La verità è
che poteva capitare anche a me. Mi ricordo una volta quando la mia piccola
aveva due anni e mezzo, una mano distratta rivolta verso la figlia più grande,
lei che attraversa la strada a razzo, io che urlo, indietreggia, si salva.
Poteva andare avanti ed essere stritolata in tangenziale. Eravamo al mare, in
vacanza.
Ricordo di
averlo sognato per giorni. Ricordo quella sensazione di paura. Ricordo di
essermi detta: devo stare più attenta.
La verità è che poteva capitare a me. Quante cose ha nella testa una
donna? Di chi
si deve occupare? Quanta cura buttiamo a disposizione del mondo? Cosa ci
chiedete a volte?
La verità è che poteva capitare a me e non ho vergogna a dirlo, bastava essere nella stanza
accanto, con la mente nelle ottocento cose da fare, guardare e occuparsi di
altri figli, essere stanche stanchissime, avere la pentola sul fuoco, dover
andare in bagno. È un attimo. Un secondo. Una distrazione dentro a una vita
dedita, e sei finita per sempre.
Giovedì a scuola c’era una cappa di dolore, come se camminassimo tutti a rallentatore,
insegnanti, genitori, personale ata, bambini. Ho visto madri piangere di altre madri, insieme ad altre madri. Pelle
confondersi come fosse una cosa sola. Ho visto abbracci e parole: “Non ne riesco a parlare” mi ha scritto una
mia mamma.
Ho visto genitori della scuola prodigarsi per quella madre che ha perso
sua figlia, in un
attimo avvocati, medici, pediatri sono corsi in aiuto mettendo a disposizione
cuore e competenze.
Le
insegnanti di quella bambina si sono catapultate intorno alla madre, insieme
alle loro alunne, in casa di altri della comunità del Bangladesh che hanno ospitato e si sono stretti
intorno a quella famiglia colpita così atrocemente. “Dentro a quella casa c’era il mondo”,
mi ha detto una mia collega. Il mondo appunto, siamo noi, tutti.
La sorellina più piccola è voluta tornare a scuola, a mezzogiorno era in classe, sulla
porta i suoi compagni l’hanno accolta con delicatezza, come i solo i bambini
sanno fare. Poi c’è stata una
scatola per contenere insieme quel dolore, perché del dolore si può parlare,
anche se è atroce (leggi anche In cerchio sotto il noce).
Un nostro
genitore medico ha fatto la notte alla madre, così distrutta da non riuscire a
stare in piedi.
Non so se ce la farà, non so come si possa
sopravvivere alla morte di un figlio, non so se riuscirà mai a
dirsi: poteva succedere a tutte o si darà la colpa per sempre.
Non so, quello che so è che
stamattina le sorelline verranno accompagnate a scuola dalle loro compagne che
le aspetteranno sotto casa.
So che esiste il dolore e, forse, è insuperabile ma se abbiamo un modo
per sconfiggerlo è quello di sentirci insieme, di fare rete, di essere comunità, di stringerci, di non colpevolizzare ma capire e
comprendere. Se abbiamo una possibilità è quella di creare relazioni di sostegno, di essere umani dentro a questa società che ci
vuole in competizione, gli uni contro gli altri. Quello che so è che esiste una scuola, un
territorio in questa Italia in cui la pelle non conta, in cui io sono te
e ti sento, ti vedo, ci sono. E in cui se una madre un giorno perde la sua
bambina altre madri la capiscono. Altri uomini e donne la sostengono.
Io non so se
il dolore sarà superabile ma questa è l’unica possibilità perché accada.
Sentirsi, vedersi, esserci. E vale ora e sempre.
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Cinzia Pennati (Penny) è insegnante, scrittrice e
madre di due ragazze adolescenti, tra le quali Ludovica, l’autrice del disegno.
Questo il suo blog sosdonne.com.
Nelle librerie il suo romanzo Il matrimonio
di mia sorella.
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