L’ho pensato tante volte, ma solo l’articolo di Roberto Del Piano sul
numero 39 di Vitamine mi ha
dato la spinta a condividere questo accostamento, forse azzardato, tra il caffè
sospeso e la maqluba. Sono
in pochi a sapere cosa significhi realmente “maqluba”. Anche
quelli che conoscono la cucina mediorientale, generalmente, traducendo alla
lettera ti dicono: “la rovesciata” perché a caratteristica presentazione di
questo cibo vuole che si capovolga la pentola su un piano, ottenendo una sorta
di sformato cilindrico composto di tanti ingredienti. Sì, certo, in senso
letterale è così. E allora che c’entra il caffè sospeso?
Beh, erano pochi anche quelli
che sapevano cosa fosse il caffè sospeso, ovviamente al di fuori della capitale
partenopea che ne era la culla. Poi, una decina di anni fa, ci
pensò Luciano De Crescenzo a farlo conoscere, usando la locuzione “caffè
sospeso” come titolo di un suo libro. Dopo di che il caffè sospeso, preso nel
suo aspetto di solidarietà umana, ha cominciato ad essere fonte di
ispirazione per piccole buone azioni ideate cambiandone il sostantivo e
mantenendone l’aggettivo.
Ma il caffè sospeso napoletano
è unico e non si limita ad essere la buona azione di un animo gentile che,
comunque, sarebbe già una bella cosa tanto che Roberto Del Piano propone di
portarne l’uso a Lodi, cittadina lombarda che, dice, «di umanità, amore,
compassione e comprensione ha davvero un grande bisogno». Vediamo,
allora, dov’è quest’origine comune
tra la maqluba e il caffè sospeso. Per scoprirla bisogna
andare un po’ a fondo, non sulle usanze in sé, ma sulla cultura umana piuttosto
simile che è dietro entrambe.
L’una, quella napoletana, per chi non conosce il
carattere partenopeo, è facilmente liquidabile come buona e caritatevole azione
verso chi non può permettersi un caffè e l’altra, per chi non conosce le origini culturali arabe, rinforzate da un
comandamento religioso musulmano, viene liquidata come ricetta gastronomica che
origina a sua volta da una prescrizione caritatevole.
In realtà, se le chiudiamo nel cerchio dell’elemosina, o della “zakat”
musulmana, abbiamo ridotto queste due usanze a qualcosa che, riportandoci a una
riflessione marxista, non sarebbe altro che la dimostrazione della disparità
sociale tra chi dà e chi riceve, umiliando il beneficiario il quale, di fatto,
è e resta in situazione di inferiorità. A rinforzare questo punto di vista ci
sarebbe quel proverbio africano che dice “la mano che dà è sempre sopra alla
mano che riceve”.
Di conseguenza, se riduciamo il caffè sospeso o la maqluba a elemosina nel
senso comunemente inteso, non possiamo che dar ragione a Marx e al proverbio
africano. Ma guardando bene al
carattere collettivo delle comunità da cui nascono queste usanze vedremo le
cose in altro modo.
Cominciamo col dire che le religioni lasciano tracce culturali anche nei non credenti, comunque cresciuti secondo i valori diffusi nella loro comunità e, quindi, pensiamo che i napoletani vengono da una cultura religiosa prevalentemente cristiana, quella in cui la terza virtù teologale è la carità e gli arabi da una cultura prevalentemente musulmana in cui il terzo pilastro dell’Islam è la zakat.
Cominciamo col dire che le religioni lasciano tracce culturali anche nei non credenti, comunque cresciuti secondo i valori diffusi nella loro comunità e, quindi, pensiamo che i napoletani vengono da una cultura religiosa prevalentemente cristiana, quella in cui la terza virtù teologale è la carità e gli arabi da una cultura prevalentemente musulmana in cui il terzo pilastro dell’Islam è la zakat.
Ma il termine “carità” non
significa sbrigativamente elemosina, bensì amore. Viene dal
latino caritas traducibile con “affetto” ed ha come aggettivo
“carus” cioè caro, amato. Nel Vangelo greco il termine è agàpè cioè
amore grande, disinteressato e fraterno. Quindi l’elemosina è solo la parte finale e concreta di questo amore per l’altro
e chi si ritrova nel giusto habitus non si pone il problema
della superiorità sociale essendo, la sua azione, solo una forma
immediata e disinteressata di amore cosmico.
