lunedì 30 dicembre 2019

Abbracci, maqluba e caffè sospeso - Patrizia Cecconi


L’ho pensato tante volte, ma solo l’articolo di Roberto Del Piano sul numero 39 di Vitamine mi ha dato la spinta a condividere questo accostamento, forse azzardato, tra il caffè sospeso e la maqluba. Sono in pochi a sapere cosa significhi realmente “maqluba”. Anche quelli che conoscono la cucina mediorientale, generalmente, traducendo alla lettera ti dicono: “la rovesciata” perché a caratteristica presentazione di questo cibo vuole che si capovolga la pentola su un piano, ottenendo una sorta di sformato cilindrico composto di tanti ingredienti. Sì, certo, in senso letterale è così. E allora che c’entra il caffè sospeso?
Beh, erano pochi anche quelli che sapevano cosa fosse il caffè sospeso, ovviamente al di fuori della capitale partenopea che ne era la culla. Poi, una decina di anni fa, ci pensò  Luciano De Crescenzo a farlo conoscere, usando la locuzione “caffè sospeso” come titolo di un suo libro. Dopo di che il caffè sospeso, preso nel suo aspetto di solidarietà umana,  ha cominciato ad essere fonte di ispirazione per piccole buone azioni ideate cambiandone il sostantivo e mantenendone l’aggettivo.
Ma il caffè sospeso napoletano è unico e non si limita ad essere la buona azione di un animo gentile che, comunque, sarebbe già una bella cosa tanto che Roberto Del Piano propone di portarne l’uso a Lodi, cittadina lombarda che, dice, «di umanità, amore, compassione e comprensione ha davvero un grande bisogno». Vediamo, allora, dov’è quest’origine comune tra la maqluba e il caffè sospeso. Per scoprirla bisogna andare un po’ a fondo, non sulle usanze in sé, ma sulla cultura umana piuttosto simile che è dietro entrambe.
L’una, quella napoletana, per chi non conosce il carattere partenopeo, è facilmente liquidabile come buona e caritatevole azione verso chi non può permettersi un caffè e l’altra, per chi non conosce le origini culturali arabe, rinforzate da un comandamento religioso musulmano, viene liquidata come ricetta gastronomica che origina a sua volta da una prescrizione caritatevole.
In realtà, se le chiudiamo nel cerchio dell’elemosina, o della “zakat” musulmana, abbiamo ridotto queste due usanze a qualcosa che, riportandoci a una riflessione marxista, non sarebbe altro che la dimostrazione della disparità sociale tra chi dà e chi riceve, umiliando il beneficiario il quale, di fatto, è e resta in situazione di inferiorità. A rinforzare questo punto di vista ci sarebbe quel proverbio africano che dice “la mano che dà è sempre sopra alla mano che riceve”.
Di conseguenza, se riduciamo il caffè sospeso o la maqluba a elemosina nel senso comunemente inteso, non possiamo che dar ragione a Marx e al proverbio africano. Ma guardando bene al carattere collettivo delle comunità da cui nascono queste usanze vedremo le cose in altro modo.
Cominciamo col dire che le religioni lasciano tracce culturali anche nei non credenti, comunque cresciuti secondo i valori diffusi nella loro comunità e, quindi, pensiamo che i napoletani vengono da una cultura religiosa prevalentemente cristiana, quella in cui la terza virtù teologale è la carità e gli arabi da una cultura prevalentemente musulmana in cui il terzo pilastro dell’Islam è la zakat.
Ma il termine “carità” non significa sbrigativamente elemosina, bensì amore. Viene dal latino caritas traducibile con “affetto” ed ha come aggettivo “carus” cioè caro, amato. Nel Vangelo greco il termine è agàpè cioè amore grande, disinteressato e fraterno. Quindi l’elemosina è solo la parte finale e concreta di questo amore per l’altro e chi si ritrova nel giusto habitus non si pone il problema della superiorità sociale essendo, la sua azione,  solo una forma immediata e disinteressata di amore cosmico.

