“Dopo la società liquida, quella del rischio o la
eccitata, come nel prezioso lavoro di sintesi sulle dinamiche del nostro tempo,
servirebbe adesso un Gramsci del Duemila. Ovvero qualcuno che disegni
l’orizzonte dell’Antropocene”. A parlare è Pietrino Soddu, uno dei grandi
saggi della Sardegna, protagonista della politica isolana per oltre
cinquant’anni. Nemmeno stavolta l’ex presidente della Regione e parlamentare si
sottrae all’invito di una lettura profonda sul nuovo millennio. Compresa la
stagione amministrativa in corso.
Onorevole, sembra di essere sulle sabbie mobili. Con
emergenze note: denatalità, emigrazione, invecchiamento, dispersione scolastica
e razzismo.
Aggiungiamo la crisi dei partiti tradizionali, le
insufficienti risposte dello Stato sociale e la sempre più debole fiducia dei
cittadini nelle istituzioni. Il risultato è il diffondersi di una
stratificazione subculturale ispirata a modelli che sono di segno opposto
rispetto alle idee, ai principi e ai valori su cui è stata costruita la
Costituzione. Tutto questo fa sì che ci troviamo immersi nella paura,
disorientati e confusi. Oggi a mancare è un senso comune su cui costruire
speranze e aspettative. Sogni e qualche certezza. La siepe di Leopardi, oltre
la quale il poeta di Recanati immaginava un’immensità sconosciuta, ha lasciato
il posto alla paura. Il dolce naufragare è diventato un lusso. E non certo
un’opzione per i disoccupati, i giovani costretti a lavori di ripiego o le
famiglie sulla soglia di povertà”.
Chi paga il prezzo più alto?
Gli anziani. A Sassari, con le sardine, sono scesi in
piazza anche i pensionati. Quasi in difesa di uno status quo che, in realtà, non esiste già più. Il
Paese in cui i bambini degli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta sono diventati
adulti è andato erodendosi, senza soluzione di continuità. Il popolo italiano,
in pochi anni, ha perduto la fiducia nella vecchia rappresentanza dando origine
a un processo caotico che sì, è cominciato qualche decennio fa, ma sta
arrivando rapidamente a una conclusione inaspettata. Sta arrivando alla nascita
di un “nuovo ordine”, originato, secondo il linguaggio della scienza del caos,
dall’azione di un “attrattore strano”, sino a qualche tempo fa assolutamente
imprevedibile. Parlo del neonazionalismo fondato su un leader autoritario e
populista. A prendere forma è un orientamento reazionario che sta sotituendo il
precedente, democratico-progressista.
Cosa servirebbe adesso?
Un Gramsci del Duemila, appunto. Un intellettuale
capace di trasferire in politica la ricerca di un nuovo senso comune. Un
Gramsci che possa rimettere in equilibrio capitale e lavoro, col primo che ha
finito per prevalere sul secondo, a causa di incontrollate, o forse
incontrollabili, trasformazioni economiche. Sino a pochi anni fa, nel
cosiddetto mondo occidentale la rotta era segnata dallo Stato sociale e dalla
democrazia rappresentativa, dove il consenso se lo spartivano tradizione
liberaldemocratica, socialdemocratica o federalista. Oggi non si parla più di
impegno, coraggio e generosità. Oggi assistiamo allo sbandamento delle
classi popolari, che infatti hanno preso a votare la destra conservatrice, come
avvenuto in Inghilterra con la Brexit. E per contro
la borghesia ha come punto di riferimento i partiti progressisti, che infatti
hanno dimenticato operai e contadini. L’attrattore strano, di cui si diceva
prima e che spinge la gente comune verso l’abbraccio coi nuovi nazionalismi, fa
leva proprio sull’assenza di quelle strutture concettuali attraverso le quali
si gestisce la paura e si dà una prospettiva futura.
In Sardegna vede dinamiche diverse?
Assolutamente no. Come nel resto del mondo
occidentale, anche da noi il futuro è percepito come peggiore del presente.
Anche in Sardegna la crisi è generale e investe i diritti, i doveri e le
relazioni esistenti nella società. Oggi si chiede che uno Stato assicuri non
solo cibo, casa, istruzione e sanità. Oggi il paniere delle rivendicazioni è
allargato agli spettacoli, alle vacanze e allo sport. Ma poi quello che
diffusamente si registra è un vuoto di motivazione, in cui il non pagare le
tasse, per esempio, è diventato un vanto. La liberazione dai tributi si è
convertita nella nuova giustizia sociale, come se lo Stato stesso non
avesse un costo. Non c’è programma politico che non contempli una zona franca o
quella economica speciale.
