I ticket sanitari sono arrivati insieme ai partenariati pubblico-privati
come diktat della Banca mondiale. Oggi la finanziarizzazione della salute pubblica
ha fatto balzi ulteriori attraverso fondi e assicurazioni. Fino a alle
speculazioni sulle epidemie come Ebola.
La salute, un progetto bancabile?
La buona
notizia è stata annunciata una settimana fa. Il parere scientifico positivo
di European Medicines Agency (Ema), l’agenzia europea
del farmaco, ha permesso alla Commissione europea di approvare ufficialmente
l’immissione in commercio condizionata per Ervebo, il primo vaccino contro il
virus Ebola. I dati provenienti di studi clinici e dai programmi di uso
compassionevole – che hanno coinvolto 16.000 soggetti – hanno dimostrato che
Ervebo protegge contro la malattia da virus Ebola dopo una singola dose. Il
vaccino Ervebo è frutto di una torsione della storia: progettato per la prima
volta dalla Public Health Agency in Canada
più di un decennio fa, è stato ripreso con voga e sviluppato sotto la pressione
della dirompente epidemia di Ebola in Africa occidentale tra il 2014 e il 2016
dalla Merck, in collaborazione con istituti e ricercatori in Europa, Canada,
Africa e Stati Uniti.
La rapida
diffusione del virus in Africa, che ha ucciso oltre 11.000 persone, aveva
manifestato senza equivoci la fragilità strutturale dei sistemi sanitari
africani, e della stessa governance globale
della salute, nella gestione di epidemie violente come Ebola, approdata per la
prima volta anche nel mondo occidentale. Il focolaio epidemico non si è spento.
Continua a infestare la Repubblica democratica del Congo (RDC), dove in
quindici mesi ha infettato oltre 3.000 persone e causato 1.800 morti, con un
tasso di moralità del 67%; la gestione dell’epidemia è ulteriormente complicata
dal perdurare di una guerra a bassa ma estenuante intensità nell’est del Paese.
A luglio 2019 l’Oms era tornata a lanciare l’allarme dichiarando Ebola un’emergenza
di salute pubblica globale. Proprio in RDC il vaccino Ervebo è stato testato
come parte di un protocollo specifico contro Ebola Zaire (la specie di virus
diffusasi in Africa negli ultimi anni) per tutelare le persone particolarmente
a rischio di infezione, operatori sanitari e familiari coinvolti nella cura dei
pazienti. Ervebo è stato immediatamente pre-qualificato dall’Oms, e l’agenzia
ha iniziato a promuoverne l’uso nei Paesi interessati.
Tirano un
sospiro di sollievo medici e volontari impegnati sul campo. Si animano gli
investitori dei fondi che hanno scommesso sulla capacità dell’Oms e delle
autorità nazionali di fermare la temibile corsa del virus. Sì, anche gli
investitori. Sulla scia della crisi epidemica 2014-2016, la comunità sanitaria
globale si è inerpicata alla ricerca di nuove iniziative capaci di accrescere
la “sicurezza in salute” (health security). La
Banca Mondiale ha creato nel 2016 (e lanciato operativamente nel luglio 2017)
il Pandemic Emergency Financing Facility (PEF), un dispositivo
assicurativo con il compito di mobilitare immediatamente risorse private per
rispondere ai focolai delle malattie infettive
nei Paesi poveri e colmare così il frequente gap temporale e
finanziario tra lo scoppio di un’infezione e l’intervento dei governi donatori
per fronteggiarla. Un vuoto che ha effetti moltiplicatori sul rischio di vita
delle persone e sui danni alla debole economia dei Paesi colpiti.
Come
funziona PEF? L’investitore privato acquista dei bond triennali (la prima
tranche è 2018-2020). L’investimento si perde – ammesso che possa
definirsi perdita il bene comune del
controllo di una malattia – se i fondi vengono concretamente utilizzati per
prevenire o domare l’epidemia. Ma se nulla di tutto questo accade, allora
l’investitore riceve un premio che si aggira intorno al 13% – a metà anno, PEF
aveva esborsato 114,5 milioni di dollari, sebbene non abbia mai esplicitamente
dichiarato il tasso di interesse. PEF è stato supportato da 190 milioni di
dollari donati da tre Paesi – Australia, Germani e Giappone – e da International Development Association (IDA), un
fondo di Banca Mondiale che ogni anno mette a disposizione circa 20 miliardi di
dollari per i 75 Paesi più poveri.
L’azione
tempestiva contro le epidemie è fondamentale, ma l’ideazione di fondi per
attrarre gli investitori rischia di produrre, come in questo caso,
un’architettura che riduce al minimo la probabilità di pagamento. La scommessa
finanziaria di PEF poggia sulla probabilità di morte per centinaia di persone.
