«Ne ho abbastanza: mi ascolti, o sai
solo rispondere alle notifiche di WhatsApp?!». Laura era davvero
furiosa. Giacomo non era più lo stesso da quando era entrato nei maledetti
gruppi WhatsApp di lavoro. Qualche mese prima l’avrebbe definito il
classico tecno-scettico. Poco interessato all’ultimo ritrovato tecnologico,
niente iPhone né Android, si ostinava a rimanere sul vecchio Blackberry. Un
affare con una tastiera impossibile da usare che era l’orgoglio della compagnia
presso la quale era stato consulente anni prima.
Poi, improvvisamente, tutto era
cambiato. Nel nuovo studio avevano distribuito smartphone aziendali, doppia
fotocamera, robusti ma potenti, presentati a Las Vegas all’inizio dell’anno.
Già settati con vari social, per postare al volo le ultime novità, e
soprattutto con WhatsApp! Era un continuo fischiettar di notifiche. A
tutte le ore. A tavola. In auto. Persino a letto! E lui, pronti, sull’attenti a
rispondere!
Giacomo si difendeva. Certo, era
esagerato, era ormai un flusso ininterrotto, doveva diminuire. Ma lei
doveva rendersi conto che aveva silenziato già diversi sotto-gruppi, visto
che erano proliferati fino ad almeno uno per ogni cliente. Alcuni
grossi clienti meritavano due o tre sottogruppi. Li silenziava anche per
limitare la comunque notevole ridondanza di informazioni, certo, ma come altro
si poteva fare? «Dov’è il fascicolo del signor M?» «l’ho preso io, te lo
riporto domani» «no, ca*** mi serve adesso, almeno la parte finale, con le
foto!!!» «ok ti faccio due scatti e te le mando in allegato», «sì ma no selfie
come tuo solito! A casa tutto bene ;)?» e così via, un continuo di
discussioni che mescolavano privato e professionale.
Laura insisteva: fuori dall’orario
di lavoro, doveva spegnere quell’aggeggio infernale. Lui nicchiava, e anzi, a
volte contrattaccava. E i suoi, di gruppi WhatsApp? Certo, non di lavoro, per
carità. Quello delle amiche di sempre. Quello di pilates. Quello delle ultime
vacanze. Quello dei cugini simpatici. Quello di famiglia (antipatici).
Ma c’erano anche quelli di lavoro, e
non a bassa intensità. Quello delle équipe per le riunioni. Senza contare due
gruppi per ogni progetto di teatro che seguiva, con le formazioni nelle scuole:
uno per i ragazzi, uno per i genitori dei ragazzi. «E meno male che non
abbiamo figli, sennò chissà quanti altri gruppi sarebbero!», si lasciò sfuggire
Giacomo. «Perché, non vuoi avere dei bambini?», domanda retorica di Laura.
«Dai, non volevo dire questo. Ma pensa a tutti i nostri amici che impazziscono
con le folli comunicazioni dei genitori dei loro figli!».
La situazione sembrava senza via
d’uscita. In effetti
Giacomo si rendeva conto che oltre cinquecento notifiche al giorno solo su
WhatsApp, una al minuto in media per tutte le ore di veglia, lo distraevano
pesantemente dal suo vero lavoro. Altro che «aumentare la produttività
attraverso un dialogo costante», come ripeteva la responsabile delle Risorse
Umane!
In origine, si era deciso di
spostare le comunicazioni «rapide» su quel canale, un aiuto per organizzare
meglio le attività con i colleghi. E invece aumentavano solo il rumore di
fondo, sovrapponendosi alle notifiche delle mail e dei social quando era in
ufficio. A volte i messaggi importanti passavano su un canale, a volte su un
altro e diventava sempre più difficile scovarli in mezzo a quel caos. E poi
spesso si perdeva dei pezzi, venti o trenta messaggi più su. Si sorprendeva in
bagno intento a recuperare il tempo perduto. Aveva rischiato più volte
di fare il botto in auto per aver gettato un occhio di troppo al malefico
schermo.
Più che altro, lo infastidiva la
sensazione di subire richieste pressanti per aumentare la propria performance. Subito. Ti
arriva la notifica. La leggi. Ma non rispondi. L’altro però sa che hai letto, e
non di rado chiede: perché non rispondi? Che ansia! Aveva tolto la possibilità
di mostrare l’avvenuta lettura del messaggio, ma così nemmeno lui poteva vedere
se gli altri avevano letto i suoi, e la cosa gli scocciava parecchio! E poi
questa novità del flusso di messaggi che appariva sulla Timeline di Facebook lo
faceva rabbrividire. Del resto, Facebook si era comprata WhatsApp da un pezzo,
l’integrazione era solo questione di tempo.
«Allora, come facciamo?», tornò alla
carica Laura.
In un breve arco di tempo, WhatsApp
Messenger era diventata la più usata app di messaggistica per gli utenti di
smartphone per inviare messaggi di testo, immagini, video, posizione utente e
altro, con oltre
un miliardo di utenti attivi al giorno. Nel 2016 era ritornata a essere
gratuita, mentre prima aveva un costo di 99 centesimi all’anno. Per quanto
modesta la cifra, secondo il co-fondatore di WhatsApp Jan Koum, rischiava di
diventare un ostacolo all’espansione ulteriore del servizio. La domanda, a
questo punto, era cosa avesse in mente Mark Zuckerberg, che di WhatsApp era il
proprietario.