Il termine zakat, a sua volta, pur essendo un comandamento coranico, trova difficile traduzione in una semplice parola quale, appunto, elemosina. Il concetto di zakat parte dal principio che tutto appartiene a Dio compresi i beni derivanti dagli affari e dal lavoro, pertanto, chi è ricco deve “purificare” la sua ricchezza offrendone una parte, calcolata in percentuale del suo valore, a chi non ne ha. Ma questo è solo il calcolo dell’elemosina rituale. In realtà la zakat non si limita a una tassa imposta per obbedire a Dio, né soltanto a una forma di solidarietà verso qualcuno, né solo a un’azione nell’interesse della comunità, ma è un po’ di tutto questo e va oltre la somma dei singoli elementi  diventando un principio dell’etica musulmana così come la carità di cui parla il Vangelo rientra nell’etica cristiana.
Ma parlando di etiche musulmana e cristiana che si fanno substrato culturale, parliamo di un aspetto antropologico che trascende la fede e le sue imposizioni. Infatti sarebbe ben triste il caffè sospeso e altrettanto la maqluba se dovessero seguire solo una prescrizione e invece, come spiega De Crescenzo, «quando un napoletano è felice per qualche ragione, invece di pagare un solo caffè, quello che berrebbe lui, ne paga due. È come offrire un caffè al resto del mondo», un caffè offerto perché si è felici e non per imposizione di qualsiasi natura. E così è per la preparazione della maqluba, piatto della festa, piatto che si faceva cucinando le  varie pietanze in misura volutamente abbondante perché una parte di ognuna andava a finire in una grande pentola che poi veniva rovesciata su un tavolo di legno e messa fuori della porta in modo che chiunque potesse servirsene e condividere il festeggiamento.
E ora volete sapere come si fa la maqluba? Beh, trattandosi di un insieme composito di ingredienti (sarebbe sbagliato considerarla cucina degli avanzi, proprio per quanto scritto sopra) ogni famiglia palestinese ha la sua ricetta con alcune varianti. Oggi non si rovescia più su un tavolo fuori della porta perché il cibo, per fortuna, sebbene in misura e qualità diversa, in Palestina ce l’hanno tutti. Ma resta il piatto del venerdì, cioè il piatto del giorno di festa per i musulmani, perché si tratta di un piatto che trae la sua origine dal terzo pilastro dell’Islam, un principio diventato cultura, ma forse sarebbe meglio dire una filosofia, assolutamente musulmana, diventata poi elemento culturale. E se ci si trova in Palestina di venerdì e si parla con qualcuno per la strada, facilmente si viene invitati a condividere questo grande piatto comunitario e in quel caso, credetemi, è difficile dire di no!
Ciò che non può mancare in una buona maqluba sono le melanzane, il riso, la carne, le mandorle tostate e lo yoghurt, poi si aggiungono le varianti. E non manca mai neanche un momento di allegria, almeno un momento, quando viene rovesciata al centro dei tavolo sotto gli occhi ansiosi dei commensali, grandi e piccini, che in ogni famiglia palestinese sono sempre in numero consistente.
Così come non manca mai, nei bar napoletani in cui si usa il caffè sospeso, il sorriso di chi lo offre e quello di chi lo riceve. È l’applicazione napoletana di quella cultura del dare con allegria, non perché la mano che dà sia sopra la mano che riceve, ma perché è un abbraccio anonimo verso l’umanità. È tutto qui l’accostamento culturale tra caffè sospeso e maqluba, di fatto tra due comunità diverse che però hanno una cosa in comune, cioè hanno quell’offrire allegro e disinteressato di qualcosa che mentre la si porta alle labbra riesce a scaldare anche l’anima. E devo dire che a me non sembra un accostamento azzardato!

Articolo uscito su Vita-mine vaganti, la rivista ufficiale dell’associazione Toponomastica femminile.

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