Servono precise soglie epidemiologiche per far attivare il fondo a vantaggio
dei Paesi poveri. Nel caso di Ebola, PEF può rilasciare 45 milioni di dollari a
fronte di dati in grado di confermare almeno 250 decessi, e solo se il virus si
è diffuso anche in un altro Paese, con la morte accertata di almeno 20 persone. In un Paese vasto e popoloso come la RDC, i
criteri non sono scattati, e di certo non scatteranno – le epidemie peraltro,
dimostra l’Oms, sono quasi sempre circoscritte a un solo Paese. Dunque? Al
netto del valore etico di queste operazioni, e di un capitalismo estrattivo che
non si ferma davanti a niente e nessuno, a che serve PEF?
Dunque,
denuncia la London School of Economics (LSE)
in un recente rapporto, PEF serve agli interessi privati ben più che alla
sicurezza sanitaria. Non ha sganciato un singolo dollaro agli africani finora.
Quando è stato necessario, sono intervenute erogazioni da altri fondi di
emergenza delle Nazioni Unite e dell’Oms. Contro il virus dell’Ebola in RDC la
Banca Mondiale ha versato 300 milioni di dollari, indipendentemente da PEF, lo
scorso luglio. Dunque – ha scritto senza mezzi termini Olga Jonas, già economista presso la Banca Mondiale – sarebbe bene che la comunità internazionale
riconoscesse il totale fallimento di PEF e lo chiudesse subito, evitando in
futuro la stupidità di inseguire ricette innovative, solo per il gusto di
dimostrare inventività di finanza creativa.
Come abbiamo
evidenziato nel capitolo salute del rapporto Spotlight on Financial Justice lanciato
a New York lo scorso settembre, lo stimolo a coinvolgere i capitali privati nel
campo della sanità non è certo una novità. Ha un antecedente storico. Mi
riferisco al rapporto della Banca Mondiale Investing in Health del
1993 , testo di non ritorno per spalancare la strada
alle riforme sanitarie che hanno conferito sempre maggiore rilevanza al mercato
e alla generazione di reddito nell’ambito sanitario. Quando il rapporto uscì,
la fornitura di servizi privati per la salute era limitata quasi esclusivamente
ai soli Paesi occidentali.
La
perentoria riforma indotta dalla Banca Mondiale prese il via con una moratoria
all’espansione del settore pubblico, l’introduzione di controversi ticket
sanitari (users’ fees) e l’affidamento esterno di diversi servizi
ospedalieri. Bastò meno di un decennio per inondare i sistemi sanitari
nazionali della vivace presenza della finanza privata. La stessa tracimazione
si è vista nella governance della salute
tradizionalmente intesa, riconducibile fino a quel momento alla funzione
pubblica degli stati: questa funzione ha subito un profondo ridimensionamento
grazie alla seduttiva ricetta dei partenariati pubblico-privati. Questi
introducono il passaggio da una catena di responsabilità formali, dentro
assetti istituzionali, a una pluralità di iniziative funzionali o specifici
contratti che poggiano sul modello multi-stakeholder (privato
profit e non profit, insieme al pubblico) e su approcci volontari. I
partenariati pubblico-privati, analizzati con forte spirito critico da numerosi
studi accademici e contestati come “pericolosi” da un’ampia rete di
organizzazioni della società civile, vengono considerati in letteratura la
risposta più accreditata e ideologica al nuovo rapporto fra Stato e mercato
imposto dalla deregulation della
globalizzazione. La salute è sotto assedio. Lo stesso vale del resto per quasi
tutti i settori di gestione della società: le partnerships sono
perfettamente strumentali alla privatizzazione dei servizi pubblici e al
processo di finanziarizzazione della agenda
sociale, in settori decisivi per la vita delle persone.
Nessuno osa
dubitare che la salute sia una condizione essenziale allo sviluppo sostenibile.
La realizzazione dell’obiettivo 3 della Agenda 2030 – “garantire vite sane e
promuovere il benessere” – richiederà secondo le proiezioni una spesa annuale
di 274 miliardi di dollari entro il 2030. Altri 371
miliardi serviranno solo per rafforzare i sistemi sanitari. Si tratta di
traguardi strutturali che richiedono visione profonda, campagne convincenti di
promozione della salute, politiche adeguate e coerenti in senso generale (non
solo medico). Finora invece chi ne ha tratto vantaggio è l’industria della
salute. Un business famelico e garantito:
le stime indicano come la spesa sanitaria globale sia destinata a salire del 50%
entro il 2030, soprattutto nei mercati emergenti, cioè i Paesi a medio reddito.
Per paradosso, l’aumento della spesa produrrà come effetto l’innalzamento dei
livelli di disuguaglianza sanitaria in seno alle singole nazioni.
Ma siamo
sicuri che sia un paradosso? La finanziarizzazione e privatizzazione della
salute sono tendenze in gran voga. Il mercato cresce senza alcuna
considerazione per gli effetti a lungo termine di questo processo, che non
risparmia l’entusiastico appoggio del Terzo settore. L’espansione
di modelli che in nome della sostenibilità estraggono profitti da situazioni di
vulnerabilità, come quello del fondo Ebola, emerge come una lacerante
contraddizione, ma sembra aver definitivamente catturato i circuiti
internazionali e le istituzioni dello sviluppo se è vero, come è vero, che sono
le organizzazioni multilaterali e i singoli governi, a scortare i titolari di
fondi di investimento e di capitale privato nelle praterie della salute
globale.