Il Gramsci del Duemila avrebbe una proposta politica
diversa?
Di sicuro non trascurerebbe il fatto che questa
distrazione sta diventando fatale, perché foriera di rabbia, rancore e
infelicità. Ma questo vogliono i nuovi nazionalismi. Che spingono i cittadini a
rinchiudersi, a cercare gli untori, come ai tempi del Manzoni. Untori che i
leader populisti, per consacrare il consenso, hanno trovato negli immigrati,
nei politici che prendono il vitalizio o nei partiti tradizionali, per citare
le strategie più gettonate. Né un Gramsci del Duemila e nemmeno i padri
costituzionali della Dc, così come l’intera e illuminata classe dirigente di
quei tempi alla quale concorrevano comunisti e socialisti, liberali e
repubblicani, avrebbero mai affrontato i problemi per singole parti o per
interessi personali. Come spesso succede, perché questo approccio è dannoso e
riduttivo e non consente di cogliere la portata e la drammaticità della crisi
in cui il mondo occidentale è precipitato. Oggi vanno di moda tesi che mettono
in dubbio persino la sovranità popolare, l’eguaglianza, le pari opportunità, la
libertà, la solidarietà e la dignità della persona umana. Il Gramsci del
Duemila e la Costituente tutta prenderebbero in considerazione idealità, sogni,
aspirazioni e ambizioni. Le chance di successo individuale e collettivo.
Trova che l’attuale centrodestra al governo della
Regione sia capace decodificare questa complessità sociale?
In Sardegna i partiti hanno cominciato ad andare in
crisi agli inizi degli anni Novanta, quando la triade “democrazia, autonomia,
rinascita”, che ha dominato la politica isolana dalla nascita della Repubblica,
ha cominciato a manifestare la propria inefficacia. Almeno rispetto agli
obiettivi di progresso, sviluppo, emancipazione e benessere che ci si era
prefissati. Il fenomeno ha avuto inizio con le prime delusioni nate
dall’insuccesso, sia pure parziale, del Piano di rinascita, che non aveva
risposto alle grandi attese e alle grandi speranze di un’opinione pubblica
impaziente e influenzata dall’opposizione di un gruppo di intellettuali ostili
a un modello di crescita considerato un’imposizione dall’esterno. E quindi, a
loro dire, destinato inevitabilmente a fallire. Queste posizioni ci sono
ancora: è la difesa dei miti de su connottu,
riproposti ogni volta in nuove forme. Non si tratta di respingere la certezza
dell’autosufficienza, semmai andrebbe riutilizzata nelle parti più vitali.
Le Regionali del 2019, oltre a consegnare la Sardegna
al centrodestra in maniera netta, hanno anche spazzato via dal campo politico
gli indipendentisti. Alla lunga se ne sentirà la mancanza?
Il sardismo diffuso, come era ai tempi di Mario Melis
e Michele Colombu, aveva davvero contribuito alla nascita prima e alla
diffusione poi di una coscienza identitaria collettiva. Non verticistica, non
settoriale, non classista. Ma popolare nel senso stretto del termine. Quello
spirito però ha finito per scontrarsi con la nazione resiliente quale noi sardi
siamo. Ovvero una nazione che si adatta alle condizioni e poi magari torna allo
stato precedente, quello considerato ideale. Ma non osa, non rischia, non si
espone. Nel dibattito politico sardo manca quella una tensione riformista di
cui gli indipendentisti si erano fatti portatori.
Lei, di recente, ha bacchettato un certo
indipendentismo di sinistra e disfattista-
Ho parlato invero di quell’esperienza culturale che
vive nella convinzione di uno sviluppo senza industrie, come se l’economia si
potesse reggere sui fasti del passato più antico. In realtà anche i nuragici,
coi loro bronzetti e le strutture di pietra anche complesse, hanno dato prova
di avere una forma di organizzazione sociale paragonabile a quella industriale
del nostro tempo. Per diventare un grande popolo non bisogna essere
necessariamente solo cacciatori e raccoglitori. In Sardegna andrebbero superate
tutte le visioni, le programmazioni e le governance che contrastano con l’idea
dell’unica polis e frantumano l’identità della ‘Nazione sarda’ in tante
identità locali, che indubbiamente ci sono ma non possono essere in contrasto
con quella regionale.
