di ridisegno del centro della città. Un lifting urbano deciso dal governo, e varato nel 2015, che ha coinvolto oltre 300 strade e dodicimila edifici.
Ci imbattiamo anche in un numero di spose, con fotografi al seguito, che sfida ogni probabilità statistica. In un bel po’ di poliziotti in mimetica grigioazzurra. E in una messa ortodossa (è domenica) nella chiesa di San Vladimiro. Bel coro di voci baritonali maschili. La chiesa è gremita, e tutti i fedeli se ne stanno in piedi perché il rito ortodosso non prevede che le persone si siedano (mai, le sedie proprio non ci sono) durante il rito, che dura non meno di due ore.
Fuori da San Vladimiro faccio una chiacchierata per diversi aspetti memorabile con una vivace signora, la quale apprezza molto il fatto che entrando in chiesa mi sia coperta i capelli (me li copro anche se entro in una moschea, e mi tolgo anche le scarpe, e faccio la stessa cosa se entro in un tempio buddista. Ma lei non può saperlo).
La signora è molto religiosa. Simpatizza per Putin – “un grand’uomo!”, dice – ma si dichiara monarchica, ed è certa che la Russia sarà in futuro governata da una nuova dinastia. Sostiene anche che i Romanov non sono stati ammazzati da russi bolscevichi (oibò, nessun russo per nessun motivo oserebbe mai ammazzare lo zar).
Poi mi confida che sdoganare la religione in Russia è stata l’unica cosa buona fatta da Gorbačëv. Per il resto, altro che perestrojka! Catastrojka, piuttosto. Infine, si lamenta per le sanzioni ed esorta la sottoscritta a lasciare l’Europa: voi facevate grandi affari con noi!, dice. Le assicuro che in Italia c’è già qualcuno che si sta dando fin troppo da fare in questo senso.
Mosca sotterranea
C’è un luogo in cui, a Mosca, passato e presente si incontrano. Ed è sottoterra.
La metropolitana cittadina, intitolata a Lenin, è stata inaugurata nel 1935 in epoca staliniana. È bellissima: secondo molti, la più bella del mondo. È stata soprannominata il Palazzo del popolo, per via dello sfarzo messo a disposizione di tutti. Ed è una capsula del tempo. Ma è anche l’infrastruttura che oggi fa muovere ogni giorno tra gli otto e i nove milioni di passeggeri.
Ha più di 200 stazioni, e il numero continua a crescere. Quarantaquattro stazioni sono considerate patrimonio culturale, e ce ne sono almeno venti che meritano proprio di essere viste: marmi, mosaici, statue, stucchi raccontano e promuovono i successi, la potenza e l’epica del regime con sontuosa spudoratezza.
Ci immergiamo. I treni si susseguono con impressionante rapidità: ce n’è uno ogni 90 secondi circa. Non basta scendere dal treno e guardarsi un po’ attorno: anche una risalita con le scale mobili fino all’ingresso può riservare molte sorprese. Guarda, guarda, continuo a dire a mio figlio, guarda.
Altri luoghi che rimandano al passato sfiorano invece l’artificio assoluto, e sono interessanti proprio (e, secondo me, solo, o soprattutto) per questo. Per esempio, c’è il gigantesco (oltre 200 ettari di estensione) complesso Vdnh, alla periferia della città. L’acronimo sta per Esposizione delle conquiste dell’economia nazionale. I moscoviti lo amano molto.
Il Vdnh comprende edifici costruiti in epoca staliniana per celebrare i successi dell’agricoltura di stato, e altri costruiti sotto Chruščëv per magnificare il primato russo nella corsa aerospaziale. Abbandonato nel corso degli anni ottanta, ora è stato completamente rimesso a nuovo.
Ci sono musei e padiglioni didattici, fontane, giardini, colonnati, spazi espositivi, un’infinità di statue dorate. Ogni cosa è su scala gigantesca. Ci sono anche un aereo, un missile, una pista di pattinaggio, un acquario, un teatro all’aperto.
La maggior parte degli edifici è autentica, ma tutto è così tirato a lucido da sembrare finto, e l’intento di attualizzare, rinnovandola, la meraviglia e la glorificazione del passato è talmente esplicito da rischiare il baratto tra autenticità e parodia. Ma c’è un esempio ancora più notevole.
Il parco di Kolomenskoe si trova a sud di Mosca. Ci si arriva facilmente in metropolitana. C’è una vista magnifica sul fiume Moscova, e c’è la bella (è patrimonio Unesco) chiesa dell’Ascensione, costruita ai primi del 1500 per celebrare la nascita di Ivan IV, che sarebbe poi diventato Ivan il Terribile. Il sito era residenza estiva dei Romanov.
Il luogo non è affollato e ci possiamo muovere con calma. Dunque, camminando fra meli e ciliegi, riusciamo ad arrivare fino al palazzo dello zar Aleksej Michajlovič Romanov, il padre di Pietro il Grande, dall’altro lato del parco.
È un complesso di edifici uniti da scale e passaggi, a formare un labirinto di 250 stanze: un capolavoro di carpenteria che sembra uscito da una fiaba. Lo costruiscono tra il 1667 e il 1668. I contemporanei ne parlano come dell’ottava meraviglia del mondo. Ma questa è solo metà della storia.
In seguito la capitale viene trasferita a San Pietroburgo e il palazzo rimane abbandonato, il legno si consuma e marcisce, e nel 1769 Caterina la Grande fa abbattere l’intero edificio. Del palazzo restano solo la memoria, alcune immagini d’epoca e un modellino in scala.
Bene: il palazzo è stato ricostruito interamente nel 2010, a grandezza naturale, a un chilometro di distanza dal sito originale, e profuma ancora di legno nuovo. Insomma, è una Disneyland zarista a Mosca. Ma per i visitatori tutto ciò non sembra fare alcuna differenza. Chi vuole, può anche farsi fotografare in costume d’epoca (evitiamo). Accanto al palazzo, c’è una struttura per i giochi dei bimbi, a forma di corona imperiale.
Così, torno a chiedermi quanto di questo recuperare, o addirittura ricostruire assai disinvoltamente il passato abbia obiettivi identitari. Quanto c’entrino la nostalgia, la voglia di far soldi moltiplicando le mete per i turisti, l’indifferenza al rischio del kitsch, la celebrazione e la propaganda, l’attitudine a ridisegnare la storia estraendone con le pinze solo i pezzetti più appetitosi, da imbandire per un pubblico di gusti semplici.
È una domanda che nei giorni successivi, in Cina, mi succederà di pormi nuovamente, e assai spesso.

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