La Copertura
sanitaria universale (Universal Health Coverage, UHC), la
principale strategia sanitaria degli Obiettivi
dello Sviluppo sostenibile (OSS), è la traiettoria globale per la
finanziarizzazione della salute. Era stata pensata in origine con una forte
vocazione alla funzione pubblica nel finanziamento della salute e nella
regolamentazione della qualità e gamma delle prestazioni. La nozione da cui
aveva preso avvio il dibattito all’ONU nel 2005, prima a Ginevra e poi a New
York, ruotava intorno alla constatazione del fallimento del mercato e al
principio della salute come bene comune, di cui lo Stato deve avere piena
responsabilità. Poi il discorso internazionale ha virato verso le esigenze
della copertura finanziaria e l’idea che le prestazioni potevano essere erogate
indistintamente di entità pubbliche o private, purché ci fossero fondi, nel
buon nome dell’inclusione finanziaria e dell’estensione di servizi finanziari
alle comunità in difficoltà.
Pur nella
grande varietà applicativa, oggi la Copertura sanitaria universale si
caratterizza come una monumentale concertazione volta a promuovere schemi
assicurativi di finanziamento della salute basati su pagamenti volontari,
adattati di volta in volta alle capacità di spesa dei singoli, anche in termini
di gamma di prestazioni. Accanto al boom delle
assicurazioni, cresce il business delle strutture sanitarie private. L’euforia
assicurativa non riguarda solo i Paesi del Sud del mondo, ma anche società
tradizionalmente dotate di forti sistemi di sanità pubblica.
In Italia ad
esempio, dove l’istituzione nel 1978 di un servizio sanitario universalista ha
avuto una funzione chiave per lo sviluppo socio-economico del Paese, la spinta
verso i modelli assicurativi sta producendo il doppio effetto di smantellare
ciò che resta del Sistema sanitario nazionale (SSN) e di provocare uno
straordinario incremento della spesa privata, aumentata del 9,6% dal 2013 al
2017, con il conseguente indebitamento per circa 7 milioni di persone.
Approcci
anche molto diversi di micro-finanza dischiudono opportunità originali per
trasformare la malattia delle popolazioni in zone di investimento, e creare
nuovi meccanismi di estrazione del denaro dai poveri, spesso con la
facilitazione di grandi entità filantropiche. In questa trasformazione, i
cittadini vengono “invitati a organizzare la loro personale gestione del
rischio ed esporsi direttamente ai mercati finanziari, tramite la richiesta di
prestiti e l’acquisto di pacchetti assicurativi”, commentano Benjamin Hunter e
Susan Murray nei loro studi. Questo significa che le persone, da titolari del
diritto universale alla salute diventano “soggetti investitori”.
La
finanziarizzazione della salute pone dunque una serie di questioni complicate:
·
una
questione di qualità della governance della
salute: il modello assicurativo e privatizzato produce una
forte dispersione e frammentazione nella gestione della salute, e un notevole
grado di ibridazione istituzionale, a tutti i livelli, destinata a favorire
l’impotenza del settore pubblico;
·
Una
questione di democrazia: i mercati finanziari sanitari sono basati su contratti
privati e concertazioni che eludono in genere lo scrutinio pubblico, in un
territorio che dovrebbe imporre trasparenza e capacità di dar conto delle
scelte a favore di equità e giustizia sociale;
·
Una
questione di mercato: la finanziarizzazione delle prestazioni sanitarie espone
le persone che ne hanno bisogno alle imprevedibili impennate della finanza
internazionale e alla volatilità delle speculazioni;
·
Una
questione culturale: si promuove in questo modo il consumismo sanitario e una cultura iper-medicalizzata, in relazione alla
desiderabilità dei servizi sanitari cui accedere.
Gli
strumenti di mercato non sono mai neutrali. E come abbiamo per il fondo PEF
contro le catastrofi epidemiche, possono sussistere tensioni morali non
indifferenti nel terreno della salute. Territorio, in ultima analisi, del
diritto alla vita.
Note e riferimenti:
2 Dentico N. e Acuna D.L.,”Il tardo risveglio
dell’Oms sul virus Ebola”, Sole 24 Ore Sanità,
30 gennaio 2015, https://www.sanita24.ilsole24ore.com/art/commenti/2015-01-30/tardo-risveglio-virus-ebola-181901.php?uuid=AbcuTg4K.
7 J138568_CFJ_Mini_Reports_Health_WEB.pdf
9 Judith Richter, “Public-Private Partnerships for
Health: a Trend with no Alternatives?”, Development 47(“), 2004,
pp.43-48.
12 F. Carraro e M. Quezel, Salute SpA: La sanità Svenduta alle Assicurazioni,
Chiarelettere, Milano, 2018.
13 B. Hunter e S. Murray, Deconstructing the
Finanzialization of Healthcare”, Development and Change,
6 giugno 2019, 0(0), 2019, pp. 11.
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