La ‘Nazione sarda’ ha ancora un senso?
Non solo ha un senso, ma può diventare protagonista
della politica italiana ed europea come altri nazioni. Ma serve appunto
ragionare e operare come un’unica polis, lasciandosi alle spalle la politica
frammentata e di corto respiro localistico; bisogna tagliare il cordone
ombelicale con quel regionalismo chiuso, impregnato di sovranismo illusorio.
Serve una visione più ampia e globale, in cui la Sardegna non va pensata e
vissuta come periferia emarginata e bisognosa di assistenzialismo. Per questo
considero debole, ancorché intenzionalmente positiva, l’iniziativa che promuove
l’inserimento del principio di insularità in Costituzione. Ha poco senso
guardare alla Carta, se si ignora che il mercato è dominato da un numero sempre
più ristretto di soggetti, non controllabili dalla Regione e neppure dallo
Stato. Ha poco senso guardare alla Carta, se si ignorano i problemi derivanti
dai nostri errori, della nostra inefficienza, della nostra incapacità di stare
al passo con i tempi. L’insularità non è la causa di tutti i mali, e neppure
una panacea. Ma di sicuro diventa impossibile risalire la china se la nostra
democrazia parlamentare rappresentativa si trasforma in sistema autoritario,
perché così perde di vista la Costituzione stessa. L’opinione pubblica, non
è un caso, è dominata dallo slogan del “prima la Sardegna, prima i sardi, prima
i cagliaritani, prima i piccoli paesi e, prima di tutti, io”.
Con alcuni di questi refrain il presidente della
Regione, Christian Solinas, ha vinto le elezioni dello scorso febbraio.
Da governatore fa l’unitarista. Non crea strappi. Si
spinge dove nessun capo della Giunta aveva fatto prima. Poco tempo fa è stato
accolto con tutti gli onori dalla Conferenza episcopale sarda. Il presidente
Solinas è bravo a intessere relazioni. Ma è evidente che non bastano.
Tuttavia è presto per esprimere giudizi complessivi. Quel che si intravede ora
è una raccolta di quanto seminato dalla Giunta precedente e agevolato dalla
correttezza politica del Governo nazionale che si sta dimostrando aperto e collaborativo.
Sembra mancare invece del tutto un’idea di Sardegna e di visione futura, per
costruire una nuova autonomia in senso federalista e un nuovo patto
costituzionale. Questo si può fare solo con iniziative che mettano insieme non
solo la politica, ma la società intera.
Intravede una speranza?
Sì, certamente. Per alimentare la nuova questione
sarda, se così la vogliamo chiamare, la prima cosa da fare è riprendere appunto
l’iniziativa politica per coinvolgere partiti, movimenti e la società civile tutta.
Cominciando dalle donne e dai giovani: perché le prime hanno voglia di
impegnarsi sino in fondo, con la loro spinta emancipatrice e l’affermazione
della parita; i secondi hanno un orizzonte più ampio, aperto e libero da
vincoli e da interessi consolidati. Ma prima ancora va cambiato il senso comune
antipolitico cresciuto in questi anni. Per farlo, bisogna riprendere a
dialogare e a confrontarsi. Senza pregiudiziali né rigidità ideologiche di
parte. È necessario rimettere al centro l’interesse generale, la giustizia
sociale, l’eguaglianza e su tutto ciò che rientra nella categoria dei diritti
fondamentali e nella dignità della persona umana. Per migliorare la vita
individuale e quella dei popoli non bastano le conquiste della scienza, i
progressi della tecnica e dei sistemi produttivi: serve che le istituzioni
migliorino non solo le condizioni materiali dei territori, cioè le abitazioni,
le strutture e gli strumenti destinati alla produzione e ai servizi; diventa
prioritario trasformare città e paesi in soggetti politico-culturali, in
comunità intenzionali, avrei detto una volta. Il che significa riconoscersi
come cittadini che si sentono responsabili del proprio destino e accettano di
identificarsi in collettività più ampie.
Crede davvero che l’ascia del campanilismo,
dissotterrata in ogni confronto che conta, verrebbe abbandonata da sindaci e
consiglieri regionali?
La diversità a livello regionale può rafforzare
un’identità; su un piano nazionale può essere vissuta come un diritto; in un
contesto internazionale può diventare il confine etico per arginare chi propone
di seguire le tendenze di un mercato senza limiti, al di fuori dei profitti e
dei consumi.
Nessun commento:
Posta un commento