Infatti Facebook, il social di
Zuckerberg, aveva acquistato l’app nel febbraio del 2014 ma da allora aveva
sempre preferito tenerla separata dai servizi collegati al social network.
Invece di integrarla in Facebook, ne aveva scorporato la chat creando un’app a
sé stante, Messenger. Quale sarebbe stato allora il ruolo di WhatsApp? In un
mondo interessato ai profitti, avrebbe dovuto trovare il modo di reggersi
sulle sue gambe.
Una possibilità era quella di
replicare il modello di business di Facebook, ovvero vendere i dati degli
utenti per generare profitti. Magari suddivisi per cluster,
raggruppamenti significativi, adeguatamente pseudonimizzati. Resi cioè
difficilmente ricollegabili a persone in carne e ossa. Non era affatto chiaro
cosa sarebbe successo, ma se la promessa di non inserire pubblicità sarebbe
stata mantenuta, di certo si sarebbe escogitato un altro sistema per
monetizzare. Il fatto che sempre più aziende la utilizzassero per far circolare
le informazioni al loro interno non era un elemento da sottovalutare.
Al di là della gratuità, la ragione
fondamentale del suo successo era dovuta al fatto che tendeva ad annullare i
tempi di interazione.
L’impressione era di essere costantemente collegati, all’interno di un
flusso. La messaggistica è per sua natura una forma di
comunicazione asincrona: invio un messaggio, passa del tempo,
ricevo una risposta. WhatsApp tendeva a farla diventare sincrona,
come fosse una telefonata, in cui gli interlocutori possono parlarsi
contemporaneamente. La seconda ragione era legata al suo essere multicast,
da molti a molti, cioè a consentire la creazione di gruppi. Anche questa
caratteristica aumentava la sensazione di coinvolgimento.
Ovviamente questo valeva anche per
Telegram, Signal e qualsiasi altra app di messaggistica istantanea. Con la
differenza determinante della taglia, cioè della scala di diffusione straordinaria;
e della proprietà, ovvero la Facebook Inc., che lasciava presagire
un’integrazione dei tre social principali, l’agile WhatsApp, il capofila
Facebook e lo sbarazzino Instagram.
Ciò che infastidiva maggiormente
Laura era l’impressione di non essere ascoltata. Le continue interruzioni, dovute
principalmente alle notifiche, portavano Giacomo «altrove». L’accorgimento
principale era quindi quello di inserire dei limiti al flusso di interazione.
Si poteva facilmente disattivare la
funzionalità della conferma della lettura su WhatsApp. Quando si inviava un messaggio era
possibile controllarne lo stato attraverso alcune piccole icone mostrate
accanto al messaggio stesso. L’orologio indicava che il messaggio ancora non
era stato inviato, una spunta indicava che era stato inviato ma non ricevuto,
la doppia spunta indicava che era stato ricevuto e la doppia spunta blu ci
confermava che era stato anche letto.
Queste conferme generavano un flusso
di notifiche continuo. Quindi:
§ andare su Impostazioni
WhatsApp > Account > Privacy > Conferme
di Lettura
§ disabilitare le conferme di lettura,
se non volete far vedere le conferme di lettura ad altre persone. ATTENZIONE!
In questo modo, nemmeno voi potrete vedere se i vostri messaggi sono stati
letti oppure no.
Per accedere al menu di
personalizzazione delle notifiche:
§ andare su Impostazioni
WhatsApp > Notifiche
Per disattivare le notifiche che
riguardavano solamente alcuni gruppi era necessario effettuare un’altra
procedura. Bisognava fare click sul nome del gruppo ed entrare all’interno
delle informazioni del gruppo. Il pulsante «silenzioso» offriva tre opzioni tra
cui scegliere: silenziare per 8 ore, 1 settimana o 1 anno.
Le notifiche potevano essere
personalizzate contatto per contatto. Bastava cliccare sul nome del contatto
prescelto e scegliere «notifiche personalizzate».
I trucchi erano moltissimi: si poteva far funzionare WhatsApp
anche senza SIM e senza numero di telefono, dal computer o dal tablet. Si
potevano naturalmente bloccare i contatti indesiderati: potevano continuare a
inviarci messaggi, ma noi non li vedevamo più. Si potevano proteggere i
messaggi ricevuti con un codice PIN. Questi e molti altri trucchi si potevano
trovare in rete.
Un avvertimento di metodo. Anche
in questo caso, quasi sempre esistevano delle contromisure per ogni «trucco».
Ad esempio, era possibile ricevere la conferma lettura anche se era stata
disattivata dalla persona a cui inviamo il messaggio. Bastava creare un gruppo
composto di soli due contatti: noi e la persona che aveva disattivato le
conferme lettura. Nei gruppi non si potevano disattivare: in questo modo la
disattivazione era stata disattivata. E poi le funzionalità cambiavano in
continuazione, per cui ogni le soluzioni erano sempre temporanee e situate.
Pensare da hacker significa pensare
a un’altra strada, a un altro modo di fare, a una procedura differente: è un
esercizio mentale prima ancora che pratico.
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