Il termine zakat, a sua volta, pur
essendo un comandamento coranico, trova difficile traduzione in una semplice parola
quale, appunto, elemosina. Il concetto di zakat parte dal
principio che tutto appartiene a Dio compresi i beni derivanti dagli affari e
dal lavoro, pertanto, chi è ricco deve “purificare” la sua ricchezza offrendone una
parte, calcolata in percentuale del suo valore, a chi non ne ha. Ma questo è
solo il calcolo dell’elemosina rituale. In realtà la zakat non
si limita a una tassa imposta per obbedire a Dio, né soltanto a una forma di
solidarietà verso qualcuno, né solo a un’azione nell’interesse della comunità,
ma è un po’ di tutto questo e va oltre la somma dei singoli elementi
diventando un principio dell’etica musulmana così come la carità di cui parla
il Vangelo rientra nell’etica cristiana.
Ma parlando di etiche
musulmana e cristiana che si fanno substrato culturale, parliamo di un aspetto
antropologico che trascende la fede e le sue imposizioni. Infatti
sarebbe ben triste il caffè sospeso e altrettanto la maqluba se dovessero
seguire solo una prescrizione e invece, come spiega De Crescenzo, «quando un
napoletano è felice per qualche ragione, invece di pagare un solo caffè, quello
che berrebbe lui, ne paga due. È
come offrire un caffè al resto del mondo», un caffè offerto perché si è felici
e non per imposizione di qualsiasi natura. E così è per la preparazione
della maqluba, piatto della festa, piatto che si faceva
cucinando le varie pietanze in misura volutamente abbondante perché una
parte di ognuna andava a finire in una grande pentola che poi veniva rovesciata
su un tavolo di legno e messa fuori della porta in modo che chiunque potesse
servirsene e condividere il festeggiamento.
E ora volete sapere come si fa
la maqluba? Beh, trattandosi di un insieme composito di
ingredienti (sarebbe sbagliato considerarla cucina degli avanzi, proprio per
quanto scritto sopra) ogni
famiglia palestinese ha la sua ricetta con alcune varianti. Oggi
non si rovescia più su un tavolo fuori della porta perché il cibo, per fortuna,
sebbene in misura e qualità diversa, in Palestina ce l’hanno tutti. Ma resta il piatto del venerdì, cioè il piatto
del giorno di festa per i musulmani, perché si tratta di un piatto
che trae la sua origine dal terzo pilastro dell’Islam, un principio diventato
cultura, ma forse sarebbe meglio dire una filosofia, assolutamente musulmana,
diventata poi elemento culturale. E se ci si trova in Palestina di venerdì e si parla con qualcuno per la
strada, facilmente si viene invitati a condividere questo grande piatto
comunitario e in quel caso, credetemi, è difficile dire di no!
Ciò che non può mancare in una buona maqluba sono
le melanzane, il riso, la carne, le mandorle tostate e lo yoghurt, poi si
aggiungono le varianti. E non manca mai neanche un
momento di allegria, almeno un momento, quando viene rovesciata al
centro dei tavolo sotto gli occhi ansiosi dei commensali, grandi e piccini, che
in ogni famiglia palestinese sono sempre in numero consistente.
Così come non manca mai, nei bar napoletani in cui si usa il caffè sospeso, il sorriso di chi lo offre e quello di chi lo riceve. È l’applicazione napoletana di quella cultura del dare con allegria, non perché la mano che dà sia sopra la mano che riceve, ma perché è un abbraccio anonimo verso l’umanità. È tutto qui l’accostamento culturale tra caffè sospeso e maqluba, di fatto tra due comunità diverse che però hanno una cosa in comune, cioè hanno quell’offrire allegro e disinteressato di qualcosa che mentre la si porta alle labbra riesce a scaldare anche l’anima. E devo dire che a me non sembra un accostamento azzardato!
Così come non manca mai, nei bar napoletani in cui si usa il caffè sospeso, il sorriso di chi lo offre e quello di chi lo riceve. È l’applicazione napoletana di quella cultura del dare con allegria, non perché la mano che dà sia sopra la mano che riceve, ma perché è un abbraccio anonimo verso l’umanità. È tutto qui l’accostamento culturale tra caffè sospeso e maqluba, di fatto tra due comunità diverse che però hanno una cosa in comune, cioè hanno quell’offrire allegro e disinteressato di qualcosa che mentre la si porta alle labbra riesce a scaldare anche l’anima. E devo dire che a me non sembra un accostamento azzardato!
Articolo uscito su Vita-mine vaganti, la rivista ufficiale dell’associazione Toponomastica femminile.
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